Questa volta non è andata. Dopo Dante, la Costituzione, i Dieci comandamenti,
dopo essere riuscito a emozionarci persino parlando del carbone e dell’acciaio
come punto di partenza per l’Unione europea, Benigni è inciampato nell’occasione
che sembrava meglio prestarsi alla sua narrazione, la vita di Pietro. Non è
andata: anche gli ascolti ci parlano di un buon risultato ma non di quel boom a
cui ci avevano abituato queste serate (Il sogno, il racconto dell’unione
europea, tema più ostico, meno popolare aveva fatto un 4 per cento in più). La
cosa mi dispiace, non faccio parte della schiera di coloro che da anni
rimproverano a Benigni la sua vena celebrativa e aspettavano con ansia una sua
caduta. Io, sia chiaro, a Benigni, per usare un’espressione su cui ieri sera ha
fatto molte riflessioni, voglio bene. Ma questa volta, lo dico a malincuore,
qualcosa non ha funzionato. Che cosa? Non mi addentro nei contenuti del
racconto, nelle questioni scientifiche dell’archeologia, dell’agiografia o della
teologia, nel suo modo di leggere i Vangeli, ciò che sempre è esposto a critiche
severe.
Mi limito ai problemi della costruzione del racconto e della sua messa in scena
televisiva.
La prima cosa che non ha funzionato è lo spazio. Benigni ci aveva abituato per
queste due serate a delle ambientazioni “povere”, essenziali, raccolte, rese
calde dal legno del palcoscenico e degli spalti, in cui spiccava talvolta il
rosso del suo semplice maglione. Paradossalmente la scelta di un luogo
prestigioso, evocativo come i giardini vaticani non ha giovato. Quell’aiuola
così ben curata, il pubblico disposto a semicerchio distante dalla pedana, le
frequenti inquadrature dall’alto hanno creato un clima di fredda ufficialità, in
cui anche la partecipazione dei presenti è apparsa un po’ stentata.
Poi c’è la narrazione e qui mi pare che a Benigni sfugga di mano qualcosa, che
manchi un po’ di equilibrio. Ci sono, come è noto, due fasi nella vita di
Pietro, quella palestinese accanto a Gesù e quella romana, quella del Quo
vadis?. La prima è testimoniata dai vangeli con grande precisione, la seconda è
più incerta, piena di misteri, di leggende che si intrecciano con le vicende
storiche della diffusione del cristianesimo a Roma. Ma nel percorso scelto da
Benigni questa seconda parte che avrebbe molti spunti emozionanti, una sua
dimensione avventurosa, popolare in cui Roberto si trova particolarmente a
proprio agio è invece compressa, lasciata a un finale frettoloso.
Nella prima parte, invece, lo squilibrio è di altro tipo. Poiché il tema è
Pietro, la sua figura, la sua personalità, sembra delinearsi a un certo punto
un’immagine interessante, molto umana, quello di un Pietro un po’ impacciato,
non molto sveglio, uno di quei giovani buoni ma che non capiscono mai bene cosa
fare al punto da far perdere la pazienza ai santi, anzi al Cristo stesso.
Purtroppo dopo aver costruito così gradevolmente il personaggio, Benigni lo
lascia perdere per abbandonarsi a lunghe considerazioni sulla portata
rivoluzionaria del messaggio cristiano, digressioni risapute che fanno perdere
al racconto il suo punto centrale.
Passione, il pathos che è sempre stato il punto forte di queste operazioni di
Benigni, così se ne va e per ritrovarlo bisogna aspettare i saluti finali
calorosi, autentici, sinceri come sempre accade con Roberto. Ma questa volta è
troppo poco.
L'articolo Benigni è inciampato su Pietro. E la cosa mi dispiace proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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Il 14 ottobre erano partite, in batteria, le dichiarazioni indignate di
dirigenti e parlamentari di Fratelli d’Italia che parlavano di “parole
gravissime” e di “propaganda pro-Palestina”. Gli stessi dirigenti del partito di
Giorgia Meloni in vigilanza Rai avevano presentato un’interrogazione
parlamentare per chiedere conto alla televisione pubblica. I giornali di destra
il giorno successivo avevano fatto titoli emblematici: “Il delirio dell’inviato
del Tg3”, scriveva Libero. Oggi, due mesi dopo, è la stessa Rai a spiegare nero
su bianco che il giornalista Jacopo Cecconi durante la sua cronaca fuori dallo
stadio Friuli di Udine tra Italia e Israele non abbia mai parlato di
“eliminazione” dello Stato ebraico ma, anzi, che abbia fatto il suo lavoro
correttamente: le sue parole sono state “estrapolate” dal discorso creando un
caso dove non c’era perché si riferiva solo al calcio e non alla guerra.
