Un gruppo di studentesse del gruppo ‘Cambiare Rotta su Bari’ si è incatenato
questa mattina davanti alla sede barese dell’Adisu, l’Agenzia per il diritto
allo studio universitario della Regione Puglia, per protestare “contro il grave
ritardo nell’erogazione delle borse di studio“. “Nei giorni scorsi – spiegano –
è arrivata la comunicazione ufficiale che gli studenti idonei non riceveranno la
borsa entro il 31 dicembre”. L’agenzia “ha annunciato che circa 4.400 studenti
idonei – continuano – riceveranno la borsa solo nei primi mesi del 2026”, mentre
“la Regione Puglia dichiara di aver approvato uno stanziamento di 21 milioni di
euro a favore dell’Adisu, ma i fondi non sono ancora stati trasferiti, causando
ulteriori ritardi. Nel frattempo, migliaia di studenti si trovano ad affrontare
difficoltà economiche concrete, dovendo sostenere spese di affitto, trasporti e
vita quotidiana senza alcun sostegno”.
“Questa situazione – denunciano gli studenti – rischia di peggiorare
ulteriormente nei prossimi anni“, visto che “nella manovra finanziaria, la
ministra Bernini annuncia 250 milioni di euro aggiuntivi per il diritto allo
studio, ma questo dato nasconde i pesanti tagli all’università effettuati lo
scorso anno. In realtà, la manovra comporta una riduzione di almeno 150 milioni
di euro destinati al diritto allo studio e ai servizi essenziali per gli
studenti”. Nel frattempo “aumentano le spese militari, – aggiungono – in linea
con le scelte politiche del governo e dell’Unione europea. Le priorità restano
quindi riarmo e militarizzazione, a discapito di un diritto allo studio
realmente garantito”. La richiesta degli studenti è di “un incontro con il
direttore dell’Agenzia per il diritto allo studio universitario” e “che venga
fissata una data di erogazione di tutte le borse di studio per gli studenti
idonei il prima possibile”.
L'articolo Universitari incatenati a Bari: “Ritardo nell’erogazione delle borse
di studio”. L’azione di Cambiare Rotta proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Università
È stato rilasciato l’uomo sospettato di essere l’autore della sparatoria
compiuta sabato alla Brown University, a Providence nel Rhode Island (Stati
Uniti), costata la vita a due studenti e il ferimento di altri 9. Lo ha
annunciato il sindaco di Providence, Brett Smiley, mentre prosegue la caccia
all’uomo. “Penso che sia giusto dire che non ci sono basi per considerarlo una
persona di interesse”, ha dichiarato ai giornalisti il procuratore generale del
Rhode Island, Peter Neronha. La persona rilasciata è un ex militare con problemi
psichici. “Abbiamo un assassinio in giro, non riveleremo i nostri piani”, ha
concluso Neronha. La polizia ha diffuso un video di 10 secondi in cui si vede il
sospettato, ripreso di spalle, mentre cammina a passo svelto lungo una strada
deserta dopo aver aperto il fuoco all’interno di un’aula al primo piano
dell’ateneo dove si stavano svolgendo gli esami.
LA SPARATORIA E LA CACCIA ALL’UOMO
Ieri le forze dell’ordine avevano fermato l’ex militare di circa trent’anni,
mentre alloggiava in un hotel del Rhode Island con due armi da fuoco. Le
ricerche del killer, con centinaia di agenti a setacciare l’area, erano scattate
subito dopo la sparatoria avvenuta sabato pomeriggio nel campus universitario.
L’assassino aveva aperto il fuoco nell’edificio di ingegneria durante gli esami
finali, dopo essere entrato nella palazzina dei dipartimenti di Fisica e
ingegneria. Joseph Oduro, studente 21enne al quarto anno e assistente didattico,
stava facendo una lezione di economia. Al New York Times ha raccontato che la
lezione era quasi terminata e gli studenti stavano per andarsene.
“All’improvviso, abbiamo sentito degli spari e delle urla nel corridoio”, ha
riferito. Circa tre secondi dopo – ha aggiunto – un uomo con una maschera sul
viso e un fucile è entrato in classe e ha iniziato a sparare. L’uomo ha urlato
qualcosa che, a detta di Oduro, era incomprensibile. Il video di sorveglianza
diffuso dalla polizia mostra il sospetto, vestito di nero, che si allontana con
calma dalla scena. Il suo volto non è visibile e non è chiaro se sia uno
studente oppure no. Forse indossava una maschera mimetica e potrebbe avere
intorno ai 30 anni, avrebbero dichiarato alcuni testimoni.
Due studenti sono stati uccisi e altre 9 persone sono rimaste ferite. Sei
pazienti, secondo quanto riferisce la Cnn, sono in condizioni critiche ma
stabili, mentre uno è in condizioni critiche. Due pazienti sono in condizioni
stabili.
L'articolo Sparatoria alla Brown university, rilasciato l’uomo sospettato di
essere il killer proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il finanziamento, certo, c’è ma è insufficiente e col trucco visto che scarica
sulle università statali la responsabilità di assunzione delle migliaia di
ricercatori precari, gran parte contrattualizzati per i progetti legati al Pnrr.
