La recente norma che ha reso il femminicidio reato autonomo a mio avviso può e
deve essere esaminata da tre punti di vista: come cittadini, sotto il profilo
tecnico e attraverso l’analisi politica. Il femminicidio è ora previsto
dall’art. 577 bis del codice penale. Come cittadini, non si può che esserne
soddisfatti. Qualunque cosa sia utile a fermare la furia omicida dei maschi
contro le donne, deve essere vista con grande favore. Sotto il profilo tecnico,
però, occorre fare alcune osservazioni.
Fino a oggi, l’uccisione di una donna per il suo “essere donna” era omicidio
volontario aggravato da motivi abietti o futili oppure da crudeltà e sevizie,
delitto punito con l’ergastolo. Con l’introduzione della nuova norma, invece,
l’uccisione di una donna commessa per odio, discriminazione, prevaricazione o
come atto di controllo, possesso o dominio in quanto donna, o anche per il
rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di
limitazione delle sue libertà individuali (l’articolo dice testualmente questo),
è considerata femminicidio ed è punita con l’ergastolo. Guardiamo l’art. 3 della
Costituzione: recita che i cittadini italiani sono uguali davanti alla legge
sotto ogni profilo, perciò è chiaro che l’introduzione del delitto di
femminicidio cozzi contro questo principio.
Se confrontiamo le aggravanti dell’art. 61 del codice penale, cioè l’aver agito
per motivi abietti o futili o con sevizia e crudeltà, con gli elementi richiesti
dal delitto di femminicidio (cioè – lo ripetiamo – l’atto di odio o di
discriminazione o di prevaricazione o l’atto di controllo o possesso o dominio
in quanto donna, o per il rifiuto della donna di instaurare o mantenere un
rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali),
probabilmente riterremmo che per il giudice sarebbe più semplice individuare i
motivi abietti o futili, piuttosto che la prevaricazione e la volontà di
possesso o di controllo. È meno complicato considerare abietto l’omicidio della
propria compagna, che non cercare di capire se, nel momento dell’uccisione, la
psiche di un assassino stesse discriminando o prevaricando una donna in quanto
tale.
Non solo la nuova formulazione potrebbe creare problemi interpretativi ai
giudici, ma addirittura – e questo è davvero paradossale – potrebbe fornire ai
difensori dell’imputato delle armi potenti: come si fa a dimostrare che
quell’uccisione è avvenuta per un atto di possesso o di dominio? Cos’è, in
realtà, un atto di possesso o di dominio? Come si può provare? Per contestare
l’accusa, ora i legali dell’assassino potranno attingere alla sociologia, alla
psicologia, perfino alla filosofia o alla Storia. A questo punto, mi domando se
fosse davvero necessario creare una norma autonoma per punire l’uccisione di una
donna in quanto tale.
Qui aggiungo un’analisi politica. Infatti, il governo – che ha varato l’art. 577
bis con l’appoggio dell’opposizione – oggi può vantarsi di aver comunque fatto
qualcosa per arginare il problema, sulla base del principio che la stragrande
maggioranza (della gente che vota) ignora totalmente il profilo tecnico di cui
abbiamo parlato.
In conclusione, che il femminicidio serva a prevenire la strage delle donne –
cosa purtroppo poco probabile – a noi sta più che bene. Ma il sospetto che
l’introduzione del femminicidio come reato autonomo sia soprattutto
un’iniziativa finalizzata all’immagine politica, c’è tutto.
L'articolo I miei dubbi sul reato di femminicidio: perché credo che nasceranno
problemi interpretativi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Come è cambiata la narrazione della cronaca nei casi di femminicidio? Dopo anni
di sensibilizzazione e formazione da parte delle attiviste dei Centri
antiviolenza e di GiULIA, i giornalisti e le giornaliste hanno acquisito
maggiori competenze e letture più aderenti alla realtà del fenomeno ma ancora
persistono distorsioni, pregiudizi o stereotipi.
E’ stato presentato recentemente il nuovo report dell’Osservatorio Step, curato
da Flaminia Saccà. Un precedente report Step che analizzava 16.715 articoli
negli anni 2017, 2018 e 2019 aveva rilevato “una rappresentazione distorta,
permeata da pregiudizi tendenti a vittimizzare le donne e ad attenuare le
responsabilità dei colpevoli”. Ora il progetto ha prodotto una nuova ricerca con
l’analisi di 2350 articoli pubblicati su 26 testate.