A dirlo sono gli stessi vertici della Rai rispondendo all’interrogazione degli
esponenti meloniani in vigilanza Rai, a prima firma di Francesco Filini,
responsabile del programma di FdI e vicinissimo al sottosegretario alla
presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari. Nella loro interrogazione i
meloniani riportavano solo una parte dello speech di Cecconi: “L’Italia avrà la
possibilità di eliminare Israele almeno sul campo, vincendo”. Espressione che,
secondo gli esponenti di FdI in Vigilanza, “per il suo evidente riferimento al
drammatico contesto internazionale e per la delicatezza del momento storico, è
apparsa gravemente inopportuna e suscettibile di essere interpretata come un
messaggio di ostilità nei confronti dello Stato di Israele e del suo popolo“. Da
qui la richiesta alla Rai di prendere le distanze e soprattutto di prendere
“provvedimenti” nei confronti del responsabile del servizio.
Peccato che Viale Mazzini ora spieghi che non sia andata proprio così. E lo
scrive nella risposta all’interrogazione depositata mercoledì in commissione di
Vigilanza. Nell’atto i vertici della Rai ricostruiscono l’accaduto spiegando che
nell’edizione delle 19 del 14 ottobre Cecconi, collegato da Udine alla vigilia
della partita Italia-Israele “raccontava in diretta, mentre alle sue spalle
sfilava il corteo, la protesta Pro Pal di chi sosteneva che la partita di calcio
Italia-Israele non dovesse giocarsi perché la squadra di Tel Aviv avrebbe dovuto
essere esclusa a tavolino dai Mondiali”.
Poi la Rai riporta testualmente tutto l’intervento di Cecconi: “Da questa piazza
arriva il messaggio che queste persone ritengono che la partita non si dovesse
giocare, che Israele dovesse essere esclusa dalle manifestazioni o che la FIGC
si rifiutasse di scendere in campo. Allo stadio, che si trova a 4-5 chilometri
da qui, ci saranno 10 mila persone, circa la metà della capienza. L’Italia ha la
possibilità di eliminare Israele almeno sul campo, vincendo”. Uno speech
piuttosto chiaro senza alcun riferimento alla guerra in corso a Gaza. “Questa
frase della durata di 26 secondi, sui social è stata tagliata e ridotta agli
ultimi otto secondi: ‘L’Italia ha la possibilità di eliminare Israele almeno sul
campo, vincendo’ – continua la Rai –. Purtroppo, la riduzione della frase e la
sua estrapolazione dal contesto possono aver generato un fraintendimento,
favorendo l’attribuzione di un significato estraneo alla volontà del giornalista
o ad affermazioni di contenuto politico”.
Ma non è così, secondo viale Mazzini: “Nella sua versione integrale – si legge
nella risposta – è evidente come Jacopo Cecconi si riferisse esclusivamente al
risvolto calcistico della vicenda, senza alcun riferimento o allusione
all’eliminazione dello Stato di Israele”.
L'articolo La Rai sconfessa FdI e difende il cronista che disse: “L’Italia può
eliminare Israele, almeno sul campo”. “Frase estrapolata” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Una mattina del dicembre 2022 il postino ha suonato in un appartamento di
Centocelle (Roma), con una lettera dal Quirinale. Edwige Pezzulli, astrofisica
precaria, era convocata dal presidente Sergio Mattarella perché, a 34 anni,
sarebbe diventata Cavaliere della Repubblica per via del suo eccellente lavoro
di divulgatrice. Meno di tre anni dopo, invece, nessuna lettera è arrivata per
comunicare a Pezzulli che sarebbe rimasta senza lavoro dal giorno dopo: il suo
“contratto” infatti, cioè l’assegno di ricerca, anomalia tutta italiana (e tutta
accademica) che prevede un fisso mensile senza orari, contributi, malattia,
ferie, riposi, non prevede neppure che debba essere comunicato il mancato
rinnovo. Dopo sei anni di lavoro all’Istituto nazionale di astrofisica, sempre
con assegni di ricerca rinnovati di anno in anno, Pezzulli è rimasta a casa
dall’oggi al domani: i soldi per il rinnovo non ci sono più, i soldi per le
stabilizzazioni (previste da una legge del 2016 dopo tre anni di precariato)
neppure. E l’assegno di ricerca, completamente estraneo al diritto del lavoro
dell’Italia e dell’Europa, dal 2025 non si può più fare: un contratto normale,
con contributi pagati, costa il doppio.