Col trucco perché proposto con la consapevolezza che gli atenei potrebbero non
riuscire a stabilizzare neanche i soli 1.600 ricercatori “coperti” sui 4.500
individuati dal Governo stesso o, addirittura, sugli oltre 20 mila stimati dai
sindacati in un conteggio che considera tutte le forme di contratti a tempo
determinato su cui si appoggia l’università italiana.
L’EMENDAMENTO
Lo stanziamento è presentato come un “piano straordinario” di valorizzazione e
reclutamento per gli atenei statali e gli enti pubblici di ricerca vigilati dal
Mur (come Cnr, Inaf, Infn, Ingv, Ogs, Inrim) ed è previsto in uno degli
emendamenti alla manovra del pacchetto dei riformulati presentati in commissione
Bilancio. Il testo prevede, per le assunzioni, un cofinanziamento al 50% da
parte del ministero e al 50% a carico dei bilanci dei singoli enti. Vengono nel
complesso stanziati circa 50 milioni con incrementi del Fondo di finanziamento
ordinario delle università (FFO) e del fondo ordinario per gli enti e le
istituzioni di ricerca (FOE). Poco più di 11 milioni dal 2026, poco meno di 39
dal 2027. Le nuove assunzioni avvengono con procedure concorsuali, con una
riserva del 50% dei posti dedicata ai ricercatori attualmente impiegati su
progetti Pnrr.
POCHI INCLUSI
Nel dettaglio, si cofinanziano al 50% le posizioni da Ricercatori in tenure
track (quindi quelle che portano alla stabilizzazione) il resto a carico degli
atenei “entro le proprie facoltà assunzionali”, quindi nel quadro degli attuali
organici. È la stessa relazione tecnica a fornire i numeri: ci sono, secondo il
ministero dell’Università e della ricerca, 4.502 Ricercatori a tempo determinato
(A) in scadenza tra il 2025 e il 2026, di cui 2.574 assunti col Pnrr. E di
questi, si riusciranno a stabilizzare – ammesso che le università abbiano
abbastanza soldi per coprire la loro parte – circa 500 posizioni per il 2026 e
intorno alle 1.100 per il 2027. Quindi poco più di 1.600 se si aggiungono quelli
delle università non statali. “Non a caso – spiega la Flc Cgil – si prevede già
che ci possano esser risorse non utilizzate per questo misero pianetto
straordinario e le si destina, per ogni evenienza, ad integrazione della quota
base del Fondo per il finanziamento ordinario delle università”.
ENTI DI RICERCA
Per gli Enti di ricerca sono invece previsti quasi 8,8 milioni di euro in due
anni per assumere personale ricercatore e tecnologo con le stesse modalità di
cofinanziamento e anche qui una riserva del 50% dei posti per i precari Pnrr in
ruolo al 30 giugno 2025. “In termini concreti, si tratta di circa 240 posizioni,
ma anche in questo caso, non a caso, si prevede già che ci possano esser risorse
non utilizzate e le si destina, per ogni evenienza, ad integrazione del Fondo
Ordinario Enti ed Istituzioni di Ricerca” continua il sindacato.
UNIVERSITÀ PRIVATE
Altri 2 milioni di euro in due anni, con uguali modalità, sono previsti anche
per le università non statali con risorse che potranno permettere in questi
atenei di assumere tutti i ricercatori Pnrr. “A nostra memoria è la prima volta
che si prevede un piano straordinario anche delle università non statali”.
SPICCIOLI CON I TAGLI DEGLI ANNI SCORSI
La Flc Cgil traccia un bilancio pluriennale di tagli e sacrifici, a partire
dalla legge di Bilancio del 2025 che ha previsto per il 2025 un blocco del turn
over dei professori universitari al 75%, che per il 2026 si trasferiva ai
ricercatori nelle università e negli enti pubblici di ricerca. “Questo blocco ha
comportato per gli atenei una perdita di circa 50 milioni di euro e dal 2026
dovrebbe prevedere almeno 65 milioni di euro di trasferimenti annui dal sistema
università e ricerca al MEF”. E ancora, la cancellazione della coda del
cosiddetto “Piano straordinario Messa” che ha destinato agli aumenti stipendiali
del personale 50 milioni di euro dal 2025 e altri 50 milioni dal 2026 che
dovevano esser invece dedicati all’assunzione di nuovi professori, ricercatori e
personale tecnico amministrativo in deroga alle facoltà assunzionali (cioè,
aumentando gli attuali organici degli atenei). “Striminzita. Resta fuori una
ingente platea, tra assegni (prorogati e attivati anche per il Pnrr quando
ancora non erano implementati i Contratti di Ricerca che avrebbero dovuto
sostituirli) e precari “storici”. “A fronte di oltre 10.000 precari Pnrr in
espulsione da università ed enti di ricerca, di cui oltre 2.600 RTDa e oltre 300
TD, a fronte degli oltre 7.200 RTDa ancora in ruolo e in scadenza nei prossimi
due anni, a fronte dei 100 milioni di tagli attuati nel 2024 sul Piano
straordinario Messa e di un intervento garantito dalle opposizioni lo scorso
anno per il solo CNR di 10 milioni di euro, si prevede oggi un intervento
parziale per 1.900 posizioni, sostanzialmente finanziato con le risorse
provenienti dal taglio del turn over deciso nella legge di bilancio dello scorso
anno, di cui già oggi non si è sicuri che saranno effettivamente tutte bandite
per la necessità di un cofinanziamento nel quadro degli attuali organici”.