Se si confrontano i dati del Ministero degli Interni sui crimini contro le donne
e si fa una comparazione col numero degli articoli che sono stati analizzati,
emerge una discrepanza: le denunce per maltrattamenti familiari rappresentano il
51,7% delle denunce eppure gli articoli che trattano di violenza domestica sono
solamente il 16% degli articoli. Accade il contrario con le uccisioni delle
donne che rappresentano lo 0,3% dei crimini ma che sono stati raccontati nel 33%
degli articoli. C’è una maggiore narrazione sulla violenza sessuale rispetto
alle denunce (18% contro il 13,7%) e minore rispetto allo stalking (34,3% degli
atti persecutori commessi, contro un 7% degli articoli analizzati che ne
parlano).
Si scrive ancora poco e male di violenza domestica, spesso raccontata come
conflitto o lite, senza che siano considerate le disparità di potere e le
asimmetrie che sono alla base della violenza domestica. Anche se si scrive meno
di raptus, la descrizione della violenza è ancora presente come perdita
improvvisa di controllo del maltrattante (34% degli articoli analizzati) così
come persiste l’himpaty, la narrazione empatica nei confronti dell’autore di
violenza.
I media, riporta la ricerca Step, continuano ad attenuare la responsabilità
maschile attraverso strategie narrative tese ad individuare il dolore dell’uomo
come possibile chiave interpretativa del femminicidio. È il trionfo dei frame
che esonerano da responsabilità: “era fragile”, “era disperato”, “non dormiva”,
“l’amava troppo”. E’ evidente che tale narrazione distorce i fatti ed evita di
focalizzare l’attenzione sulla storia e le dinamiche che hanno portato al
femminicidio, ponendo l’attenzione solo nei momenti che precedono il compimento
del crimine.
Il risultato è una rappresentazione che sposta lo sguardo dalla violenza alla
sofferenza dell’uomo che l’ha commessa. Si tratta di una suggestione che attenua
le responsabilità degli autori di violenza. La ricerca rileva anche l’alternanza
di himpaty e mostrificazione dell’autore di violenza. La rappresentazione del
femminicida cambia a seconda dell’età delle vittime. Nei casi che riguardano
donne anziane, disabili o malate, la violenza viene presentata come conseguenza
della patologia della vittima, trasformando il femminicidio in un gesto
altruistico, una sorta di epilogo pietoso di una storia di sofferenza condivisa.
L’uomo “non regge”, “non sopporta più”, “è stremato dalla malattia della moglie”
mentre la donna viene ridotta alla sua condizione clinica e scompare come
persona: non ha voce, identità e resta sullo sfondo della narrazione come
problema, contesto, peso se non come origine della sofferenza del partner.
Questa narrazione non è affatto oggettiva perché dà un senso al gesto dell’uomo,
lo rende comprensibile e quasi inevitabile. È un dispositivo culturale che
protegge il colpevole e cancella la vittima.
Invece, nei casi che coinvolgono bambine e giovanissime vittime di padri o
patrigni, la rappresentazione tende a essere più dura nel giudizio, più
esplicita, meno ambigua. L’offender è definito come tale e la violenza è
chiamata con il suo nome. Il racconto non indulge in attenuanti psicologiche ma
avviene una deumanizzazione dell’autore di violenze descritto come “orco” o
“mostro”.
La risposta è amara ma evidente: le giovanissime non possono essere accusate di
nulla. Non possono “aver fatto arrabbiare”, “essere state ambigue”, “aver
rifiutato un abbraccio”, “aver voluto lasciare” il loro aggressore o essere “un
peso”. Le bambine hanno il diritto di essere protette e curate, le anziane no.
Un altro dato, forse il più inquietante dal punto di vista mediatico rilevato
nella ricerca, è che il 76% degli articoli che danno voce all’offender riporta
direttamente la sua versione dei fatti (“mi faceva dormire sul tappeto”, “mi
aveva detto che si era iscritta ad un sito di appuntamenti”). La vittima è stata
uccisa e ovviamente non ha più possibilità di parola ma la sua testimonianza
indiretta viene riportata da terzi solo nel 58% dei casi.