Il caso Pezzulli è anomalo data la visibilità mediatica della ricercatrice, che
anni fa ha iniziato a collaborare con Piero Angela, ed è spesso in Rai (in
queste settimane con Scienziate) a parlare di scienza e astri, peraltro con
piena soddisfazione dell’Inaf, fino all’onorificenza di Mattarella. Ma per il
resto è un caso come tanti: con la fine dei fondi Pnrr, e la fine (sacrosanta,
ma non accompagnata dai necessari investimenti maggiori) degli assegni di
ricerca, sono 15/20 mila, calcolano i sindacati, i lavoratori che saranno
espulsi dal sistema universitario e della ricerca in Italia, la più grande
espulsione mai vista nella storia del Paese. Nel solo Inaf gli “stabilizzandi”
in base alla legge del 2016 sono quasi 300, ma la maggior parte degli istituti
di ricerca neppure ha calcolato il numero.
“Edwige è chiaramente la punta di un iceberg autolesionista. Se non viene
riconosciuta neppure alla Presidenza della Repubblica la capacità di valutare
chi può decidere? Finché può essere retribuito poco e rimanere precario la
ricercatrice o il ricercatore possono restare. Quando sono da assumere, invece,
i precari sono da mandare via” spiega Giovanna Rinaldi, delegata di Usb,
sindacato che ha scelto la sua storia per parlare di un problema molto più
ampio. Pezzulli al Fatto ammette: “Quando si è dentro un sistema simile si tende
a normalizzare, a minimizzare l’assurdità. Fino a quando scopri di non avere più
un lavoro”. Lei aveva rifiutato un posto negli Stati Uniti nel 2018, meglio
pagato e più stabile: “Io credo molto nella restituzione al territorio, qui mi
sono formata, qui faccio divulgazione. Ho ritenuto giusto rimanere, pensando che
la situazione si sarebbe sbloccata”. Per questo anche oggi, seppur sia più che
probabile che le arrivino offerte dall’estero, non vuole pensare di accettarle,
almeno per ora.
Ma per lei, e per migliaia di persone (7 mila ricercatori Pnrr, 15 mila
assegnisti di ricerca circa) potrebbe essere l’unica alternativa, una
dispersione di risorse umane, ed economiche, dato quanto questo paese spende per
formare eccellenze, senza pari. “In qualunque altro contesto produttivo,
l’espulsione di 20.000 lavoratori e lavoratrici avrebbe innescato un allarme
sociale, un’attenzione collettiva, un dibattito politico. Accade nell’università
italiana e sembra circondato dal silenzio e la rassegnazione” nota la Flc Cgil.
Peraltro, inizia a strutturarsi un assurdo: i più importanti bandi europei per
l’assunzione di ricercatori, anche in Italia, prevedono la successiva
stabilizzazione. I bandi italiani no. Anche chi non vuole andare all’estero,
dovrà essere valutato da una commissione estera per avere la certezza di non
poter essere scartato dall’oggi al domani. Non è più una fuga dei cervelli, è un
invito ad andarsene.
L'articolo Italia, ricerca anno zero: in 15.000 senza contratto. E non ti salvi
neppure se ti ha premiato il presidente Mattarella proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La prima puntata de L’altro ispettore, nuova fiction di Rai 1 tratta dai romanzi
di Pasquale Sgrò e liberamente ispirata a fatti di cronaca, è andata in onda il
2 dicembre mentre in tutta Italia si teneva la mobilitazione nazionale del
personale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (INL). Una coincidenza fin
troppo eloquente per una categoria che è “in mobilitazione da anni”, reduce da
tre scioperi e da una lunga serie di comunicati unitari, come ricordano i tre
sindacalisti Ilaria Casali (Uilpa), Matteo Ariano (Fp Cgil) e Giorgio Dell’Erba
(Usb) che proprio ieri hanno firmato l’ultimo, appena prima di sintonizzarsi su
Rai 1 per il debutto del loro “collega”, l’ispettore del lavoro Domenico Dodaro,
interpretato dall’attore Alessio Vassallo. Il Fatto ha raccolto i loro commenti
a caldo: riflessioni che, tra apprezzamenti e amarezze, mettono a fuoco finzione
e realtà, ma soprattutto la distanza tra il mondo del lavoro e le tutele che
ancora mancano.
La fiction, dicono, ha il merito di “dare visibilità a un lavoro quasi
invisibile”, quello di chi ogni giorno entra nelle aziende per tutelare diritti
e sicurezza, quasi mai nel piccolo schermo. Ma la voglia di riconoscersi non
manca, anche nella bicicletta del protagonista: “Due o quattro ruote, sempre di
mezzi personali si tratta se qualcuno ci spacca un vetro o peggio, tocca pagare
di tasca propria”. Strappa un sorriso anche l’ufficio di Lucca, dove è
ambientata la serie, con tre sole persone. “Scene che ricordano i nostri uffici,
dove il sotto-organico è ormai strutturale”, ricorda Casali, tra personale
amministrativo ridotto all’osso, concorsi che non coprono nemmeno i posti a
bando e personale in fuga verso opportunità più remunerative. Anche nella sede
di Lucca, quella vera, l’attività ispettiva è ridotta perché una parte degli
ispettori è impegnata in attività amministrative per supplire alla carenza di
funzionari amministrativi, riferisce la Cgil.