L'articolo Università, il “piano straordinario” per l’assunzione dei ricercatori
precari: lo stanziamento insufficiente e col trucco proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La catastrofe culturale conseguente alla riforma dell’accesso ai Corsi di Laurea
a numero programmato in Medicina e Chirurgia, Medicina Veterinaria e
Odontoiatria si sta manifestando con l’esito degli esami di ammissione; una
ragione del disastro sta nell’imposizione dall’alto di metodi e tempistiche
inadatti al loro scopo.
Nel semestre cosiddetto aperto, preliminare agli esami di ammissione, le lezioni
delle tre materie previste (Fisica Medica, Chimica e Propedeutica Biochimica e
Biologia) si svolgevano tra l’inizio di settembre e la fine di ottobre. Le date
prestabilite per le due prove di esame, coincidenti su tutto il territorio
nazionale, erano il 20 novembre e il 10 dicembre. Poiché ciascun corso aveva un
carico didattico assegnato di 6 crediti formativi, ciascuno dei quali
corrisponde a 25 ore di impegno dello studente “medio”, la metà delle quali in
aula, è facile calcolare che l’impegno previsto era di 450 ore di studio.
Questo impegno, oltre ad essere molto gravoso, era basato su una tempistica
coercitiva che non lasciava allo studente margini per organizzare lo studio nel
modo da lui preferito. Ancora più coercitiva era la pretesa che si dovessero
sostenere tre esami nello stesso giorno, consecutivamente, con un quarto d’ora
di intervallo tra l’uno e l’altro.
Ogni docente (come ogni ex studente) sa che la maggioranza degli studenti
universitari, se appena ha la libertà di scegliere come organizzare e
pianificare i suoi esami, evita di prevedere due esami nello stesso giorno, e
cerca invece di distanziarli il più possibile nel corso della sessione. Lo
studente ha bisogno di alcuni giorni prima di ciascun esame per ripassare la
materia e mette in atto il “chiusone”, così chiamato perché nei giorni che
precedono l’esame si rifiutano feste, inviti, cinema, partite di calcetto e
altre distrazioni e ci si concentra invece nello studio. Il calendario
ministeriale non consente questa modalità: in primo luogo le lezioni
(obbligatorie) finivano piuttosto a ridosso delle date di esame; in secondo
luogo un chiusone di lunghezza triplicata, necessario per sostenere tre esami,
risulta insostenibile.
Il secondo caposaldo della preparazione dello studente medio è la “sbobina”, che
si pratica in genere in gruppo: uno studente a turno registra la lezione del
docente col telefonino e ne prepara un trascritto; la somma dei trascritti
costituisce la guida allo studio e per gli argomenti trattati con maggiore
dettaglio dal docente può arrivare a sostituire il libro di testo. Alcuni di noi
forniscono direttamente i trascritti, per evitare errori di interpretazione. La
sbobina, come il chiusone, può non essere un metodo di studio ideale, ma in
genere funziona perché gli argomenti di maggiore rilevanza per il corso,
spiegati con maggiore dettaglio, sono anche quelli più importanti per l’esame.
La riforma introdotta quest’anno dal Mur prevedeva che gli esami si svolgessero
su quesiti identici a livello nazionale e preparati da una commissione
ministeriale, della quale non facevano parte i docenti che tenevano i corsi.
Agli studenti che ci chiedevano come sarebbe stato l’esame, non potevamo dare
altra risposta che di guardare le norme pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale,
perché non saremmo stati noi a preparare le domande di esame.
Infine, per completare la costruzione della tempesta perfetta, la riforma
utilizza gli esami come prove di ammissione; mentre nelle prove concorsuali
usuali la graduatoria si basa sui punteggi ottenuti dai candidati qualunque essi
siano, negli esami esiste una soglia di sbarramento data dalla sufficienza: chi
non ha la sufficienza nelle tre materie non entra in graduatoria; questo fa sì
che soltanto una minima percentuale dei candidati appaia meritevole. Il metodo
precedentemente in vigore prevedeva un concorso di ammissione preliminare su
argomenti di logica o tratti dai programmi di liceo, costruiva una graduatoria
senza limiti di sufficienza e non pregiudicava il successivo svolgimento dei
corsi e la preparazione agli esami universitari.