Questo squilibrio non è un solo dettaglio statistico: significa che
l’informazione continua a costruire il racconto dal punto di vista dell’uomo che
ha agito violenza, mentre la donna resta sullo sfondo, evocata, ricostruita,
interpretata.
Il caso Montefusco, citato nel report, è emblematico. La giustificazione del
“blackout emozionale” – una categoria inesistente nei manuali di psicologia e
negata dagli psichiatri – è il simbolo perfetto di un modo di raccontare e
giudicare la violenza che cerca l’eccezione per non riconoscere la regola.
Se ogni uomo che uccide è fragile, innamorato, disperato, affaticato, instabile,
allora la responsabilità individuale svanisce. E resta un’unica conseguenza
culturale possibile: la violenza diventa un fatto spiegabile, comprensibile,
quasi normale.
In conclusione, la situazione va in lento miglioramento ma c’è molto da fare. La
scelta di dare voce all’offender, di cercare attenuanti emotive, di trasformare
un femminicidio in un “dramma della disperazione” continua a resistere nella
cronaca nera o giudiziaria influenzando la percezione del disvalore dei crimini
contro le donne.
Se da una parte il femminicidio viene raccontato come un dramma legato alla
sofferenza o all’amore, e dall’altra come atto mostruoso e circoscrivibile ad
eccezioni mostruose o a devianza, viene meno la lettura della violenza maschile
contro le donne come fenomeno sociale e strutturale. Persiste una rimozione
della violenza nelle sue molteplici manifestazioni.
Finché continueremo a raccontare la violenza maschile attraverso lo sguardo di
chi la esercita, non potremo mai combatterla davvero.
L'articolo Femminicidi, com’è cambiata la narrazione della cronaca: articoli più
aderenti, ma persistono distorsioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
È stato trovato dai Carabinieri riverso al suolo, gravemente ferito ma vivo, in
una zona impervia del territorio di Matelica (Macerata). Nazif Muslija, il
50enne di origine macedone accusato del femminicidio della moglie Sadjide
Muslija, era irreperibile da ieri: è accusato di omicidio volontario aggravato.
I sanitari del 118 sono intervenuti per stabilizzarlo. La sua auto, una Smart
bianca, è stata trovata abbandonata nei pressi del luogo di ritrovamento
dell’uomo, la cui posizione è al vaglio degli inquirenti.
È lui il principale sospettato per il femminicidio della moglie Sadjide Muslija,
ritrovata mercoledì riversa sul letto con il volto sfigurato nella sua casa di
Pianello Vallesina, frazione di Monte Roberto, in provincia di Ancona. La donna
aveva già denunciato il marito. Il 50enne tra l’altro avrebbe dovuto frequentare
un percorso per uomini maltrattanti della durata di un anno, come previsto nel
patteggiamento, ma non lo ha fatto perché nell’associazione “non c’era posto”.
Quel percorso legato al suo patteggiamento a un anno e dieci mesi di reclusione
per le aggressioni e i maltrattamenti alla stessa moglie, non è mai iniziato.
L’uomo aveva un anno di tempo per svolgerlo da quando la sentenza era passata in
giudicato a settembre 2025: avrebbe dovuto fare incontri ogni due settimane per
una durata totale di 60 ore. L’avvocato dell’uomo, Antonio Gagliardi, ha
tuttavia affermato che “non c’era posto per l’uomo nell’associazione indicata
dal percorso”.
“Questa storia lascia l’amaro in bocca, non si possono trattare tutti i casi di
violenza nello stesso modo. Credo che questo caso avrebbe meritato una corsia
preferenziale, che nel caso in specie non c’è stata”, ha commentato la
procuratrice capo della Repubblica ad Ancona, Monica Garulli, rispondendo alle
domande dei cronisti. “Io penso – ha aggiunto – che nel momento in cui si
individua una struttura deputata al percorso di recupero, per evitare il
pericolo di recidiva bisogna comprendere qual è il pericolo di recidiva e
differenziare i percorsi a seconda della gravità dei fatti. Credo che questo
caso avrebbe meritato una corsia preferenziale che nel caso in specie non c’è
stata. La legge però non lo consente- spiega Garulli – perché il giudice quando
emette una sentenza deve individuare e subordinare la sospensione condizionale
della pena alla partecipazione al percorso. Poi c’è la parte dell’esecuzione che
è rimessa a organi diversi da quelli giudiziari e non abbiamo possibilità di
intervento. Lì andrebbero meditate le situazioni che hanno una valenza
prioritaria, ma il giudice non può intervenire dando una corsia preferenziale,
ma penso che sarebbe auspicabile. Bisogna modellare il trattamento in relazione
alla gravità della situazione, bisogna che si consideri questo aspetto, che è un
profilo sostanziale, non formale”, conclude la magistrata.