Perché di cose da dire ne hanno parecchie. A partire dal patrocinio di Palazzo
Chigi del ministero del Lavoro alla serie. Proprio quel ministero che,
denunciano, ha appena ammesso l’intenzione di superare l’autonomia
dell’Ispettorato nazionale e riportarlo sotto la diretta gestione del dicastero
di Marina Calderone. Lo definiscono un paradosso: “Si illustrano al grande
pubblico gli ‘eroi di tutti i giorni’, mentre il governo si prepara a comunicare
l’intenzione di chiudere l’INL”, hanno scritto nel comunicato del 2 dicembre,
dopo il flash-mob sotto la sede Rai di via Teulada a Roma e l’assemblea
nazionale partecipata da oltre seicento colleghi, a conferma di una tensione che
monta da tempo tra gli ispettori, ancora senza risposte su assunzioni,
strumenti, welfare e valorizzazione del personale.
Ma i problemi degli ispettori INL sono anche quelli del Paese, quelli che
emergono dai risultati del loro lavoro. “Nel campo della sicurezza, le ispezioni
che riscontrano irregolarità superano l’80%”, spiegano. “In Italia i tre morti
al giorno sul lavoro sono frutto di un sistema che pretende di utilizzare catene
di subappalti che leggi e governi agevolano”, attacca Ariano. “In questo sistema
gli organi di controllo, non solo gli ispettori, ma anche la Corte dei Conti, la
magistratura tutta, devono stare al loro posto, fedeli alle parole della
presidente del Consiglio: “Noi non disturberemo mai chi produce ricchezza”.
Anche quando produrre ricchezza determina sfruttamento e morte”. La prima
puntata della fiction è ispirata alla morte sul lavoro di Luana d’Orazio,
operaia ventiduenne, madre di un bambino di 5 anni, uccisa il 3 maggio 2021 a
Prato perché il macchinario tessile sul quale lavorava aveva i dispositivi di
sicurezza disattivati.
“La fiction racconta il macchinario manomesso per aumentarne la produttività”,
riconoscono. Ma c’è anche l’amarezza per un processo chiuso con patteggiamento e
pene sospese per i titolari e il recente proscioglimento del tecnico
manutentore, assolto per non aver commesso il fatto. “Il caso di Luana D’Orazio
è emblematico: la manomissione delle sicurezze non è neppure penalmente
inquadrabile, o lo è con una debolezza straordinaria”, se la prende Dell’Erba,
che dedicherebbe la seconda serie al processo. “Le normative sono adeguate? I
controlli sufficienti? La patente a punti è stata efficace? A noi sembra di no”.
Servono investimenti, organici, strumenti, terzietà e autonomia e una giustizia
che non lasci scorrere gli anni fino alla prescrizione, come pure accade anche
per le morti sul lavoro. Ma soprattutto, concordano, serve una normativa più
solida che renda il lavoro più dignitoso, perché tutele e salari adeguati
rendono il lavoratore meno ricattabile e meno disponibile ai compromessi, anche
quelli sulla sicurezza.
L'articolo Oltre la fiction, “L’altro ispettore” visto dagli ispettori del
lavoro: “Il governo patrocina la serie Rai ma vuole chiudere l’Ispettorato”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Giacomo Giorgio e Ludovica Martino sono i protagonisti del nuovo film tv
“Carosello In Love”, in prima visione il 30 novembre su Rai 1. “Racconta una
storia dʼamore – spiega il regista Jacopo Bonvicini -. Un amore che, come tante
volte accade nella vita, fa fatica a riconoscersi, a trovare la propria strada.
Mario e Laura si conoscono da sempre, vivono a pochi metri di distanza l’uno
dall’altra e condividono lo stesso ambiente di lavoro, ma nonostante tutto
questo impiegano una vita intera nel tentativo di ‘trovarsi’. Seguendo le loro
vite attraversiamo un pezzo di storia della televisione italiana e nello
specifico di Carosello, un programma che più di ogni altro ha incarnato
lʼevoluzione del costume e della società del nostro paese tra gli anni 50ʼ e 70ʼ
del ‘900”. Abbiamo incontrato i protagonisti del film.
“Mi ha colpito il fatto che mi ha ricordato uno di quei film, senzatempo. Ecco,
quindi, senza fare paragoni impropri, mi ha ricordato un po’ un ‘Harry Ti
Presento Sally’. Le commedie romantiche che poi diventano eterne”, ha dichiarato
Giacomo Giorgio in merito alla sceneggiatura.
Un aneddoto divertente accaduto sul set?
Ludovica Martino: Ma forse tutta la parte del teatro, della struttura storica,
abbiamo lavorato su un set che però era vero.
