Un nuovo, devastante capitolo della guerra in Sudan si è consumato giovedì nella
città di Kalogi, nello Stato del Kordofan, dove un attacco con droni ha colpito
un asilo nido uccidendo almeno 50 persone, tra cui 33 bambini. Lo riporta la
BBC, citando l’organizzazione Rete dei Medici Sudanesi e l’esercito sudanese,
secondo i quali a compiere l’attacco sarebbero state le Forze di Supporto Rapido
(RSF), il potente gruppo paramilitare in conflitto con le forze armate regolari
dal 2023.
Le comunicazioni nella zona sono state interrotte per ore, rendendo difficile
ricostruire con precisione la dinamica e il bilancio delle vittime. L’episodio
si inserisce in una fase di intensificazione degli scontri, sempre più
concentrati nelle regioni petrolifere del Kordofan, dove entrambe le parti
cercano di ottenere vantaggi strategici.
Le RSF, da parte loro, respingono ogni responsabilità e accusano l’esercito
sudanese di aver compiuto un attacco simile il giorno successivo, colpendo un
mercato e un deposito di carburante nella regione del Darfur, nei pressi del
valico di frontiera di Adre con il Ciad. Anche in questo caso non è ancora
chiaro il numero delle vittime.
Mentre le accuse tra le due forze armate si moltiplicano, Amnesty International
nei giorni scorso ha pubblicato un nuovo rapporto da cui emerge la gravità delle
violenze commesse nel Paese. Secondo l’organizzazione, le RSF si sarebbero rese
responsabili di crimini di guerra durante l’attacco al campo per sfollati di
Zamzam, nel Darfur settentrionale, avvenuto ad aprile. L’assalto, durato diversi
giorni, ha comportato l’uccisione di civili, prese di ostaggi e la distruzione
sistematica di moschee, scuole, cliniche e abitazioni.
Il campo di Zamzam era uno dei più grandi del Sudan, con una popolazione di fino
a 500.000 sfollati. L’attacco lo ha quasi completamente svuotato. Secondo
Amnesty, tra le vittime vi erano almeno 47 persone uccise mentre si nascondevano
nelle loro case, in cliniche o in moschee. Testimoni e sopravvissuti hanno
raccontato episodi di omicidi, torture, violenze sessuali e saccheggi diffusi.
La crisi umanitaria in Sudan continua così a peggiorare, con milioni di persone
in fuga, infrastrutture civili sistematicamente prese di mira e nessuna
prospettiva concreta di cessate il fuoco tra le parti. L’attacco all’asilo di
Kalogi rappresenta soltanto l’ultimo di una serie di episodi che confermano come
il conflitto stia precipitando verso una spirale di violenze sempre più
indiscriminate.
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Ha raccontato la sua storia e il suo percorso migratorio insieme ad Alessandro
Baldini, nel libro Dalla terra del dio serpente al C.A.R.A Milano. Kalid Abaker
è arrivato in Italia dal Sudan nel 2017 e oggi vive a Vigevano con la moglie e
una figlia di quattro anni. Laureato in statistica, ha 37 anni, lavora e studia
Data Science all’Università Bicocca di Milano.
Dal Sudan, dove era impiegato con l’Unicef, è dovuto fuggire per motivi
politici, perché perseguitato dal regime. Il primo viaggio, nel 2013, è finito
in un carcere libico, da dove è fuggito, dopo quattro mesi, per tornare di nuovo
nel suo Paese. Dopo aver lavorato lì due anni ha provato di nuovo, sempre
passando per la Libia e poi con un barcone fino in Italia.
Oggi, oltre a lavorare e studiare, Kalid Abaker è direttore per l’Italia di
Support Survivors of African War, un’evoluzione del progetto “Support survivors
of Sudan War”, dedita al supporto dei sopravvissuti delle guerre africane, con
il progetto Sudan come obiettivo primario e punto di partenza.
Il progetto è concreto e mira a supportare sul territorio africano e in
particolare sudanese rifugiati, donne e bambini. “Mettersi in contatto con le
persone in Sudan è difficile”, spiega Kalid Abaker, “ma noi dobbiamo fisicamente
sostenere le persone sfollate dalle loro case. E lo facciamo, ad esempio,
mandando un container di aiuti umanitari, che includono materiali scolastici,
beni e medicine. Su questo fronte ci hanno aiutato alcune associazioni, come
Mediterranea e il Banco farmaceutico di Milano. Vogliamo raggiungere le persone
che vivono nei campi, che sono fuggite per andare nei campi rifugiati di
Abougoudam e Adaré nella città di Abashè, dove ci sono più di quattro milioni di
persone. Non solo. Stiamo realizzando un ulteriore progetto più grande, basato
sempre sullo studio della situazione di coloro vivono nei campi profughi e che
partirà a gennaio, sempre un aiuto direttamente sul posto. Grazie a Mediterranea
e Rescue Team”.
L’associazione assorbe tante energie: Kalid Abaker lavora fino alle sedici, poi
dopo quell’orario si dedica a tutti gli aspetti organizzativi. “Siamo un
centinaio di volontari”, spiega, “la maggior parte sudanesi, ma ci sono anche
italiani. Inoltre, sono anche segretario del Coordinamento italiano delle
Diaspore per la Cooperazione Internazionale (CIDCI) creato due anni fa. Noi come
associazione abbiamo aderito al Coordinamento in Lombardia”.
Occuparsi di guerra in Sudan non è facile. L’attenzione pubblica, infatti, è
soprattutto focalizzata su Gaza. “Sì, è così e infatti questo tema lo abbiamo
sempre portato avanti. Abbiamo sofferto moltissimo per la guerra del Sudan,
anche perché non ne parla nessuno. Per questo quando abbiamo iniziato abbiamo
subito pensato di fare una cosa di advocacy, parlando di ‘guerra silenziosa’.
Sono andato in giro per l’Italia a fare conferenze e incontri, ma anche in
Francia e in Germania. Il problema è che si tratta di una guerra civile, non è
una guerra di aggressione, non c’è un attacco da un’altra nazione, non è come
l’Ucraina o la Striscia di Gaza, ma c’è lo stesso dolore, anche se la soluzione
dovrebbe essere interna. Noi non chiediamo di intervenire, ma di non ignorare la
sofferenza che è uguale anche se la guerra è civile. Piano piano per fortuna
siamo riusciti a dare questa visione alla maggior parte degli italiani, si sa
cosa sta accadendo, grazie anche alle associazioni che ci hanno aiutato”.
L’idea di Kalid Abaker e di “Support Survivors of African War” è quella di far
diventare il loro progetto un progetto pilota, “che possa poi aiutare Paesi
africani con caratteristiche simili al Sudan in cui ci siano profughi: Egitto,
Etiopia, e anche per il Congo stiamo cercando di capire come trattare, anche lì
dobbiamo cercare di provare qualche strategia per aiutare i congolesi. Quello
che vogliamo è avere una visione, questa è la cosa più importante, anche per
coinvolgere le persone della diaspora nell’associazione, perché non dimentichino
il loro Paesi di origine. Il Sudan non si conosce, Gaza sì, anche perché la
situazione di conflitto c’è da tanti anni. Noi”, conclude Kalid Abaker,
“cerchiamo di lavorare su questo doppio fronte. Aiuto materiale, concreto. E
advocacy, perché tutti possano conoscere la situazione nel mio, nostro Paese”.
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of African War portiamo aiuti dove i riflettori sono spenti” proviene da Il
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