Intanto fuori dall’abitazione dove la donna è stata trovata morta, i carabinieri
hanno trovato e sequestrato un tubo di ferro da cantiere: potrebbe essere l’arma
del delitto della 49enne di origine macedone. Il tubo sarà fatto analizzare per
vedere se le ferite riportate dalla donna, colpita alla testa e al torace, sono
compatibili e se ci siano le impronte del marito. La Procura disporrà l’autopsia
sul corpo della donna. I primi riscontri, fatti sul posto dal medico legale
Angelo Montana, hanno evidenziato diversi colpi severi sul cranio e sul corpo
della donna ritrovata sul letto. L’aggressione mortale sarebbe avvenuta al
mattino, anche se l’orario indicativo della morte sarà stabilito dall’autopsia.
Il tubo di ferro, che presenterebbe tracce ematiche, era appoggiato a un muro
esterno dell’abitazione: è un tubo vuoto all’interno, come quelli utilizzati per
le impalcature nei cantieri.
L'articolo Femminicidio Ancona, trovato il marito della vittima: è ferito. La
denuncia e il percorso per uomini maltrattanti mai iniziato proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Picchiata a morte dentro la sua casa. L’ultimo femminicidio è avvenuto a
Pianello Vallesina, frazione di Monte Roberto, in provincia di Ancona. La
vittima è una donna macedone di 50 anni, ritrovata con il volto sfigurato, e i
sospetti degli investigatori sono tutti concentrati sul marito, un connazionale
che risulta irreperibile ed era stato arrestato ad aprile scorso per
maltrattamenti in famiglia.
I due, dopo una separazione, erano tornati a vivere insieme. Ora i carabinieri
stanno cercando di capire cosa sia accaduto tra la serata di lunedì e il momento
del ritrovamento del corpo, attorno alle 13. Il marito, operaio in un’azienda
del posto, non si trova e martedì mattina non si è presentato al lavoro.
L'articolo Donna picchiata a morte in casa nell’Anconetano: si cerca il marito,
già arrestato per maltrattamenti proviene da Il Fatto Quotidiano.
Aiutò il figlio, Mark Samson, a nascondere il cadavere di Ilaria Sula, la 23enne
uccisa a Roma nel marzo scorso con tre coltellate dall’ex fidanzato e poi
gettata, chiusa in una valigia, in un dirupo a 40 chilometri dalla capitale. Per
questo Nosr Manlapaz è stata condannata a due anni per il reato di occultamento
di cadavere. Due giorni fa il giudice ha accolto la sua richiesta di
patteggiamento della pena, concessa con sospensione condizionale. Ovvero non
finirà in carcere.
In attesa del processo a Samson, il primo verdetto provca le proteste dei
familiari di Ilaria, di origine albanese ma residenti in Italia da molto tempo.
“Per noi non è giustizia questa – commenta Flamur Sula, padre della vittima, che
viveva a Terni – Siamo rimasti malissimo dopo quello che abbiamo visto e sentito
in un processo che dura solo cinque minuti. Parliamo di una persona che ha
pulito litri di sangue di mia figlia buttati nel water”, ha ricordato ancora il
padre della ragazza.
All’udienza in tribunale si sono trovati, per la prima volta, faccia a faccia i
genitori di Ilaria e la madre di Mark, originaria delle Filippine. “La mia
assistita, Nosr Manlapaz, si è detta da subito disponibile a qualunque
iniziativa possibile per lenire il dolore di quella famiglia, ha chiesto scusa
fin dalla prima sera ed è pronta ad incontrare i genitori di della vittima per
chiedere il perdono”, spiega l’avvocato della donna, Paolo Foti.