Giacomo Giorgio: Soprattutto vorrei sfatare questo mito del set divertente,
perché in realtà è divertente fare il nostro lavoro perché è un lavoro che
amiamo, però non è che il set è un parco giochi, è un lavoro serio. Anzi questo
è un film, che tra l’altro, abbiamo fatto con tempi molto serrati.
Ludovica Martino: Però devo dirti che mi sono divertita volto a vederti
invecchiato sul set, avevi il viso tutto bianco! (ride, ndr)
Giacomo Giorgio: Vero! Qualche volta sono ridicolo (ride, ndr)
Dal 1950 a oggi la televisione è un potente mezzo di comunicazione, quali sono
oggi i preghi e difetti?
Ludovica Martino: Per quanto ci riguarda che facciamo gli attori è un mezzo per
raccontare le bellissime storie personalmente quindi sicuramente è un mezzo più
positivo che negativo. Noi cerchiamo sempre di raccontare le storie che trattano
temi attuali, che possono diventare degli spunti di riflessione. Poi, sì,
potrebbe anche essere che ogni tanto ci sian dei programmi che, invece, sono
‘opinabili per così dire.
Della tv del passato quali sono gli insegnamenti per migliorare la tv di oggi?
Giacomo Giorgio: Mantenendo il divertimento, questo senso collettivo nel cercare
di alzare un pochino più la qualità della culturale in generale.
Qual è il vostro ricordo televisivo a cui siete affezionati?
Ludovica Martino: Io mi sparavo un sacco di cartoni. Vedevo ‘Tre gemelle e una
strega’, con le sorelle vestite di rosa, verde e giallo. Poi mia madre mi
proibiva i ‘Teletubbies’, ma io volevo vederli anche perché un sacco di miei
coetanei li vedevano.
Giacomo Giorgio: A me piacevano ‘L’albero azzurro’ e poi la ‘Melevisione’.
Protagoniste della tv di quei tempi sono state anche le Gemelle Kessler cosa vi
ha colpito della loro arte fino al loro epilogo insieme con il suicidio
assistito?
Giacomo Giorgio: Mi ha colpito il suicidio assistito che è un qualcosa che
reputo degna in una società come dire ‘normale’. Un diritto che bisogna rendere
a disposizione, che deve assolutamente essere regolamentato da una legge e deve
essere permesso da una legge. Un atto di umanità. Umberto Veronesi, a tal
propsito, ha scritto un libro dal titolo “Il diritto di morire”. Per quanto
riguarda invece Carosello c’è citata l’introduzione delle calze più scure per
evitare la nudità dei Caroselli. C’era una parte dove il mio personaggio girava
un documentario che poi veniva bocciato perché si vedevano troppe gambe
scoperte, troppa nudità e allora lui veniva in mente e credo sia preso da un
aneddoto delle Kessler questa cosa di far di dire “sì sì ok metto i pantaloni”
in realtà non è vero, ha fatto mettere le calze scure.
L'articolo “Cosa può insegnare Carosello alla tv di oggi? Mantenere il
divertimento collettivo, cercando di alzare la qualità della cultura in
generale”: così Giacomo Giorgio proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Guardì…Game Over”, è il titolo di un duro comunicato della Fistel Cisl Lazio.
“Quando un autore e regista di lungo corso non riesce più a dare nulla in
termini di creatività e autorevolezza ma anzi, crea solo tensione e confusione
in uno studio televisivo, destabilizzando e calpestando professionalità interne
RAI, dovrebbe capire che è arrivato il momento di passare la mano“, si legge
nella nota della segreteria nazionale del sindacato. Parole molto dure nei
confronti del papà dei “Fatti Vostri”: “E’ arrivato il tempo di lasciare”,
l’invito al regista 82enne.
Secondo il sindacato, Guardì dall’inizio della stagione durante la diretta
creerebbe “situazioni di disagio”, in particolare da quando è stato pensato e
realizzato il programma “Polo regia” con Guardì sostituito da un regista interno
Rai “molto professionale e valente” ma costretto a fare i conti con il famoso
“comitato” che “non perde occasione di comandare da dentro lo studio mettendo in
difficoltà il regista e gli operatori, ispettori di produzione, capo operaio e
direttori della produzione generando inquadrature totalmente sbagliate” e
conduttori mandati “fuori dai puntamenti luce”. Il risultato? “Scompiglio e
confusione durante la diretta a discapito di tutte le professionalità al lavoro
nello Studio televisivo”.
