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Kalid Abaker e la guerra silenziosa in Sudan: “Con Support Survivors of African War portiamo aiuti dove i riflettori sono spenti”
Ha raccontato la sua storia e il suo percorso migratorio insieme ad Alessandro Baldini, nel libro Dalla terra del dio serpente al C.A.R.A Milano. Kalid Abaker è arrivato in Italia dal Sudan nel 2017 e oggi vive a Vigevano con la moglie e una figlia di quattro anni. Laureato in statistica, ha 37 anni, lavora e studia Data Science all’Università Bicocca di Milano. Dal Sudan, dove era impiegato con l’Unicef, è dovuto fuggire per motivi politici, perché perseguitato dal regime. Il primo viaggio, nel 2013, è finito in un carcere libico, da dove è fuggito, dopo quattro mesi, per tornare di nuovo nel suo Paese. Dopo aver lavorato lì due anni ha provato di nuovo, sempre passando per la Libia e poi con un barcone fino in Italia. Oggi, oltre a lavorare e studiare, Kalid Abaker è direttore per l’Italia di Support Survivors of African War, un’evoluzione del progetto “Support survivors of Sudan War”, dedita al supporto dei sopravvissuti delle guerre africane, con il progetto Sudan come obiettivo primario e punto di partenza. Il progetto è concreto e mira a supportare sul territorio africano e in particolare sudanese rifugiati, donne e bambini. “Mettersi in contatto con le persone in Sudan è difficile”, spiega Kalid Abaker, “ma noi dobbiamo fisicamente sostenere le persone sfollate dalle loro case. E lo facciamo, ad esempio, mandando un container di aiuti umanitari, che includono materiali scolastici, beni e medicine. Su questo fronte ci hanno aiutato alcune associazioni, come Mediterranea e il Banco farmaceutico di Milano. Vogliamo raggiungere le persone che vivono nei campi, che sono fuggite per andare nei campi rifugiati di Abougoudam e Adaré nella città di Abashè, dove ci sono più di quattro milioni di persone. Non solo. Stiamo realizzando un ulteriore progetto più grande, basato sempre sullo studio della situazione di coloro vivono nei campi profughi e che partirà a gennaio, sempre un aiuto direttamente sul posto. Grazie a Mediterranea e Rescue Team”. L’associazione assorbe tante energie: Kalid Abaker lavora fino alle sedici, poi dopo quell’orario si dedica a tutti gli aspetti organizzativi. “Siamo un centinaio di volontari”, spiega, “la maggior parte sudanesi, ma ci sono anche italiani. Inoltre, sono anche segretario del Coordinamento italiano delle Diaspore per la Cooperazione Internazionale (CIDCI) creato due anni fa. Noi come associazione abbiamo aderito al Coordinamento in Lombardia”. Occuparsi di guerra in Sudan non è facile. L’attenzione pubblica, infatti, è soprattutto focalizzata su Gaza. “Sì, è così e infatti questo tema lo abbiamo sempre portato avanti. Abbiamo sofferto moltissimo per la guerra del Sudan, anche perché non ne parla nessuno. Per questo quando abbiamo iniziato abbiamo subito pensato di fare una cosa di advocacy, parlando di ‘guerra silenziosa’. Sono andato in giro per l’Italia a fare conferenze e incontri, ma anche in Francia e in Germania. Il problema è che si tratta di una guerra civile, non è una guerra di aggressione, non c’è un attacco da un’altra nazione, non è come l’Ucraina o la Striscia di Gaza, ma c’è lo stesso dolore, anche se la soluzione dovrebbe essere interna. Noi non chiediamo di intervenire, ma di non ignorare la sofferenza che è uguale anche se la guerra è civile. Piano piano per fortuna siamo riusciti a dare questa visione alla maggior parte degli italiani, si sa cosa sta accadendo, grazie anche alle associazioni che ci hanno aiutato”. L’idea di Kalid Abaker e di “Support Survivors of African War” è quella di far diventare il loro progetto un progetto pilota, “che possa poi aiutare Paesi africani con caratteristiche simili al Sudan in cui ci siano profughi: Egitto, Etiopia, e anche per il Congo stiamo cercando di capire come trattare, anche lì dobbiamo cercare di provare qualche strategia per aiutare i congolesi. Quello che vogliamo è avere una visione, questa è la cosa più importante, anche per coinvolgere le persone della diaspora nell’associazione, perché non dimentichino il loro Paesi di origine. Il Sudan non si conosce, Gaza sì, anche perché la situazione di conflitto c’è da tanti anni. Noi”, conclude Kalid Abaker, “cerchiamo di lavorare su questo doppio fronte. Aiuto materiale, concreto. E advocacy, perché tutti possano conoscere la situazione nel mio, nostro Paese”. L'articolo Kalid Abaker e la guerra silenziosa in Sudan: “Con Support Survivors of African War portiamo aiuti dove i riflettori sono spenti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Alessandro Bonaccorsi e il “Disegno brutto” in carcere: “Lo scopo è aiutare i ragazzi detenuti a fare pace col passato”
