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La città come organismo
R accontando di una città che si rinnova pur mantenendo dentro di sé il germe delle sue versioni precedenti, Italo Calvino descrive così Clarice, all’interno delle sue Città invisibili (1972): > farfalla suntuosa sgusciava dalla […] crisalide pezzente; la nuova abbondanza > faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; […] Ogni nuova > Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, > sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e > morte. Quello di attribuire caratteristiche proprie delle creature viventi a uno scenario urbano è un espediente letterario piuttosto comune: dalla Dublino di James Joyce alla Jerusalem (Northampton) di Alan Moore, la città ci affascina al punto che spesso le vogliamo conferire un’anima, una vitalità, persino trasformandola in un vero e proprio personaggio della storia. Giocare con le città (raccontandole, riprogettandole o immaginandole dal nulla) non è un’attività di solo appannaggio della letteratura, ma anche dell’urbanistica e della sociologia. In queste discipline la metafora della città come organismo compare almeno da due secoli, con le prime avvisaglie che emergono già nella filosofia materialista di fine Ottocento quando, per analizzare la rapida industrializzazione e urbanizzazione della società, l’urbanistica inizia a prendere in prestito concetti della biologia e della fisiologia. Negli anni Sessanta questi concetti si consolidano nel termine metabolismo urbano, usato per la prima volta per descrivere il flusso di entrata e uscita di risorse naturali in una ipotetica città di un milione di abitanti. Col tempo, questo filone con tanti nomi, declinazioni e progetti ha incorporato anche elementi dell’ambientalismo, della cibernetica, dell’ingegneria gestionale. La città quindi non esiste più come un’entità separata a livello concettuale dall’ambiente naturale, ma diventa un “antroma”, un bioma di origine antropica. È natura a sua volta: un luogo pulsante, attivo, che respira, mangia, espelle come se fosse cosa viva, in diretto contrasto con la concezione, ancora più antica, della città come un macchinario da far funzionare, fatto di parti meccaniche da riparare se si rompono. L’urbanistica organica cerca invece di vedere la città in maniera olistica: non si concentra su un singolo edificio o progetto urbano come se fossero ingranaggi sostituibili, ma li considera nell’insieme, come organi dello stesso corpo. Una città smart ma non in quanto iperconnessa e digitalizzata, bensì perché possiede quelle proprietà associate all’intelligenza animale: capacità di adattamento, flessibilità, risoluzione dei problemi per la propria sopravvivenza. Un luogo che quindi potrebbe, se così organizzato, essere in grado di affrontare problematiche epocali, come quella del cambiamento climatico, alla stregua delle altre creature viventi. > L’urbanistica organica concepisce la città in maniera olistica: non si > concentra su un singolo edificio o progetto urbano come se fossero ingranaggi > sostituibili, ma li considera nell’insieme, come organi dello stesso corpo.  Partiamo da un esempio semplice: come un organismo, una città ha bisogno di termoregolarsi a seconda delle stagioni e delle condizioni atmosferiche. Un dipartimento di ricerca o un data center necessitano di fresco tutto l’anno per mantenere una temperatura ottimale per server ed esperimenti; mentre una piscina con annessa palestra deve riscaldare grandi ambienti durante le ore di attività. Perché allora non progettare edifici in modo che il caldo sia condotto verso gli ambienti freddi quando ne hanno bisogno, e viceversa? Perché non utilizzare materiali che in qualche modo accumulino il caldo di giorno per rilasciarlo di notte, e meccanismi di distribuzione del calore che allacciano un intero quartiere? La metodologia REAP (Rotterdam Energy Approach and Planning) in corso di sperimentazione in alcune aree della città olandese, ad esempio, è incentrata proprio sulla ridistribuzione dei flussi di energia e calore, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza della città di Rotterdam dai combustibili fossili e raggiungere la carbon neutrality. Iniziative come CityLoops, finanziate dall’Unione Europea, mirano invece a ridurre lo spreco di materiali di costruzione e demolizione e di scarti