Cisl Fistel Lazio fa poi riferimento a quanto accaduto lo scorso 20 novembre,
quando Guardì in diretta televisiva ha richiamato una arredatrice interna Rai
“con toni perentori e fuori luogo creando un clima a dir poco teso e nervoso”,
con i conduttori Montrucchio e Falchi impegnati a badare a “un terzo conduttore
non richiesto”. “Già da un po’ di tempo la sua condotta era stata oggetto di
discussione interna, per frasi e atteggiamenti sgradevoli consumati, sia in
regia che in studio ma non visibili in diretta dai telespettatori, con toni
aggressivi e totale mancanza di rispetto verso le figure professionali, interne
Rai. Ma ora si è superato il limite, quanto tali comportamenti sono in onda
sotto gli occhi di tutti”, continua la nota.
La FISTel CISL chiude il comunicato con una richiesta diretta ai vertici
aziendali: “Dopo 35 anni, crediamo che sia arrivato il momento di salutare
Guardi, con le sue collaborazioni da regista ed autore che rimarranno nella
storia del day time, come anche i suoi compensi stellari. È giunto il momento di
lasciare spazio ai giovani registi ed autori interni, e godersi la pensione,
facendo ritrovare l’armonia ed il rispetto professionale di tutte e tutti!”.
L'articolo “Michele Guardì lasci ‘I Fatti Vostri’. Comportamenti inaccettabili,
toni aggressivi e totale mancanza di rispetto. Si è superato il limite”: il
comunicato dei sindacati proviene da Il Fatto Quotidiano.
Mediaset e Rai al centro di una nuova telenovela televisiva. O sarebbe meglio
dire una soap turca, considerando il dolce finale per il Biscione. Dopo aver
tirato fuori dal cilindro il fenomeno “La Ruota della Fortuna“, Canale 5
guarderà ancora nel suo passato riacquistando i diritti di “Ok, il prezzo è
giusto“. “Cento, cento, cento”, era lo storico slogan della trasmissione in onda
su Canale 5 dal 1983 al 2001, un titolo rimasto nella memoria degli spettatori
con la conduzione di Gigi Sabani, Iva Zanicchi, Emanuela Folliero e Maria Teresa
Ruta.
Una telenovela, dicevamo. Perché il programma era destinato a Rai1, da collocare
in prima serata per quattro settimane al venerdì sera nei primi mesi del 2026.
Una storia a puntate raccontata dal sito Dagospia che aveva svelato anche il
nome del conduttore prescelto, Flavio Insinna, e la comunicazione di Rai
Pubblicità che aveva ufficializzato l’operazione fissando il debutto per il
prossimo 9 gennaio. In sostanza avevano già iniziato a lavorarci.
L’ennesimo esempio delle tensioni in corso tra i due colossi? Questo suppone il
sito diretto da Roberto D’Agostino. Quando tutto sembrava ufficiale, il colpo di
scena: la mossa di Mediaset in extremis con il ritorno dello storico game che
dalle parti di Cologno Monzese considerano di casa.
Sui social hanno ironicamente parlato della “maledizione” di Iva Zanicchi
ricordando le sue parole a “Belve”: “Come può esistere OK senza Zanicchi?
Ricordate: se fate OK senza di me sarà un flop tremendo”. Non è ancora noto il
nome di chi condurrà la nuova edizione, la collocazione e il periodo di messa in
onda ma lo “scippo” di Mediaset avrebbe creato parecchi malumori nella fu Viale
Mazzini. Dove individuerebbero i colpevoli nella società di produzione
Fremantle, che dopo aver quasi concluso l’affare con la Rai, avrebbe fatto
dietrofront dopo una telefonata del competitor. Con la chiusura di un pacchetto
di programmi, tra cui “Ok, il prezzo è giusto!“, sul tavolo. Episodio che
potrebbe favorire nuovi colpi di scena, dalle possibili ripercussioni in Rai
verso la società di produzione ma anche nuovi “sgarbi” tra Rai e Mediaset.
L'articolo Ok, il prezzo è giusto sarà in onda su Mediaset: storia di una
‘battaglia’ televisiva che vede vincere il Biscione. Lo storico programma
funzionerà? proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Capito, non hanno preso la coppa Davis, cioè amici della Rai, mi verrebbe da
dire una parola che inizia con la ‘v’ e finisce con ‘ergognatevi’“: così
Fiorello durante la ‘sua’ Pennicanza, assieme a Fabrizio Biggio, è andato dritto
e ha criticato la Rai. D’altronde, lo showman difficilmente le manda a dire e
infatti ha proseguito (dopo aver mandato un jingle che ripete ‘fancu**): “Ma non
si può, la coppa Davis! Prima insultano Sinner perché non va alla coppa Davis,
dicono ‘la coppa Davis è importante, importantissima’ e poi però prendono solo
le semifinali”. Biggio, sorridendo, interviene: “Non puoi schernire la Rai
così”.
Fiorello ribatte: “La schernisco eccome! Ma manco su Rai Sport c’è? Quello sul
digitale terrestre… Neanche lì?E allora poi non rompete le palle a Sinner ‘ah
non hai fatto la coppa Davis che è la più importante’, evidentemente non è così
importante perché se la Rai non ha comprato i diritti della coppa Davis…”.