E’ possibile imporre ad uno studente universitario, del quale noi cerchiamo di
valorizzare l’autonomia e l’iniziativa, un sistema rigido, nel quale i suoi
strumenti preferiti, chiusone e sbobina, sono vanificati e l’accesso alla
graduatoria di ammissione prevede una soglia di punteggio? Chi ha il potere, e
l’arroganza necessaria, può imporre molte cose, ma i risultati dell’attività
imposta saranno inferiori, spesso molto inferiori, a quelli che si sarebbero
ottenuti se si fosse lasciata allo studente una maggiore libertà: obbligare
qualcuno a lavorare in un modo piuttosto che in un altro non porta mai al
risultato migliore che quel qualcuno potrebbe produrre.
Inoltre, poiché lo studente lavora per se stesso, ottenere una preparazione
peggiore in un esame di ammissione costruisce un debito formativo che lo
studente, se ammesso, dovrà poi colmare.
L'articolo Così si è costruita la tempesta perfetta per la catastrofe degli
esami filtro a Medicina proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Alessandra
Oggi la ministra del Mur ha esordito dicendo che voleva fare una citazione
storica per contrastare i contestatori presenti, un gruppo di studenti che
lamentava il disagio oggettivo del semestre filtro di medicina. Quale filosofo,
letterato, storico potrebbe aver scelto la ministra dell’Università?
Ha citato Silvio Berlusconi con la frase: “Siete solo dei poveri comunisti”.
Ora, io sono sia una studentessa che un’insegnante, e trovo inaccettabile e
vergognoso che la più alta carica istituzionale dell’accademia usi dei cori da
stadio per confrontarsi con divergenze di opinioni, soprattutto quando queste
vengono espresse da studenti.
L’Università insegna, forma, e non solo nelle aule, ma nella quotidianità:
fornendo modelli, trasformando situazioni in opportunità di crescita e sviluppo.
Se la saggezza individuale fallisce, come in questo caso, tocca a quella
collettiva intervenire, ponendo dei limiti così da evitare la deriva culturale e
sociale. Non possiamo continuare ad accettare che le istituzioni repubblicane
dalle funzioni fondamentali siano abitate da soggetti incapaci di agire il ruolo
richiesto, esprimendosi con il peggior gergo e nell’assoluta assenza di
rispetto, disponibilità all’ascolto e al confronto.
Io penso che ogni italiano meriti molto di più dalla politica, e non per le
limitate conoscenze (nulla di personale nei confronti di Berlusconi o dell’Uomo
ragno citato dalla signora Meloni) ma per la povertà umana di chi ci governa e
di cui, invece, il nostro popolo è ricco e dovrebbe andare fiero!
IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI
CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA
SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST
INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ
INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL
VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA
FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN
RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA”
POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ –
MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM
RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI!
L'articolo Da studentessa e docente dico: le parole (e l’incapacità politica)
della ministra Bernini sono inaccettabili proviene da Il Fatto Quotidiano.
“L’Università in Italia è ormai una spesa proibitiva ecco perché crescono sempre
più le telematiche”. A riassumere in una battuta il dodicesimo rapporto
nazionale sui costi degli atenei italiani, elaborato dalla Fondazione Iscoon con
Federconsumatori, è Sabrina Soffiantini che ha curato dato per dato il dossier
presentato in queste ore.
Non c’è inflazione che tenga, non c’è considerazione per il blocco degli
stipendi: a livello nazionale le rette nell’ultimo anno sono salite del 6%. Una
percentuale che lascia perplesso il numero uno della Fondazione Mario Govoni.
Necessaria una premessa per capire i numeri: per ciascuna delle tre macro aree
geografiche italiane (Nord, Centro e Sud), sono state esaminate le due maggiori
università delle tre regioni che in ciascuna zona contano il maggior numero di
studenti: Lombardia, Piemonte e Veneto per il Nord, Emilia- Romagna, Toscana e
Lazio per il Centro e Campania, Puglia e Sicilia per il Sud.
Sono state considerate cinque fasce di reddito Isee standard calcolando
l’importo previsto per ciascuna fascia. Infine, le rette prese in
considerazione, non riguardano la cosiddetta “tax area” ovvero le agevolazioni
destinate agli studenti a basso reddito e agli studenti meritevoli. Qual è il
quadro che emerge? Per quanto riguarda la tassazione, le università del Nord
Italia risultano ancora una volta più onerose rispetto alle altre: le cifre
superano del 27% l’importo massimo medio rilevato negli atenei del Sud Italia e
del 21% quello delle università del Centro. Rispetto allo scorso anno è quindi
leggermente sceso il divario tra Nord e Sud ma esponenzialmente è aumentato
quello tra Nord e Centro che è salito dal 15% al 21,3%.
Un’attenzione particolare va data agli atenei lombardi che si confermano quelli
in cui la tassazione risulta più elevata, con una media regionale di 3775,28
euro. l’Università di Milano resta, come lo scorso anno, al primo posto, subito
seguita da quella di Pavia. La prima prevede, infatti, come importo massimo da
corrispondere 3.360,00 euro per le facoltà umanistiche e 4.257,12 euro per i
corsi di laurea dell’area scientifica, con un importo massimo medio di 3.808,56
euro mentre la seconda richiede ai suoi studenti di corrispondere un massimo di
3.343,00 euro per le facoltà umanistiche e 4.141,00 euro per quelle
scientifiche, con un importo massimo medio di 3.742,00 euro.