“C’era un ragazzo, in carcere, che si masticava i fogli, perché non gli piaceva quello che disegnava. Un giorno si è disegnato in una buca, che era come si sentiva in quel periodo. Mi sono accorto che la forma della buca che aveva disegnato non era chiusa e quindi gli ho detto, ‘vedi, stai esprimendo il fatto che puoi uscirne’. Il disegno è parte di noi, e spesso rappresenta un pensiero o una sensazione”. Alessandro Bonaccorsi vive a Ravenna ed è un disegnatore, autore, formatore e facilitatore grafico. È anche l’inventore del “Disegno Brutto”, un metodo pensato per chi non sa disegnare, che libera dai condizionamenti e crea nuovi punti di vista sulla realtà. “Uno strumento incredibile per pensare meglio, rilassarsi, divertirsi, capire, comunicare, con un’apparenza scherzosa che nasconde un percorso filosofico di crescita personale”, lo definisce Alessandro. Che lo ha messo a punto dopo anni di ricerca su di sé, passando per diversi fallimenti universitari, per un periodo da allenatore di pallavolo semiprofessionista e di grafico-operaio in una grande industria grafica, fino a diventare un creativo freelance vent’anni fa. A un certo punto, arriva l’idea di un nuovo modo di disegnare, il Disegno Brutto, appunto. Esploso sui suoi social network ben prima della pandemia (nel 2017). Da quel momento lo ha insegnato in tutta Italia, in decine di corsi, agli infermieri come ai manager, ai docenti come agli impiegati, in associazioni, festival, musei, aziende, persino università. Un anno fa è stato chiamato dalla Fondazione “Terre Des Hommes” per un progetto nel carcere Beccaria di Milano. “Cercavano delle attività per far capire ai ragazzi che c’è un altro modo di pensare e che avessero un approccio originale”, racconta. Il Disegno Brutto è uno dei laboratori proposti da Terre des Hommes con il progetto Chance (avviato con il sostegno di Enel Cuore). Un progetto che mette al centro la persona, a prescindere dal reato, o dalla divisa e che vuole favorire il dialogo tra minorenni detenuti, agenti e operatori offrendo nuove possibilità di espressione, crescita e comprensione reciproca. Alessandro ha iniziato un primo laboratorio, a gennaio di quest’anno, fatto da sette incontri, che si ripeteranno poi per altri due corsi. “Si lavora nel refettorio della sezione, una quindicina di ragazzi ogni volta, li chiamo dall’uscio delle celle. Mi aiuta una mediatrice culturale di lingua araba, perché molti detenuti sono arabofoni. L’obiettivo è dare la possibilità di creare un nuovo racconto di sé, lavorare sulla loro identità così come sulla relazione con l’altro. Qualunque cosa disegnano va bene, lo scopo è far sì che si lascino andare, farli entrare in comunicazione attraverso il segno, ancora lavorare sulla memoria del luogo da cui sono venuti e sull’immaginazione di un possibile futuro”. Il Disegno Brutto è un metodo che favorisce questi aspetti. In particolare, aiuta il racconto del tempo, e quindi della vita, un tema venuto fuori fin da subito, spiega Bonaccorsi. “Fin dalla prima sessione è venuta fuori l’insofferenza di essere chiusi lì dentro, il fatto che il tempo si ripeta uguale. Un ragazzo ha disegnato un serpente che si mangia la coda e delle persone chiuse dentro il serpente”. Un altro aspetto positivo del Disegno Brutto è l’effetto calmante, “anche i ragazzi che avevano problemi di attenzione, che normalmente non riescono a stare fermi un attimo, sono stati seduti per un’ora a disegnare. Ho scoperto anche che molti sono analfabeti graficamente, per dire, hanno difficoltà a fare cerchi concentrici, e non hanno dimestichezza con la scrittura e il disegno. Hanno abilità di disegno rimaste a quando avevano dieci anni, eppure riescono con quei tratti e quelle figurazioni incerte o infantili a esprimere pensieri complessi”. Durante le due ore, il “maestro” fornisce poche indicazioni essenziali, propone piccoli esercizi, e comunque non dice mai frasi come “potevi farlo meglio”. Non ci si giudica e non si viene giudicati. Il Disegno Brutto è un metodo attraverso cui, anche sbagliando, nell’errare, ci si esprime, e questo crea fiducia, ma anche “un rapporto, anche fisico, i ragazzi mi abbracciano, siamo in un habitat di