Nonostante ciò i genitori della 23enne dubitano che lei sia sinceramente
disposta a chiedere il perdono e comunque non intendono concederlo. “Quella
donna è stata presente più di me agli ultimi istanti di mia figlia, possibile
che non faccia un solo giorno di carcere?”, ha detto Gezime, la mamma di Ilaria,
al suo legale, Giuseppe Sforza. Il delitto avvenne in via Homs, nel quartiere
Africano di Roma, dove Samson uccise la ragazza con un coltello da pane per poi
disfarsi del cadavere nascondendolo in una valigia e gettandolo in un dirupo nei
pressi di Poli. Sua madre, dopo essere venuta a conoscenza dell’omicidio, si
sarebbe attivata con stracci e sapone per ripulire la stanza ed eliminare così
le tracce di sangue.
L’istruttoria per il processo a Mark Samson si aprirà invece il prossimo 9
dicembre, durante la quale si continuerà a fare ulteriormente luce sui contorni
della vicenda giudiziaria nella quale l’università La Sapienza ha chiesto di
costituirsi parte civile. La ragazza era iscritta all’ateneo al corso di
statistica, mentre Samson seguiva Architettura: “Siamo in presenza di due
studenti de La Sapienza – ha detto l’avvocato Roberto Borgogno, legale
dell’Ateneo -. Ilaria aveva dimostrato grande impegno ed interesse nello studio,
mentre l’imputato no. Proprio la scoperta che Samson fingeva di avere conseguito
gli esami è stato uno dei motivi che ha portato all’assurda uccisione di
Ilaria”.
L'articolo Femminicidio di Ilaria Sula, patteggia la mamma di Samson: condannata
a due anni per occultamento di cadavere proviene da Il Fatto Quotidiano.
Aveva annunciato di voler fare una “follia” a un suo conoscente fuori regione,
che ha dato l’allarme ai Carabinieri. Entrati nella sua abitazione nella
frazione di Po’ Bandino a Città della Pieve (Perugia), i militari hanno trovato
Antonio Iacobellis, sottufficiale dell’Aeronautica in pensione, morto sparandosi
in bocca dopo aver ucciso la sua convivente, Stefania Terrosi, con un colpo
della stessa pistola al petto. I corpi sono stati trovati nel soggiorno
dell’appartamento, aperto dal figlio della donna, 59enne impiegata in un’impresa
di pulizie. Il movente del femminicidio-suicidio è oggetto di indagini: le
persone più vicine alla vittima hanno fatto capire che temevano per la sua
incolumità a causa dei continui scontri col compagno. La pistola usata per il
delitto non era l’arma d’ordinanza di Iacobellis: sono in corso verifiche per
accertare se fosse regolarmente detenuta.
Nell’abitazione e nell’area circostante è stato condotto un accurato sopralluogo
dei carabinieri della Scientifica, che hanno eseguito i rilievi. Tra i vicini
c’è poca voglia di parlare: “Quello che succedeva in casa lo sapevano solo
loro“, dice un residente all’Ansa. Dopo la scoperta dei corpi sul posto è
arrivato il sindaco di Città della Pieve Fausto Risini, particolarmente colpito
dall’accaduto. La governatrice dell’Umbria Stefania Proietti esprime “profondo
dolore e cordoglio per la tragedia, un evento che genera sgomento e riapre una
ferita profonda in tutto il territorio”: “Siamo vicini alla famiglia colpita da
questo dolore improvviso e difficile da comprendere. In questi momenti il nostro
primo dovere è il rispetto, la presenza partecipe delle istituzioni accanto a
chi sta vivendo un lutto così terribile e profondo”, scrive in una nota.
Se hai bisogno di aiuto o conosci qualcuno che potrebbe averne bisogno,
ricordati che esiste Telefono amico Italia (0223272327), un servizio di ascolto
attivo ogni giorno dalle 10 alle 24 da contattare in caso di solitudine,
angoscia, tristezza, sconforto e rabbia. Per ricevere aiuto si può chiamare
anche il 112, numero unico di emergenza. O contattare i volontari della onlus
Samaritans allo 0677208977 (operativi tutti i giorni dalle ore 13 alle 22).