Biggio si allontana ridendo, Fiorello sorride e poi si raccomanda: “Scrivetelo
che sto facendo la filippica…”. E noi lo scriviamo eccome…
> Fiorello che massacra la Rai per non aver comprato i diritti della #daviscup è
> la mia nuova cosa preferita!!#sinner #berrettini pic.twitter.com/gCJdsLFpvi
>
> — ????DanySpina???? (@TrueLoveDany) November 19, 2025
L'articolo “Amici della Rai, mi verebbe da dire una parola che inizia con la ‘v’
e finisce con ‘ergognatevi’, non avete preso i diritti della coppa Davis e
rompete le pa*** a Sinner?”: parla Fiorello proviene da Il Fatto Quotidiano.
“E’ incredibile quello che hanno visto ieri sera i miei occhi per non più di
cinque minuti, fin troppo esaurienti, alla televisione… Ho realizzato solo dopo
un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili l’una all’altra stavano
facendo evoluzioni d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle,
che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e
iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote
incastonate in un ritmo che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile”.
Chi erano sono le due donne molto simili l’una all’altra, i miei venticinque
lettori l’avranno già capito, le gemelle Kessler, ovviamente. Ma chi è che
scrive questi giudizi così severi (e ho tralasciato la parte successiva ancor
più pesante)? Nientemeno che Pier Paolo Pasolini in un articolo apparso su Il
Tempo il 1 novembre del 1969 dal titolo Canzonissima (con rossore). E allora la
domanda sorge spontanea ma soprattutto ineludibile in questo momento in cui le
gemelle Alice ed Helene Kessler vengono celebrate come esempio di una
comunicazione elegante, raffinata e persino protofemminista: come è possibile un
simile giudizio? che senso ha? e aveva ragione Pasolini, qualche ragione?
La mia risposta è no. Quello di Pasolini è un giudizio un po’ superficiale, lui
stesso lo ammette: ha visto cinque minuti, distrattamente a casa di una zia
malata che è andato a trovare insieme con la mamma. Pensate che quel balletto
tanto aborrito è in realtà la sigla di Canzonissima del 1969, realizzata con la
regia del grande Antonello Falqui, un gioco di specchi astratto degno del grande
musical americano, talmente bello che la scenografia è ancora oggi conservata al
Teatro delle vittorie come un’opera d’arte. Questo era il vero pregio di quella
televisione, di essere una televisione opera di registi, una tv d’autore e le
gemelle Kessler hanno avuto la fortuna e il merito di esserne parte integrante,
lungi dall’essere automi, interpreti ben consapevoli del loro ruolo.
Un’interpretazione, la loro, che continuava anche fuori dal palcoscenico, nella
loro vita privata mai mondana, nelle frequentazioni colte, in quella
riservatezza che le rendeva come inaccessibili.
C’è una scena di un film di quegli anni che ben esemplifica questa loro
immagine. E’ il finale di Guglielmo il dentone, il famoso episodio del film I
complessi. Il protagonista, un grande Alberto Sordi, è un giovane preparatissimo
che vuole fare il conduttore del telegiornale, ma la sua aspirazione non si
concilia con il suo aspetto, una dentatura esagerata poco telegenica. Guglielmo
però non demorde, supera tutte le prove del concorso, aggira brillantemente i
trabocchetti che le commissione gli prepara, rifiuta i consigli di chi gli si
presenta come amico e alla fine la spunta.
Quando al termine di una sua conduzione, apprezzata anche dal pubblico, esce
dagli studi orgoglioso e trionfante, appare, ammirato e invidiato, in compagnia
delle gemelle Kessler. È il segno del massimo successo e prestigio per italiano
di quell’epoca: uscire in compagnia delle desideratissime ma irraggiungibili
gemelle. Oggi è bello ricordarle in queste immagine simbolica, divertite e
sorridenti. Alice ed Ellen che vi sia lieve la terra e, come diceva la vostra
canzone, piccola la notte.
L'articolo Pasolini si sbagliava sulle gemelle Kessler: quelle ‘mossucce’ sono
un simbolo della tv d’autore proviene da Il Fatto Quotidiano.