tranquillità e calma, riusciamo a creare un giardino interiore”. Durante il percorso “emergono emozioni forti. C’è un ragazzo che dopo il secondo incontro mi ha detto che non sarebbe più venuto, perché tutto quello che disegnava lo riportava a un passato, un passato dove stava bene e che ora non c’è più. Però passa sempre a salutare, anche se non si siede. Anche questo è, comunque, un rapporto”. L'articolo Alessandro Bonaccorsi e il “Disegno brutto” in carcere: “Lo scopo è aiutare i ragazzi detenuti a fare pace col passato” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Luisa e le “Guide per Gaza”: quando il lavoro turistico diventa solidale e aiuta Emergency
Ha conseguito l’abilitazione come guida turistica nel 2010, prima ancora di laurearsi con una tesi proprio sulla Palestina nel 700, “una tesi per rompere quel canone classico secondo cui gli israeliani avrebbero trasformato una Palestina disastrata in un giardino”. Luisa Delle Fratte – un figlio di 13, due cani e due gatti adottati “con una staffetta dalla Sicilia e dalla Calabria” – oggi ha due lavori, uno dei quali è, appunto, quello di aiutare turisti italiani e stranieri e gruppi religiosi a scoprire Roma. Come tutte le guide, ha mille episodi comici da raccontare, “come quella turista che mi chiede perché non gli facevo vedere il David di Michelangelo, che sta a tre ore di macchina, o un altro che credeva che Gesù avesse posato sempre per Michelangelo”. In queste settimane, insieme ad altre colleghe romane, si è unita al movimento delle “guide per Gaza”, in associazione con Emergency, iniziativa che finora ha coinvolto, e coinvolgerà, guide turistiche di Firenze, Napoli, Perugia, Viterbo, Assisi (dove è nata un anno fa). Come funziona? Il meccanismo è semplice. Si stabiliscono alcune date – la prossima a Roma, ad esempio, sarà il 23 novembre, sia per adulti che per famiglie con una caccia al tesoro a San Sebastiano – per visitare alcuni siti (fino ad ora, le guide romane hanno proposto Ostia Antica, i Fori, la centrale di Montemartini). Le guide non prendono nulla, regalano il loro tempo e il loro impegno, le persone fanno una offerta libera che va ad Emergency per due cliniche nella Striscia di Gaza da loro gestite. Luisa, però, non regala solo visite guidate, ma si occupa – insieme ad altre colleghe – anche di curare il blog, fare le locandine, organizzare le prenotazioni. “Ognuna e ognuno fa quel che può. Alcune guide ad esempio hanno deciso di dare parte dei loro proventi per Gaza. Abbiamo anche autoprodotto delle magliette il cui ricavato delle sottoscrizioni libere va sempre in beneficenza”. L’idea è quella di continuare a utilizzare questa formula anche in futuro, magari estendendola ad altre cause, “come ad esempio il Sudan”, spiega Luisa. Ma questa iniziativa non aiuta solo i gazawi, ma anche i residenti romani a basso reddito, che possono usufruire di tour che costano magari cinquanta euro con una piccola donazione. “È il sociale nel sociale”, commenta la guida romana sorridendo. “La nostra idea è che la cultura cura, quindi offrire dei prezzi popolari aiuta le persone in tempi di tagli a tutto. E infatti ci piacerebbe poi regalare anche dei tour abbinati alle domeniche gratuite, in modo da poter usufruire di tutta l’esperienza con poco”. Va menzionata anche un’altra azione “buona” in questa iniziativa, ovvero quella delle compagnie che forniscono le radio per la visita, le danno a un prezzo popolare che girano sempre ad Emergency, “insomma ognuno ci mette un pezzo”, continua Luisa. Che racconta come suo figlio si sia appassionato e la segua sia nelle manifestazioni che nei tour, “ha addirittura fatto il cartello umano alla visita alla centrale di Montemartini, accogliendo le persone. Mia madre, invece, pensionata con l’hobby del cucito e lavoro a maglia, ha fatto tanti cocomeri, simbolo della bandiera palestinese, all’uncinetto, che abbiamo infilato nelle nostre asticelle. E poi c’è il mio compagno, che oltre a seguirmi nella varia iniziative dà anche una mano a smistare le prenotazioni”. Insomma, un lavoro, collettivo di gruppo, buono ma che regala anche la bellezza delle nostre città. Per informazioni: https://www.facebook.com/guidesforgaza e https://www.instagram.com/guidesforgaza/, con tutte le locandine, gli appuntamenti e i contatti. L'articolo Luisa e le “Guide per Gaza”: quando il lavoro turistico diventa solidale e aiuta Emergency proviene da Il Fatto Quotidiano.
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