alimentari rimettendoli in circolo, a disposizione di altri progetti. Logico, ma fin qui nemmeno troppo diverso dal concetto di economia circolare, che porta con sé i propri limiti, anche semantici. L’economia circolare sottintende un ritorno di investimento, una rimessa in circolazione delle risorse garantendo un guadagno per le aziende coinvolte. L’efficienza di un sistema è misurata in milioni di euro, che non sono sinonimi di tonnellate di CO2 e nemmeno di salute ambientale o benessere collettivo. Anche se molti progetti di urbanistica organica non sono incompatibili con un’economia circolare, in quest’ultima la logica aziendale ed estrattiva permangono, e continuano a fare a pugni con la termodinamica. A un certo punto il reinvestimento non è più economicamente produttivo, sopravvengono i diminishing returns (rendimenti decrescenti). > Per le città, come per gli organismi viventi, un’iperspecializzazione potrebbe > rivelarsi rischiosa, poiché lascia il fianco scoperto a catastrofi > inaspettate. L’urbanismo organico promette qualcosa di diverso: quantificare, tracciare e se possibile distribuire non i flussi monetari, ma quelli energetici e materiali. Ecco allora spuntare elaborati diagrammi di flusso per rappresentare non solo i sistemi energetici di intere città, ma anche la “dieta” di risorse di cui necessitano, comprese quelle alimentari consumate dalla popolazione. Da questi diagrammi gli urbanisti derivano versioni ancora più complesse, per rappresentare una ipotetica versione ottimale di quegli stessi flussi di materia ed energia. Teorie come quella dello swarm planning, invece che incentrarsi su grandi opere, promuovono la progettazione di molteplici interventi di urbanistica su piccola scala, coinvolgendo le comunità locali. Questi interventi, concepiti in batteria e ognuno con una soluzione diversa, sono predisposti in anticipo e pronti a essere implementati in maniera puntuale in caso di necessità. L’idea è che, come per gli organismi viventi, l’iperspecializzazione sia evolutivamente rischiosa poiché lascia il fianco scoperto a catastrofi inaspettate, quando essere generalisti offre invece più chance. Un approccio che vede le città come fragili e suscettibili a mutamenti repentini, soprattutto in un’ottica di crisi climatica ed energetica, ma anche capaci di adattarsi. Alcuni ricercatori si sono anche spinti a calcolare il metabolismo di una città. Uno studio ha registrato e analizzato il pattern metabolico (quante risorse entrano, quanta energia si genera, quanti scarti vengono prodotti) delle quattro principali città della Danimarca. Ne è emerso che, rispetto ad altre metropoli di grandezza paragonabile, le città danesi hanno un profilo metabolico più basso, che sono riuscite ulteriormente a ridurre negli ultimi anni. Studiare le città come se fossero un organismo potrebbe quindi aiutarci a comprenderle meglio, a concepire e architettare nuove modalità di funzionamento. Non è difficile capire come l’urbanismo organico riesca a catturare l’immaginazione, in particolare quella di ambientalisti ed ecologisti. Ma una domanda sorge spontanea: che tipo di organismo è, una città? Se ha un profilo metabolico, a quale creatura, nel regno dei viventi, assomiglia di più? Proviamo a ipotizzare. Le città consumano tanta energia e generano molti scarti rispetto alla loro massa: un profilo metabolico tipico di un piccolo animale molto mobile e attivo, come un roditore o un colibrì. Ma le città, oltre ad avere una massa enorme, sono anche sessili, assomigliando in questo molto di più a una massa fungina o algale di enorme estensione, tipo un micelio sotterraneo che abbraccia un’intera foresta. Se sono industrializzate producono anche molta energia, ma non fissano la CO2 come gli organismi fotosintetici, e quindi non possono neanche essere paragonate a loro. Non riconvertono gli scarti in materia fertile come fanno i funghi, semmai ne producono di ulteriori. Forse assomigliano a un qualche tipo di corallo, o una colonia batterica (viste dall’alto, sembrano crescere proprio come loro) ma i batteri consumano il substrato sul quale si trovano, mentre le città moderne e globalizzate hanno la capacità di trarre risorse per il loro sostentamento dall’altra parte del pianeta. E noi esseri umani che la abitiamo che cosa siamo, in questa similitudine? Organismi separati, come simbionti che