Seguono il Politecnico di Torino (3.761,00 euro sia per le facoltà umanistiche
che per quelle scientifiche), l’Università del Salento (3.206,00 euro sia per le
facoltà umanistiche che per quelle scientifiche) e l’Università di Padova
(2.955,00 euro per le facoltà umanistiche e 3.155,00 euro per le facoltà
scientifiche, con una media di 3.055,00 euro).
Rispondere a come mai Milano continua ad essere al top, nonostante il costo
degli affitti, è una lettura non facile ma secondo i ricercatori poter vantare
nel curriculum una laurea al Politecnico o alla Cattolica del capoluogo milanese
è un buon biglietto da visita. In questo contesto crescono sempre più il numero
di studenti che scelgono l’università telematica (quelle autorizzate dal
ministero sono undici). Gli iscritti all’ateneo online sono passati da 140.319
nel 2019/20 a 305.012 nell’ultimo anno accademico. Una decisione resa
obbligatoria dal portafoglio: “In genere, le spese per il materiale didattico
sono ridotte, dato che gran parte dei contenuti è disponibile online, limitando
l’acquisto di libri di testo a pochi casi. In termini economici, è possibile
stimare che i costi mensili per un’università telematica oscillino tra 200 e 400
euro, considerando tutte le spese sopra elencate”, spiega la ricerca.
Soffiantini aggiunge a “Il Fatto Quotidiano.it”: “E’ chiaro che in questo modo
non si paga nemmeno l’affitto o si riducono i costi di trasporto”.
E nel resto dell’Europa? Il dossier mette in evidenza le differenze tra il
nostro Stato e gli altri. La Germania e le nazioni scandinave adottano politiche
di assenza di tasse universitarie, consentendo agli studenti, anche
internazionali, di iscriversi ai corsi senza sostenere costi significativi: la
quasi totalità degli atenei pubblici richiede soltanto un contributo
amministrativo che è generalmente compreso tra 150 e 250 euro. Anche l’Austria
permette agli studenti dell’Unione Europea di frequentare l’università senza
tasse, mentre in Norvegia l’istruzione superiore è gratuita per tutti, sebbene
il costo della vita sia elevato. Molti programmi sono erogati nella lingua
locale, negli ultimi anni si è diffusa un’ampia offerta di master e dottorati in
inglese, che mantengono comunque le stesse condizioni di gratuità.
Dal 2017 la Finlandia applica una tassa universitaria agli studenti non Ue
iscritti ai corsi di laurea triennale e magistrale, lasciando però gratuiti i
percorsi di dottorato. In Islanda, invece, le università pubbliche non impongono
tasse, limitandosi a una quota annuale di iscrizione. A queste possibilità si
affiancano numerose borse di studio messe a disposizione dai governi europei.
Tra le più prestigiose figurano le Swiss Government Excellence Scholarships e le
borse Ares del Belgio, rivolte a studenti internazionali interessati a percorsi
di laurea triennale e magistrale.
Anche fuori dall’Europa esistono programmi di rilievo: in Asia, il Giappone
sostiene gli studenti stranieri attraverso il Japanese Government Scholarship
Program, che copre le tasse e offre un’indennità mensile; in Australia,
l’Australian Government Research Training Program finanzia master e dottorati.
In Nord America, il Vanier Canada Graduate Scholarship Program garantisce un
supporto economico molto elevato ai dottorandi, con borse da 50.000 dollari
l’anno. “Purtroppo – sottolinea Soffiantini – da noi mancano forme di credito
per sostenere le spese”.,
L'articolo L’università costa troppo, quelle del Nord sono le più onerose.
Aumentano gli iscritti agli atenei telematici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Come risolvere il pasticciaccio del test filtro per la facoltà di Medicina con
gli studenti cadute sulle pare difficilissime domande di Fisica? Il ministero
dell’Università e della Ricerca lavora a una soluzione per uscire dal buco nero
del semestre filtro di Medicina, in cui rischiano di essere inghiottito l’80%
degli aspiranti camici bianchi. Anche il secondo appello sembrerebbe essere
andato malissimo con proteste, denunce di presunti brogli e probabili ricorsi.
L’ipotesi più concreta, attualmente sul tavolo del Mur, prevede l’inserimento in
graduatoria di tutti i candidati, anche di coloro che non abbiano raggiunto la
sufficienza – il “18” – in tutte e tre le prove, a condizione però di recuperare
successivamente i crediti formativi mancanti.
Il nuovo schema di classificazione, secondo quanto emerge, dovrebbe prevedere
una graduazione per fasce: in cima gli studenti (i pochissimi) che hanno
ottenuto almeno tre sufficienze; a seguire chi ne ha raggiunte due; poi,
progressivamente, tutti gli altri. Anche chi non ha superato tutte le prove
riceverà comunque l’assegnazione di una sede, nella quale sarà tenuto a colmare
i debiti formativi.
