di Paolo Gallo
È una scena che colpisce: studenti che contestano una riforma universitaria
complessa e divisiva, e una ministra che risponde con espressioni che li
etichettano e li svalutano. Il punto non è giudicare l’emotività del momento, ma
interrogarsi sul significato istituzionale e sociale di un linguaggio che, da un
rappresentante dello Stato, assume un peso simbolico ben più grande di una
semplice battuta stizzita.
Le istituzioni, in una democrazia matura, non hanno solo il compito di
governare: devono anche incarnare un metodo, un tono, un esempio. È naturale che
una figura pubblica venga contestata, soprattutto quando la posta in gioco
riguarda il futuro formativo e professionale di migliaia di giovani. Ma è
altrettanto naturale attendersi che la risposta istituzionale mantenga un
livello di compostezza adeguato, non per formalismo, bensì per responsabilità.
Le parole non sono un dettaglio: definiscono relazioni, costruiscono fiducia o
la erodono.
L’etichettamento ideologico di studenti che esprimono timori e critiche può
produrre effetti che vanno oltre la polemica contingente. Gli studi di
psicologia sociale mostrano come il linguaggio divisivo, soprattutto se
proveniente da figure di autorità, attivi dinamiche di polarizzazione e di
esclusione. Il messaggio implicito rischia di essere: chi dissente non è un
interlocutore, ma un avversario. E quando quest’avversario è composto da giovani
che si affacciano alla vita adulta, il costo collettivo diventa evidente.
Gli studenti che protestano lo fanno quasi sempre perché vivono direttamente le
conseguenze delle scelte politiche: pressioni, incertezze, timori per il proprio
futuro. Ridurre queste istanze a slogan o categorie identitarie significa
perdere l’occasione di ascoltare ciò che il Paese reale prova e chiede.
Significa anche alimentare un sentimento di lontananza tra politica e nuove
generazioni, una frattura che da anni rappresenta uno dei principali fattori di
disaffezione verso la partecipazione democratica.
Una risposta diversa, più attenta e dialogica, non solo sarebbe stata più
coerente con il ruolo di un membro del governo, ma avrebbe potuto trasformare un
momento di tensione in un’occasione di confronto. Le istituzioni non sono
obbligate a condividere le critiche, ma hanno il dovere di ascoltarle con
rispetto. È questa la differenza tra un potere che si sente messo in discussione
e una democrazia che si sente arricchita dal dissenso.
Le parole della ministra non cambieranno la sostanza della riforma, né la
determinazione degli studenti. Ma contribuiscono a definire un clima. Un clima
in cui il dialogo rischia di essere sostituito da etichette, e in cui il
confronto, invece di migliorare le decisioni, viene relegato a scontro
identitario.
L’Italia ha bisogno dell’energia, della competenza e delle domande dei suoi
giovani. E i giovani hanno bisogno di istituzioni che rispondano con rigore,
fermezza, ma anche rispetto. Perché è da questo equilibrio che nasce la fiducia.
E senza fiducia, nessuna riforma può davvero funzionare.
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L'articolo Perché la risposta della ministra Bernini agli studenti che la
contestano divide più della sua riforma proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Riforma Università
“Le cifre sull’espulsione dei precari dall’università italiana ultimamente sono
spaventose. Sappiamo tutti che il reclutamento del personale della ricerca e
dell’università in Italia da molto tempo è un problema gravissimo, affrontato
senza nessuna sistematicità dalle classi dirigenti che si sono succedute in
questo paese”. Anche lo storico Alessandro Barbero prende posizione a favore dei
precari dell’università italiana con un video messaggio pubblicato sulla pagina
social dell’Assemblea Precaria Universitaria di Torino. “Sappiamo che la
precarizzazione del lavoro non riguarda soltanto l’università, ma riguarda tutto
il mondo del lavoro – precisa Barbero – però qui, nel caso dell’università,
veramente si incrociano due delle dimensioni più perverse dell’Italia di oggi.
Mi fermo specificamente sull’Italia, anche se sono problemi che hanno
un’ampiezza maggiore, ma in Italia si presentano in modo particolarmente acuto.
E cioè, appunto, la precarizzazione del lavoro e il nessun interesse per le
persone che hanno lavorato e sono state sfruttate per anni e che poi vengono
buttate via”. Un post dottorando su quattro in tutta l’Università di Torino e
uno su tre in tutta Italia è rimasto senza contratto da inizio anno secondo i
dati citati dall’Assemblea Precaria che definisce il fenomeno come “la più
grande espulsione dal posto di lavoro della storia dell’università”. Ci sono poi
“le cifre incredibilmente basse degli investimenti che il nostro paese fa per
l’Università e la ricerca, e questo è un problema che determinerà la sempre
crescente arretratezza del nostro Paese in futuro”, conclude Barbero.
L'articolo “Persone sfruttate per anni e poi buttate via, cifre spaventose”:
anche il professor Barbero al fianco dei precari dell’Università proviene da Il
Fatto Quotidiano.