L'articolo Femminicidio-suicidio in Umbria: militare in pensione uccide la
convivente e si spara. Aveva annunciato una “follia” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Fu uccisa a colpi di fucile Manuela Petrangeli e per il suo femminicidio viene
chiesto l’ergastolo con questa motivazione. “Manuela era una donna forte,
solare, determinata che è stata barbaramente uccisa, strappata ai suoi affetti
più cari per mano del padre di suo figlio, Gianluca Molinaro, un uomo vittima di
sé stesso e delle sue ossessioni patologiche, vittima del più brutale arcaico e
ancestrale modello del patriarcato nella relazione uomo-donna, frutto di
stereotipi che Molinaro ha interpretato nel peggior modo possibile” ha detto la
pm Antonella Pandolfi nel corso della requisitoria davanti ai giudici della I
Corte d’assise di Roma nel giorno in cui si celebra la Giornata per
l’eliminazione della violenza sulle donne.
L’accusa ha chiesto anche l’isolamento diurno per 18 mesi, per Molinaro,
accusato per l’omicidio della ex compagna e madre di suo figlio avvenuto il 4
luglio dello scorso anno. All’uomo, in seguito all’inchiesta coordinata dal
procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, oggi presente in aula accanto alla pm,
sono contestati i reati di omicidio aggravato dalla premeditazione e dallo
stalking, di detenzione abusiva di armi e in relazione a quest’ultima accusa,
anche quella di ricettazione. Durante la requisitoria durata oltre due ore, la
pm Pandolfi ha fatto riferimento alla data di oggi. ”Il 25 novembre è la
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e
sento la necessità di ricordare Manuela, strappata ai suoi affetti, e la
negazione della sua libertà: nessuna giustificazione può trasformarsi nel
diritto di vita o di morte”.
In aula sono stati ripercorsi i messaggi con le tante offese e minacce inviate
alla donna fino a poco prima del femminicidio. “Molinaro è un uomo che non è
riuscito dopo tre anni e mezzo a superare la separazione, covando rabbia cieca e
ossessione patologica verso la vittima. Ha pianificato in maniera fredda e
lucida l’eliminazione della madre di suo figlio – ha sottolineato- Una cosa è
certa: i messaggi vocali di Molinaro dicono molto più di mille testimoni.
L’omicidio di Manuela non è stato un raptus ma la cronaca di una morte
annunciata, un’esecuzione fredda, lucida e premeditata, lui diceva di essere una
bomba a orologeria, di voler eliminare un problema e quel problema era Manuela”.
L'articolo “Manuela Petrangeli uccisa da uomo vittima del più brutale arcaico e
ancestrale modello del patriarcato” proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Da quando lei aveva chiesto il divorzio, lui era sprofondato nella
depressione”.
“Non accettava il nuovo compagno, che la madre dei suoi figli si fosse rifatta
una vita senza di lui”.
“Forse Luigi non sopportava di vederla felice”. “Perché Luciana dopo la fine
della loro relazione era rinata, sempre gioiosa, giura chi la incrociava in
quartiere”.
“I due si erano conosciuti nel lontano 1978. Si erano poi trasferiti
nell’appartamento in cui lui l’ha accoltellata a morte. Per vent’anni avevano
condiviso non solo la casa ma anche il lavoro”.
“Nel 2010 l’attività aveva però iniziato ad andare male. Tanto che la coppia era
stata costretta a chiudere l’attività. Data che poi (quasi) coincide con
l’inizio della crisi del rapporto di coppia e delle liti”.
Sono stralci veri di articoli sui femminicidi in Italia. Versi pubblicati sui
nostri giornali ogni qualvolta diamo notizia di una nuova vittima.
Io li chiamo i “romanzi popolari sui femminicidi”. Le pagine dei giornali vanno
riempite, certo, non solo. La ricostruzione del contesto in cui spesso avvengono
i femminicidi è un modo per far capire che crimini di questo genere accadono in
un contesto di assoluta normalità. Ok. Cioè l’assassino non è un mostro
disadattato… è un uomo perfettamente integrato e che conduce una vita anche
familiare apparentemente normale. Va bene. Ci sto. Ma siamo sicuri che stiamo
facendo bene?
Ogni volta che leggo uno di questi “romanzi popolari sul femminicidio” mi chiedo
a chi servono e se servono. Per chi sono scritti? Sicuramente non per le vittime
e nemmeno per i suoi cari, sopravvissuti alla barbarie e alla perdita. Tipo un
figlio, un orfano di femminicidio: cosa se ne fa di un romanzo popolare
sull’uccisione della madre da parte del padre o compagno o fidanzato? Niente.