La proposta arriva dopo l’ondata di proteste scatenata dai risultati dell’ultimo
appello. Migliaia di studenti hanno denunciato quesiti “estremamente complessi”
e, soprattutto, una prova di fisica definita da molti “impossibile”. Commenti e
testimonianze hanno invaso gruppi e social, descrivendo un esame percepito come
non omogeneo né trasparente. Oggi quasi 50.000 candidati hanno affrontato
nuovamente le prove di biologia, chimica – ritenuta da alcuni più agevole – e
fisica, ancora una volta la più temuta.
Durissima la posizione dell’Unione degli Universitari, che parla apertamente di
“fallimento” del semestre filtro: “Non può essere questa la risposta alla
necessità di formare nuovi medici”, commentano i rappresentanti, presenti questa
mattina davanti alle sedi d’esame per ricordare agli studenti la possibilità di
ricorrere contro “un sistema profondamente ingiusto”.
Le preoccupazioni dell’Udu erano già emerse dopo il primo appello, quando il
numero insufficiente di idonei aveva fatto temere che alcuni posti non venissero
coperti. Da qui la richiesta, arrivata da molti candidati, di un terzo appello.
“L’unico modo è aprire tutto o fare un terzo appello”, afferma Elisa, una delle
studentesse che hanno sostenuto il test. Ma non tutti sono d’accordo: “Chi si
rimette a studiare?”, ribatte Tiziana. Altri, come Monica, propongono invece di
eliminare il vincolo del “18” almeno nella prova di fisica. Intanto sui social
alcuni avvocati segnalano nuove presunte irregolarità: circolazione di messaggi
con domande degli esami, richieste d’aiuto e un aumento anomalo di ricerche su
Google con parole chiave legate ai test. Elementi che alimentano ulteriori dubbi
sulla regolarità della procedura.
La mobilitazione degli studenti non si ferma. Per giovedì è stata convocata una
manifestazione a Roma, nei pressi del Senato, con l’obiettivo di rilanciare il
ricorso collettivo promosso dopo il primo appello e chiedere al governo un
intervento urgente sul semestre filtro, prima che la situazione degeneri
ulteriormente.
FOTO DI ARCHIVIO
L'articolo Per il pasticciaccio del test filtro di Medicina il ministero valuta
il recupero crediti per tutti proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Le cifre sull’espulsione dei precari dall’università italiana ultimamente sono
spaventose. Sappiamo tutti che il reclutamento del personale della ricerca e
dell’università in Italia da molto tempo è un problema gravissimo, affrontato
senza nessuna sistematicità dalle classi dirigenti che si sono succedute in
questo paese”. Anche lo storico Alessandro Barbero prende posizione a favore dei
precari dell’università italiana con un video messaggio pubblicato sulla pagina
social dell’Assemblea Precaria Universitaria di Torino. “Sappiamo che la
precarizzazione del lavoro non riguarda soltanto l’università, ma riguarda tutto
il mondo del lavoro – precisa Barbero – però qui, nel caso dell’università,
veramente si incrociano due delle dimensioni più perverse dell’Italia di oggi.
Mi fermo specificamente sull’Italia, anche se sono problemi che hanno
un’ampiezza maggiore, ma in Italia si presentano in modo particolarmente acuto.
E cioè, appunto, la precarizzazione del lavoro e il nessun interesse per le
persone che hanno lavorato e sono state sfruttate per anni e che poi vengono
buttate via”. Un post dottorando su quattro in tutta l’Università di Torino e
uno su tre in tutta Italia è rimasto senza contratto da inizio anno secondo i
dati citati dall’Assemblea Precaria che definisce il fenomeno come “la più
grande espulsione dal posto di lavoro della storia dell’università”. Ci sono poi
“le cifre incredibilmente basse degli investimenti che il nostro paese fa per
l’Università e la ricerca, e questo è un problema che determinerà la sempre
crescente arretratezza del nostro Paese in futuro”, conclude Barbero.
L'articolo “Persone sfruttate per anni e poi buttate via, cifre spaventose”:
anche il professor Barbero al fianco dei precari dell’Università proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Nicola Della Torre è direttore della Riserva naturale delle Torbiere del Sebino,
Corinne Baronchelli, invece, è presidente del Consorzio Forestale Alto Serio e
docente, mentre Anna Orselli si occupa di un progetto di sviluppo territoriale
in montagna legato all’enoturismo. E poi c’è Viola, che ha creato il progetto
Lana Lunatica per riutilizzare la lana locale che usava sua nonna, mentre
Giacomo è diventato un esperto di valanghe e fa simulazioni, con i droni, per
fornire dati agli esperti.