abitano il suo corpo colossale? Anche noi una colonia batterica? Oppure un parassita che ne infesta le membra e che ne detta le decisioni, una sorta di fungo Cordyceps su scala metropolitana? Siamo i suoi neuroni? > Se la città davvero è viva, allora è una qualche forma di vita ancora poco > conosciuta, un nuovo phylum tutto da scoprire e catalogare. Dobbiamo purtroppo abbandonare questo esperimento mentale: non sembra esserci, in natura, qualcosa di efficacemente paragonabile alle città, almeno a livello metabolico. Peccato, perché ci avrebbe sicuramente aiutato a comprenderle meglio, comparando le caratteristiche biologiche delle forme di vita a loro più simili. Se la città davvero è viva, allora è una qualche forma di vita ancora poco conosciuta, un nuovo phylum tutto da scoprire e catalogare. Forse è il caso invece di capire davvero se l’approccio organico all’urbanistica sia sufficiente a farla funzionare meglio. Un organismo è fatto di sistemi e tessuti ben organizzati che rispondono a un imperativo: la sua stessa sopravvivenza. I tessuti di un organismo funzionale, tranne nel caso di un cancro, non sono in competizione tra loro. Possiamo dire che funzioni così nelle città di oggi? Se le diverse comunità, quartieri, edifici, istituzioni e aziende sono le cellule di una stessa creatura, la loro attività è davvero corale e organizzata? Definirle come tali non è sufficiente affinché una collaborazione volta alla sopravvivenza collettiva abbia effettivamente luogo. E le altre città? Finora abbiamo sorvolato sulla questione, ma si tratta di una domanda fondamentale. Se le città sono organismi, vuol dire che esiste anche un loro ecosistema: come vivono i membri di questo ecosistema? Come unità di una sola colonia globale, oppure in aspra competizione tra loro per le risorse? Esiste una catena alimentare con città produttrici e città consumatrici? Ridisegnare una città come Milano, in modo che sia più sostenibile, più vivibile, meno inquinata è di sicuro un vantaggio per gli abitanti di Milano ‒ ma per tutti gli altri? Non è ancora del tutto chiaro se l’efficienza metabolica di una singola città si traduca in un miglioramento delle condizioni anche per le città limitrofe o distanti. Da dove ha preso l’energia, dove finiscono i suoi rifiuti? In un paradigma gestionale ed economico di tipo estrattivo, chi paga davvero la bolletta dei lavori di rinnovo che rendono una metropoli più green? Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi in una ennesima rivisitazione del greenwashing, con una città che si dichiara sostenibile perché riuscita a raggiungere la tanto agognata neutralità metabolica al suo interno, a scapito dell’esterno. Un po’ come nel caso dell’Europa, che ha “ridotto le sue emissioni” negli ultimi anni, perché ne ha esternalizzato gli effetti sul Sud globale tramite il meccanismo del mercato della CO2. > Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi > in un’operazione di greenwashing, con una città che si dichiara sostenibile > perché ha raggiunto una neutralità metabolica esternalizzandone i costi. Gli scienziati che hanno provato a misurare il metabolismo delle città danesi ammettono questo limite nello studio stesso: non ci sono abbastanza dati per comprendere la portata dell’impatto ambientale che ha una città. Non tanto nella città esaminata, bensì nel luogo da dove questa ha ottenuto le sue risorse energetiche e materiali. Ed è altrettanto difficile capire, o anche solo rintracciare, dove vanno a finire i flussi di materiale di scarto, le sue emissioni. Il limite principale del concetto sta tutto qui: fino a dove si estendono i confini della città-organismo? La sua pelle potrà corrispondere alle linee di demarcazione municipali, ma la sua influenza è percepita ben oltre. Per limiti tecnici, assenza di informazioni, e per evitare di confrontarsi con una complessità di diversi ordini di grandezza maggiore, finora il metabolismo urbano si è limitato a considerare la città come sistema chiuso, affrontando questioni energetiche e ambientali a livello locale. Ma una città chiusa non può essere davvero considerata un organismo, perché gli organismi non vivono in isolamento. Se si riuscirà a comprendere appieno la complessità ecosistemica delle città ‒ ed è una faccenda di una complessità enorme ‒ si potrà forse riuscire a sviluppare un piano metabolico