A lui forse serve sapere se è stato fatto tutto il possibile per salvarla, se le
denunce che aveva presentato sono state prontamente prese sul serio, se la rete
di protezione che doveva attivarsi si è attivata. Alle vittime servono le
inchieste, serve giustizia.
Forse questi pezzi pieni di dettagli, sulle cause che potrebbero aver spinto
l’uomo, l’assassino, il responsabile di femminicidio, ad ammazzare, sono anche
scritti talvolta in buona fede, ma sono culturalmente il retaggio di un passato
che dovremmo esserci lasciato alle spalle. I romanzi popolari dei femminicidi
finiscono sui social, nel magico mondo di internet. Ed ecco che diventano
fruibili da una moltitudine vastissima di lettori che li digerisce come vuole,
con gli strumenti che ha.
Il web è pieno di storie di uomini separati che dopo il divorzio magari hanno
perso anche il lavoro, uomini che non accettano la separazione perché
ossessionati “dall’amore” per lei, uomini che quindi alla fine la accoltellano,
strangolano, nascondono il cadavere della donna “amata”. Fermiamoci! “Lo stupro
non è un surrogato dell’amore” scrisse Indro Montanelli il 14 dicembre 1966 in
prima pagina sul Corriere della Sera nel suo editoriale su “La ragazza di
Alcamo”, Franca Viola, colei che con il suo NO categorico al matrimonio
riparatore, supportata dalla famiglia, si rifiutò di sposare il suo carnefice
che l’aveva rapita, picchiata, violentata.
Anche il femminicidio, non è un surrogato dell’amore.
E quindi, prendo sempre in prestito Montanelli che nel 1966, concluse: “Noi
contiamo che da questo processo venga fuori una sentenza che non si limiti a
punire il delinquente, ma che anche condanni in maniera esemplare tutti coloro
che se ne sono fatti complici, materiali o morali, la mentalità ch’essi
incarnano”.
È 25 novembre ogni giorno dell’anno.
L'articolo A cosa servono questi ‘romanzi popolari’ sul femminicidio? Fermiamoci
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Fino a dieci o quindici anni fa, in Italia parlare di violenza di genere e di
femminicidio sui media, in rete, ma anche a scuola, in università e nelle case,
era molto più difficile di adesso. La stessa parola “femminicidio” non era così
diffusa come oggi, e non lo era nemmeno sui media mainstream: come attesta
l’Accademia della Crusca, è solo dal 2010 che i giornali hanno cominciato a
usarla con frequenza crescente.
Intendiamoci: non è che oggi affrontare l’argomento sia facile, perché il tema è
ancora “divisivo”, come si dice, cioè finisce per scaldare gli animi e per
suscitare discussioni e litigi che non sempre restano civili, ma finiscono nel
turpiloquio e nella violenza verbale. Però se ne parla, ci si confronta, e
questo ovviamente è un bene, visto che in Italia la violenza sulle donne non
accenna proprio a diminuire e, mentre per fortuna il numero di omicidi continua
a scendere, il numero di donne ammazzate da mariti o compagni (attuali, passati
o aspiranti), ma anche da padri, fratelli e altri congiunti maschi, resiste
quasi identico da oltre trent’anni. Lo confermano tutti i dati ufficiali
(checché ne pensi chi si ostina a negare il problema): si veda ad esempio questa
tabella Istat.
Nel tempo, la mia posizione sull’argomento è cambiata. Per anni, infatti, su
questo blog, su quello mio personale e sui miei canali social, come pure nelle
aule universitarie dove insegno, ho sostenuto l’importanza delle parole e della
denuncia pubblica di tanta violenza e tante uccisioni. Colpevole, infatti,
sarebbe lasciare gli orrori nel silenzio. Certo. Però.
Però c’è qualcosa che non va. In quindici anni il dibattito è cresciuto sui
media, i femminicidi, lesbicidi e trans*cidi si contano in modo sempre più
preciso, le celebrazioni della Giornata Internazionale per l’eliminazione della
violenza sulle donne si sono intensificate ovunque. Eppure.
Eppure le donne continuano subire violenza in tutti i modi e gradi, in tutte le
sedi e tutti i ruoli. E all’apice di questa violenza, continuano a morire per
mano maschile, visto che in Italia c’è un femminicidio più o meno ogni tre
giorni, e a volte più spesso. Da anni.