Cinque mestieri, cinque storie che hanno un punto in comune: una laurea presa
negli anni passati presso l’Università della Montagna, centro di eccellenza
quasi unico nel suo genere – nato in collaborazione con gli enti territoriali e
l’Università degli Studi di Milano – che fa formazione e ricerca ed è
specializzato nello studio e nell’analisi delle complessità del territorio
montano. Unimont si trova a Edolo, piccolo comune di compagna in provincia di
Brescia, e i giovani che studiano qui hanno una passione per questi territori,
dove spesso restano a vivere.
In occasione della Giornata Internazionale della Montagna, il prossimo 11
dicembre proprio a Edolo si terrà il convegno “Territori Unici, Sfide Comuni”
dove verrà presentato il portale “Mountain Innovation Hub” sviluppato
nell’ambito del Pnrr e pensato per promuovere e valorizzare la conoscenza dei
territori montani e favorirne sviluppo sostenibile e innovazione. “Il messaggio
principale che cerchiamo di lanciare, specie in vista di questa giornata
internazionale”, afferma la prof.ssa Anna Giorgi, ordinaria e responsabile del
polo Unimont della Statale di Milano “è che i contesti montani sono ad alta
specificità, quindi servono strumenti ad hoc, interventi ‘chirurgici’ e di
conseguenza una formazione specifica. Tentare di esportare i modelli dei grandi
centri urbani in montagna è un fallimento unico, si spendono soldi senza
ottenere risultati”.
Ma come si articola la formazione degli esperti di montagna? “Qui”, spiega
Giorgi, “abbiamo un corso di laurea triennale Valorizzazione e Tutela
dell’Ambiente e del Territorio Montano, che forma specialisti del sistema
montano, capace di individuarne le risorse naturali, agro-ambientali,
territoriali specifiche al fine di valorizzarle in processi produttivi
tradizionali e innovativi, sostenibili e di qualità. E un corso di Laurea
Magistrale in Valorization and Sustainable Developement of Mountain Areas, con
l’obiettivo di preparare professionisti capaci di promuovere lo sviluppo e la
gestione sostenibile del territorio montano. “Si tratta di due corsi fortemente
multidisciplinari”, spiega a sua volta Matteo Vizzarri, ricercatore in
Pianificazione e gestione forestale e responsabile del corso in Gestione
sostenibile e bioeconomia delle foreste montane. “Chi si laurea deve abbracciare
la conoscenza del territorio inteso come risorse naturali, occuparsi di filiera
produttiva, quindi agricoltura, allevamento, prodotti forestali non legnosi,
fino ad arrivare ai servizi e alla comunicazione: è un unicum formativo”.
Due sono i punti di forza dei corsi di laurea: il primo è supportare i territori
montani “lavorando con gli enti e le istituzioni in maniera molto stretta. La
nostra realtà formativa sta letteralmente cambiando la fisionomia del suo
territorio, rianimando la comunità”, spiega Giorgi. Il secondo aspetto
importante e suggestivo è come studenti e laureati “peschino” nella tradizione e
nella cultura locali per reinventarla con le chiavi della modernità. “Molti”,
continua Giorgi, “sono diventati titolari di aziende agricole, ma hanno il
profilo dei manager, sono diversissimi da un’immagina stereotipata
dell’agricoltore. Fanno prodotti di qualità unici e li vendono nelle filiere
corte, fanno accoglienza ai turisti, promuovono il territorio, usano le nuove
tecnologie per gestire le attività produttive”. Non a caso, nonostante la crisi
delle aziende agrituristiche italiane, l’84% delle oltre 25.000 esistenti sono
in aree montane.
I corsi di laurea specifici sulla montagna in Italia sono pochissimi: oltre a
Unimont, c’è il corso di Scienze e tecnologie della Montagna presso l’Università
di Torino, che coniuga gli ambiti relativi alla conoscenza e gestione delle
risorse naturali con la produzione primaria e la gestione delle imprese, in
un’ottica di sostenibilità e adattamento ai cambiamenti climatici. E poi c’è il
Corso in Scienze della Montagna e dell’Agricoltura, presso l’Università degli
Studi della Tuscia, che forma un laureato con capacità professionali di analisi,
progettazione, gestione e promozione economica dei territori montani e delle
loro risorse, con particolare riferimento alla realtà appenninica e
mediterranea.
2.487 Comuni di fronte a sfide ambientali, sociali, economiche
Quanti sono i Comuni montani in Italia? I numeri li dà il Libro Bianco della
Montagna, l’ultimo, del 2024, curato proprio da Unimont. Sono 2.487, secondo la
classificazione Istat, su un totale di 7.901 Comuni italiani: il 35% della
superficie nazionale. Si va dal 100% dei comuni in Valle D’Aosta e Trentino
all’1,5% della Puglia.
Le sfide che si trovano ad affrontare sono varie: ambientali, sociali, economici
e di “governance”. Le minacce ambientali sono quelle del cambiamento climatico,
dell’abbandono e di eccessiva antropizzazione e impatto delle attività umane.
Quelle sociali sono legate allo spopolamento, all’invecchiamento, alla riduzione
dei servizi di base (la popolazione dei comuni montani è calata del 5% in dieci
anni, anche se aumentano in Trentino Alto-Adige).