urbano su scala nazionale, se non addirittura globale. Con relative misure di urbanistica da applicare sulla singola città a seconda delle circostanze locali, tenendo in considerazione le aspettative di impatto su quella città e su tutte le altre. Un’impresa titanica che richiede una quantità spropositata di dati, modelli accurati, e soprattutto una decisa volontà politica. Che sia fatta in maniera centralizzata o distribuita, l’urbanistica organica richiede una pianificazione volta alla cooperazione, ed entrambe queste parole sono lo spauracchio di più di una fazione politica. > Finora il metabolismo urbano si è limitato a considerare la città come sistema > chiuso. Ma una città chiusa non può essere davvero considerata un organismo, > perché gli organismi non vivono in isolamento. Senza una visione su larga scala, il metabolismo urbano rimane un concetto importante ma incompleto: molto utile per risolvere problematiche locali, meno per affrontare la sfida globale del cambiamento climatico. I suoi limiti sono gli stessi dell’attuale approccio dominante alle questioni ecologiche, che consiste nell’adottare soluzioni personali per quelle che sono faccende sistemiche. Tocca quindi sperare che, anche in assenza di informazioni sufficienti per pianificare un flusso metabolico su larghissima scala, l’attività che ogni singola città può fare per rendere sé stessa più sostenibile arriverà, in via incrementale, a rendere l’insieme delle città più vivibile. E che l’ecosistema di queste città sia uno dove vige la collaborazione e non una lotta efferata per le risorse. Sempre nelle Città invisibili, Calvino descrive Leonia, un’altra città ossessionata dal rinnovare di continuo sé stessa, e che in questa impresa finisce per accumulare attorno a sé tonnellate di spazzatura, un confine di rifiuti che la circonda come una instabile catena montuosa che rischia di franare da un momento all’altro. E peggio di una Leonia c’è solo un mondo fatto da tante città come questa, in competizione tra loro. > Forse il mondo intero […] è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al > centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee > e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si > puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. L'articolo La città come organismo proviene da Il Tascabile.
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N el primo dei tre episodi che compongono il film Mystery Train di Jim Jarmusch (1989), Mitsuko e Jun, una coppia di giovani giapponesi ossessionati da Elvis Presley, giungono in un hotel di Memphis per intraprendere un pellegrinaggio laico nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano, è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo, posano l’enorme valigia rossa sul letto ‒ l’unico bagaglio che hanno con sé ‒ e una volta rimasti soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, annoiato. Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini di Elvis ritagliate da giornali, Jun comincia a scattare decine di fotografie alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: “Perché fai foto solo alle stanze in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?” e Jun le risponde: “Quelle altre cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli aeroporti sono le cose che dimenticherò”. Luoghi e nonluoghi Negli anni, non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e ho finito per dimenticare molti luoghi. Come lui, mi riferisco alle camere d’albergo, così come agli ostelli e agli Airbnb, ma più ci rifletto più mi accorgo di come questa categoria di spazi abbia in tempi recenti cominciato a perdere la sua specificità. Se un tempo rappresentavano un mondo a sé, quello della transitorietà e della transazionalità dell’hospitality, oggi invece mi sembra si confondano sempre più, almeno nella mia esperienza di vent’anni a zonzo per l’Europa e non solo, con ciò che ho sempre identificato come “casa”‒ quel luogo che, almeno sulla carta, dovrebbe incarnare un maggiore senso di appartenenza, in qualità di spazio intimo, identitario. Dopo aver rivisto Mystery Train, per giorni non ho potuto fare a meno di ripensare alla filmografia di Jarmusch, e subito mi ha colpito la frequenza con cui il regista, nei suoi primi film, abbia spesso scelto come ambientazione spazi liminali: il taxi (Night on Earth, 