C’è una foto che gira online in queste ore. Quella del festeggiamento del giorno
della Befana al ministero dell’Industria nel 1967. Nella foto in bianco e nero
c’è Giulio Andreotti, ancora giovane, ancora senza occhialoni, sorridente,
giulivo. Alla sua destra c’è Alice Kessler, poi Bice Valori, e l’altra gemella
Kessler, Ellen. L’allora ministro pare al settimo cielo. Del resto la
passionaccia del Divo Giulio per le gemelle tedesche che rivoluzionarono la
presenza femminile in tv a partire dal 1961 è nota. Una specie di inconscia
vertigine democristiana per il proibito che non può passare inosservata. Ai
cronisti Alice ed Ellen offrirono sempre la versione dell’incontro casuale a
Bonn con Andreotti. La chiacchierata (“lunga”), il saluto, lo sbilanciamento:
“Venite a trovarmi a Fiuggi, disse lui. Ci spiegò che sarebbe stata presente la
moglie che avrebbe cucinato per noi. Non siamo mai andate”. Eppure la foto
malandrina è ancora lì. Il Divo e le “dive”. Nel gennaio del ’61 quando Alice ed
Ellen esordiscono a Giardino d’Inverno in Rai per la regia di Antonello Falqui,
Andreotti è già ministro della Difesa. Mentre da pochi giorni è diventato
direttore generale della RAI, Ettore Bernabei, un fanfaniano (quindi agli
antipodi di Andreotti nella DC), vicino all’Opus Dei, che Giuliano Ferrara
definì una volta “distillato purissimo del regime democristiano al suo colmo di
pervasività, efficienza e civiltà politica”.
E ancora, citando la Rai di Bernabei, “strumento di propaganda del regime dc, il
regime para-vaticano dei mutandoni alle ballerine”. I “mutandoni” (o body) li
indossano proprio le Kessler mentre cantano Pollo e champagne, ma soprattutto
indossano delle calze nerissime che nel bianco e nero delle trasmissioni del
1961 fanno pendant con lo sfondo della scena. Quei collant coprenti un metro di
gambe che fanno girare la testa ai maschi italiani (e anche parecchio alle
signore) li volle Bernabei in persona. “Non si doveva mai vedere la pelle”,
hanno spesso ricordato le gemelle tedesche spiegando che durante le prove
generali c’era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava, bloccava,
censurava, modificava. Scollature, lembi di bacino, ginocchia, qualche parola di
troppo. Via tutto. Eppure, come spiegò Andrea Minuz sul Foglio: “Ci si muoveva
sul filo della censura ma intanto si modernizzava il paese”. Basta qualche
flashforward. Da-da-un-pa, La notte è piccola per noi, Su e giù. Tutte sigle di
Studio Uno fino al 1966 e le Kessler sempre con i collant scuri. A dire il vero,
ma forse è l’occhio andreottiano che ci spinge a vedere un dettaglio, le calze
sembrano sempre meno scure. Nel 1962 le Kessler girano uno dei primi spot per la
Omsa, quello del celebre refrain “che gambe!”.
E quando Don Lurio si accascia in ginocchio sul pavimento, rimane incastrato
felicemente tra le gambe, con collant chiaro, di Alice ed Ellen. Nel 1956 però
lo scandalo lo aveva dato la ballerina internazionale, ma italiana, Alba Arnova
nel programma Rai, La Piazzetta. Le sue calze rosa sono le antesignane di ogni
possibile scandalo, ovviamente da superare. Arnova si toglie la gonna larga e
con due ballerini rimane con le calze color carne e un body nero per qualche
saltello di danza. Il Vaticano tuona che quell’apparizione “evoca nudità”. Il
predecessore di Bernabei, Filiberto Guala, sospende tutti. Toccherà attendere
qualche anno con l’ombelico scoperto di Raffaella Carrà a Canzonissima nel 1970.
Ombelico che poi verrà gradualmente coperto da pantaloni a vita alta, ma di
nuovo definitivamente mostrato in Rai sul finire dei settanta. Curioso il
meeting tra gemelle Kessler, Carrà e Mina nel 1974 a Milleluci: Alice ed Ellen
finalmente serene con collant chiari per le loro chilometriche suadenti gambe in
bella vista, la Raffa nazionale mostra il pancino scavato, mentre Mina propone
una scollaturina e le braccia scopertissime. I tempi stanno cambiando, cantava
Bob Dylan. E anche la Rai si adegua. Figuriamoci quando prende il sopravvento la
tv privata. Già nel 1976 su TeleAltoMilanese c’è Aria di mezzanotte. Enzo
Tortora conduce un rotocalco a sera inoltrata con ballerine in bikini,
spogliarelli di Anna Maria Rizzoli, atmosfere alla Oroscopone fantozziano
insomma. Successivamente sarà l’arrivo del Cavaliere e delle sue tv a chiudere
il cerchio, a spogliare le ragazze che, ancora oggi, ancora in Rai, vediamo
sculettare discinte tra un quiz e l’altro. Veline, letterine, professoresse:
gambe scoperte, sogno erotico degli italiani che continua senza più Vaticano e
DC.
L'articolo La suggestione erotica delle gemelle Kessler nella Rai di Andreotti:
tra collant sempre meno neri, la coscienza della Dc e la sentinella vaticana
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