Gli interventi andrebbero dunque attuati dove lo spopolamento e l’invecchiamento
sono maggiori. “Invece la politica continua a smantellare i servizi nelle aree
meno abitate”, denuncia la responsabile di Unimont. “Le risorse finanziarie
vengono convogliate verso le aree urbane, prevalentemente in pianura”, dice a
sua volta Matteo Vizzarri, “così è difficile far comprendere alle persone il
valore di determinate risorse: se io apro il rubinetto a Milano mi devo rendere
conto del valore dell’acqua che proviene da una valle alpina”.
Per Il Libro Bianco, invece, servirebbe definire politiche e strategie che
integrino in unico quadro i provvedimenti da adottare. Cinque le proposte di
intervento: definire politiche integrate e strategie specifiche per i territori
montani; costituire un tavolo di coordinamento permanente per lo sviluppo dei
territori montani; costituire un osservatorio permanente per il monitoraggio dei
settori strategici per lo sviluppo dei territori montani; promuovere la
costituzione dell’‘ecosistema dell’innovazione’ della montagna; sensibilizzare
la società, fare formazione e ricerca per l’innovazione.
L'articolo Giornata della Montagna: Unimont e le altre, viaggio tra i corsi di
laurea per imparare a proteggerla proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un’opinione pubblica sensibilizzata e un Parlamento assente. Una ricerca
accademica ha scattato una fotografia completa dell’Italia sul tema del suicidio
assistito. Le richieste aumentano e il vuoto normativo si fa più pesante,
lasciando sempre più cittadini e rappresentanti delle istituzioni privi di
risposte su come procedere al suicidio assistito. Un vuoto che genera delle
risposte frammentarie e talvolta contradditorie, come spesso capita con il
Servizio sanitario nazionale.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychiatry ed è firmato
da Emanuela Turillazzi e Naomi Iacoponi dell’Università di Pisa, insieme a
Donato Morena e Vittorio Fineschi della Sapienza di Roma. Un punto fondamentale
che emerge dalla ricerca è come l’opinione pubblica appaia molto più avanti
della politica. Secondo i dati Censis, il 74% degli italiani si dichiara
favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali ancora più
alte tra i giovani e tra i laureati.
Il lavoro di ricerca ripercorre anche la storia giuridica del suicidio assistito
in Italia: nel 2019, ci fu la storica sentenza con cui la Corte costituzionale
indicò le condizioni in cui l’aiuto al suicidio può essere considerato non
punibile. Da allora, il percorso è stato tutt’altro che lineare: molte aziende
sanitarie non hanno applicato le indicazioni della Consulta in modo uniforme,
accumulando ritardi e rifiuti a procedere, costringendo i malati a fare ricorso.
Un vuoto normativo che ha generato un conflitto istituzionale.
In questo quadro incerto, la Toscana è stata la prima regione ad aver approvato
nel marzo 2025 una normativa organica che definisce tempi, procedure e
responsabilità per la valutazione delle richieste. Una scelta subito contestata
dal governo, che ha impugnato la legge. Il risultato è un conflitto
istituzionale che aggiunge ulteriori incertezze a una questione già complessa.
Lo studio ricostruisce anche i casi che hanno segnato la storia recente del fine
vita in Italia. La vicenda di “Mario”, il primo paziente a ottenere il suicidio
assistito nel nostro Paese, così come la storia di “Anna”, la prima persona a
cui il trattamento è stato garantito con costi interamente coperti dal sistema
pubblico. Altri casi, come quello di Davide Trentini, hanno esteso
l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta per i “trattamenti di
sostegno vitale”. Tutto questo avviene mentre l’opinione pubblica appare molto
più avanti della politica. Secondo i dati Censis citati nello studio, il 74%
degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito. A
fronte di un consenso così ampio, il Paese continua però a non dotarsi di una
legge nazionale.
I ricercatori hanno poi aperto una riflessione sui trattamenti di sostegno
vitale, ovvero tutti quei macchinari e interventi farmacologici o assistenziali
che sono indispensabili alla sopravvivenza della persona malata. Nel corso degli
anni, questo concetto è stato alla base per giustificare il suicidio assistito a
livello giuridico. Tuttavia, questa visione presenta dei limiti.
Come sottolinea infatti Emanuele Turillazzi: “La dipendenza dai trattamenti di
sostegno vitale è un criterio troppo limitativo. La nostra idea è di superare
questo vincolo e concentrarci su ciò che davvero conta: una patologia
irreversibile, una sofferenza che il paziente ritiene intollerabile e una
volontà libera, consapevole e direttamente espressa dalla persona. Sono questi,
secondo noi, i requisiti fondamentali. Il resto – gli aspetti procedurali e le
verifiche – spetta al sistema sanitario e ai comitati etici territoriali. Solo
così è possibile ridurre le disuguaglianze territoriali e rimettere al centro
diritti, autodeterminazione e dignità della persona“.
L'articolo Suicidio assistito, in Italia aumentano le richieste ma le norme sono
ancora ferme: lo studio proviene da Il Fatto Quotidiano.