1991), la prigione (Down by Law, 1986), i motel, i bar e gli aeroporti (Stranger than Paradise, 1984). Il tipo di luoghi, insomma, che Marc Augé mi ha educato dai tempi di un esame della triennale a identificare come nonluoghi ‒ anche se è interessante notare come i film appena menzionati siano antecedenti a questo concetto, visto che l’opera del filosofo francese è stata pubblicata solo nel 1992. Questo mi ha fatto pensare che Jarmusch avesse già intuito qualcosa su come alcuni luoghi non solo rappresentino, ma inducano all’alienazione. Naturalmente, le riflessioni sulla relazionalità degli spazi vissuti hanno precedenti illustri. Penso agli spazi quotidiani dissezionati da Georges Perec, alle eterotopie di Michel Foucault, alla liminalità dei luoghi rituali di Arnold van Gennep prima, e Victor Turner poi: privato, politico, sociale. Tuttavia, mentre proseguivo su questa linea di pensiero, qualcosa continuava a riportarmi sulle stanze d’albergo e sull’idea di casa. Facendo avanti e indietro tra queste due categorie distinte, questo andirivieni ha cominciato a sfumarne e consumarne i contorni, e a renderle sempre meno distinte di quanto pensassi, per poi cristallizzarsi in un sospetto: l’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo? > L’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo? È una domanda audace, ne sono consapevole, ma nel porla mi avvalgo del benestare di Marc Augé, secondo cui “la possibilità del nonluogo non è mai assente da nessun luogo”, soprattutto nell’attuale surmodernità, o modernità eccessiva ‒ di tempo, di spazio, di ego. Le premesse ci sono, quindi; ma andiamo con ordine. Essendo l’appartamento uno spazio (e in quanto tale, direbbe Foucault, “nell’esperienza occidentale ha una storia” fatta di regolamentazioni e decodificazioni), per indagare il sospetto che stia diventando un nonluogo mi trovo costretto ad avventurarmi in territori più impervi rispetto a quelli della letteratura o del cinema. Territori come quello delle normative e delle leggi, che in questo caso si rivelano sorprendentemente più eloquenti della rappresentazione. È lì, infatti, che ritrovo quel possibile “intreccio fatale del tempo con lo spazio” di cui parla Foucault, che è alla base di come percepiamo i luoghi che abitiamo. Normative e leggi Un articolo del Corriere della Sera del 2024 sostiene che in Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario di casa nello stipulare contratti molto più brevi: ‘contratti turistici’ di pochi giorni, ‘contratti transitori’ che riducono la durata minima a un mese, ‘contratti studenteschi’ con durate anche di sei mesi. Generalmente, continua l’articolo, la tipologia più popolare rimane quella del contratto ‘a canone libero’, con durata di quattro anni prorogabili a discrezione del proprietario di altri quattro (conosciuto anche come contratto 4+4). Queste dinamiche rispecchiano mediamente i modi contrattuali diffusi nel resto d’Europa, dove la durata degli affitti oscilla tra uno e tre anni. È quanto accade anche in Germania, dove vivo dal 2013 e la legge sembra flessibile quanto in Italia, permettendo ai proprietari degli immobili di modellare arbitrariamente le condizioni che impongono agli affittuari. La normativa sugli affitti tedeschi dice che i contratti devono avere una durata minima di due anni e disdetta possibile solo a fronte di un preavviso di tre mesi. Il costo degli affitti è regolamentato dal Mietpreisbremse (freno degli affitti), che non consente di superare del 10% la media del quartiere (come spiega un articolo di Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle “case già arredate che vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro”). Un’altra clausola comune è quella del sistema Staffelmiete che permette aumenti annuali progressivi del costo dell’affitto fino a un massimo del 15% nell’arco di tre anni. Queste sono le condizioni standard, tuttavia le eccezioni sono all’ordine del giorno, in Germania come in Italia come nel resto d’Europa. Ricordo tre anni fa quando a Berlino mi fu proposto un contratto di affitto della durata di quattro anni, senza possibilità di rinnovo, e ogni anno il costo sarebbe aumentato del 12%, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario me lo propose, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli notare che un aumento annuale simile era ridicolo. Lui rispose, “È assolutamente normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione”. Forse pensava che dietro la mia titubanza linguistica nel parlare tedesco burocratico si celasse anche una certa titubanza di pensiero? Non riuscii a frenare una risata, “Sta scherzando, vero? Un’inflazione del 12% annuo? Per quattro anni di fila?” > In Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto > di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, > questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al > proprietario nello stipulare contratti molto più brevi. Temporeggiai dicendogli che ci avrei pensato su. Ero disperato, avevo assolutamente bisogno di un appartamento. Corsi immediatamente dal mio Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita ai soci a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. Anche l’avvocato del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto e mi disse, “Certo, firmalo pure, perché è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo causa. Tranquillo, i contratti con clausole illegali non sono validi.” Infine non me la sentii di cominciare una relazione del genere con un nuovo proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio. Continuai la mia ricerca. Affitti e subaffitti Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano 40 metri quadrati senza cucina né sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione temporanea un meraviglioso appartamento di 70 metri quadrati in sublocazione per otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un 50 metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine, per due mesi soltanto in un minuscolo 30 metri quadrati a Kreuzberg. Per chi vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente picaresca non è certo una novità. Come racconta un articolo del novembre del 2023 apparso su The Berliner, il problema dei contratti brevi è strettamente legato alla carenza di nuovi appartamenti, a causa di un continuo incremento della popolazione: “Secondo l’Ufficio di statistica di Berlino-Brandeburgo, alla fine del 2022 vivevano a Berlino almeno 141.000 persone in più rispetto a cinque anni prima, e un piano di sviluppo urbano della città pubblicato nel 2019 sostiene che Berlino ha ora bisogno di almeno 194.000 appartamenti in più entro il 2030 per tenere il passo con questa crescita demografica.” La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari (Hausverwaltung) un potere immenso. In questo scenario sempre più distopico, i fortunati berlinesi che vantano un vecchio contratto a tempo indeterminato (Unbefrister Mietvertrag) tendono a tenerselo stretto, anche nel caso programmassero di lasciare la città per più o meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza, senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile. Questo ha dato origine, negli ultimi anni, a un mercato che “prospera grazie a una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo di alloggi a breve termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei”. Senza considerare che queste soluzioni di subaffitto comportano spesso costi più elevati degli affitti regolari ‒ perché vuoi non farci la cresta? ‒ e i disperati alla ricerca di un tetto in molti casi devono accettare, per dividere le spese, di trovarsi uno o più coinquilini. > La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca > sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e > delle agenzie immobiliari un potere immenso. Per fortuna, da un paio d’anni mi sono svincolato, almeno temporaneamente, da queste logiche, quando ho infine firmato un contratto d’affitto per l’appartamento in cui risiedo ora, da solo. Il mio attuale proprietario mi propose dapprima quattro anni con clausola di rescissione con due mesi di preavviso (invece dei tre previsti per legge). Un anno dopo, mi concesse una piccola grazia, comunicandomela con una lettera che cominciava così: “Visto che ti considero un buon inquilino, ho deciso di proporti un prolungamento a otto anni…” Lasciandomi però la sorpresa alla fine: uno Staffelmiete del 2% annuo. Bene ma non benissimo, insomma. Senza considerare che comunque tra cinque anni, se ancora vivrò a Berlino, mi ritroverò nella condizione di dover cercare casa in un mercato immobiliare con molta probabilità più impossibile di quanto lo sia oggi. Occasioni ed erosioni Quando ci si trova in balia di contratti sempre più restrittivi che impongono di cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati offrono un servizio fondamentale. Con il loro particolare universo fatto di arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà chi, gli appartamenti prearredati offrono una straordinaria libertà: si possono chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così come li si è trovati. Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamola rassegnazione. L’idea di dover lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, sempre pronto a impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo, ovunque e all’improvviso. Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo esatto opposto. Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, “la crisi abitativa comporta una ‘disastrosa perdita di libertà’ […] Abbiamo meno libertà di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla precarietà abitativa in qualche forma (il che comprende avere difficoltà a pagare l’affitto, il sovraffollamento, dover traslocare frequentemente, o spendere un’alta proporzione del proprio reddito per l’alloggio)”. > Quando ci si trova in balia di contratti che impongono di cambiare casa ogni > pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti > ammobiliati diventa inevitabile. Greig si riferisce a quanto accade in Regno Unito, dove è ancora in vigore ‒ almeno per ora ‒la discussa Section 21, una norma tutta britannica che consente dai tempi dell’Housing Act 1988 ai proprietari di casa di sfrattare gli inquilini con contratti a breve termine presentando un preavviso di soli due mesi, senza dover fornire alcuna motivazione (la cosiddetta no-fault eviction). La Section 21 è uno strumento che rende il mercato degli affitti infinitamente più instabile per gli inquilini, che finiscono così per sentirsi sempre di passaggio, ospiti temporanei, o meglio utenti, consumatori di uno spazio trasformato in servizio, che si riceve soltanto in prestito e che non offre neppure, scrive Greig, “la garanzia che non venga strappato via da sotto i piedi” prima del termine concordato: > Questo tipo di precarietà causa un’ansia ambientale cronica. Rende più > difficile rilassarsi, godersi il tempo che si ha nel posto in cui si vive […] > Si avverte un senso di nostalgia anticipatoria, aspettando il giorno in cui si > verrà cacciati. Permettere a sé stessi di provare qualsiasi tipo di > attaccamento sembra inutile: perché preoccuparsi di legare con la propria > comunità locale quando si sa di essere lì in prestito? Non c’è da > meravigliarsi che la solitudine sia così comune quando le persone sono > disincentivate dal mettere radici nelle aree in cui vivono. Una casa dovrebbe > fornire sicurezza, protezione, qualche tipo di barriera dal mondo esterno. Se > funzioni realmente così in pratica, non ne sono sicuro, ma la sua assenza può > certamente essere sentita. L’idea di appartamento rischia di perdere l’aspetto intimo e identitario, caldo e generativo, che siamo soliti attribuirgli e cercarvi: quel senso originale di ‘casa’ che, trasloco dopo trasloco, ho finito col non aspettarmi più. Dev’essere, credo, un po’ come succede con le delusioni d’amore: si impara a ridimensionarsi, si rimpiccioliscono le aspettative ‒ rubando le parole a Garth Greenwell di Purezza ‒ “attraverso un’erosione forse necessaria alla sopravvivenza, e di cui forse devi ancora pentirti”. Questa erosione, nel mio caso, ha finito per dare forma al tipo di rapporto particolare che instauro con gli appartamenti: una relazione simile in tutto e per tutto a quelle situationship distaccate, più o meno etiche, più o meno consapevoli ‒ caratterizzata, anche questa, da un’uguale quantità di attrazione e fastidio, e che richiede un’immensa, sempre rinnovata forza di accettazione e perseveranza. La perseveranza nel dire “benvenuto”, e ogni volta crederci davvero in quella parola, rivolta a un gran numero di appartamenti che sono consapevole fin dall’inizio saranno soltanto temporanei; e l’accettazione, infine, dell’addio rivolto a quello stesso numero di appartamenti, vicinati, quartieri, città, che finisco sempre per lasciare alle spalle, proprio come una stanza d’albergo alla fine di una vacanza. L'articolo Situationship immobiliare proviene da Il Tascabile.
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