Cosa vuol dire questo? Anzitutto che parlare di violenza sulle donne e di
femminicidi è meglio – ovviamente – che tacerne, ma – ancora più ovviamente –
non basta. Il problema sta altrove infatti. Sta nella società violenta e nella
cultura maschilista e machista, che in Italia è pervasiva e resistente. Sta
nella scarsissima sensibilità e attenzione per la parità di genere in famiglia,
sul lavoro, ovunque. Sta nella mancanza di educazione sessuale e affettiva a
scuola. Sta nell’economia italiana, che vede da sempre l’occupazione femminile –
ancora! – sotto la media europea. E se tu, donna, vivi con un marito, un
compagno o un padre violento che ti mantiene, mentre tu un lavoro non ce l’hai o
non ti basterebbe per vivere da sola, come fai a uscire dall’oppressione?
Ma il problema sta anche nel modo in cui se ne parla. Anzitutto, parlare di
violenza in modo violento, con aggressioni verbali, insulti e litigi, non fa che
alimentare il clima di prepotenza generale da cui poi nascono anche i casi
estremi. E parlarne troppo, in modo insistente, morboso, quasi ossessivo, come
accade in occasione dello stupro o femminicidio di turno, finisce per
normalizzare il fenomeno e, peggio ancora, per trasformarlo in una tendenza, un
vero e proprio genere mediatico, che lascia sempre più indifferente la maggior
parte delle persone, mentre rischia di attrarre e fomentare, proprio per i
tratti di morbosità di cui ho detto, quei maschi che già per conto loro sono più
inclini alla violenza.
È da molti decenni che la ricerca psicologica e sociale ha evidenziato l’effetto
emulazione connesso all’esposizione mediatica dei suicidi. Si chiama “effetto
Werther”, perché fa riferimento al fatto che, dopo la pubblicazione del romanzo
di Goethe nel 1774, ci fu in Europa un’ondata di suicidi per amore. Il fenomeno
è stato spiegato grossomodo così: si presume che, per ogni persona che si
suicida, ce ne siano decine che, per varie ragioni, ci stanno pensando; su di
loro, la notizia agisce come catalizzatore, non solo perché “se l’ha fatto
lui/lei posso farlo anch’io”, ma perché i media costruiscono un’immagine eroica
del gesto. Ora, per evitare l’emulazione, è prassi consolidata, per i mezzi di
informazione, tenere riservate le notizie dei suicidi, pubblicandole solo in
casi particolari e con discrezione.
Sono poche e purtroppo ancora isolate le voci che, da qualche anno, parlano di
un possibile effetto emulazione anche per l’esposizione mediatica di stupri e
femminicidi. Ebbene, io sono fra queste e, mentre anni fa non ci pensavo
proprio, oggi mi auguro che su questo ci sia presto una riflessione collettiva,
sui media e altrove.
L'articolo Sui femminicidi un racconto morboso. E a parlarne troppo e male, si
rischia l’effetto emulazione proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Francesco Valendino
C’è una domanda che torna dopo ogni femminicidio. Perché l’amore si trasforma in
furia, la passione in possesso, l’addio in condanna a morte? Perché certi uomini
preferiscono distruggere piuttosto che lasciare andare?
La risposta sta molto più indietro. Nei miti che abbiamo respirato per millenni,
nelle religioni che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, in quella
struttura mentale che ha fatto del maschile la forza e del femminile il mistero
da conquistare.
Quando Martina Carbonaro è stata uccisa da un ragazzo che non accettava di
essere lasciato, quando Filomena Bruno è morta per aver difeso la libertà di sua
figlia, quando Giulia Cecchettin ha pagato con la vita la sua autonomia, non
sono morte solo loro. È morta la stessa antica paura: quella del vuoto,
dell’abbandono, della perdita di sé. Gli antichi Greci l’avevano già raccontato.
Ade rapisce Persefone perché non sopporta la solitudine. Non è amore, è terrore
del vuoto. Orfeo si volta per controllare Euridice e la perde per sempre. Apollo
insegue Dafne che si salva solo diventando albero. Narciso non vede Eco, ama
solo la propria immagine.
Sono storie di tremila anni fa, eppure le viviamo ancora oggi. Perché quegli
archetipi hanno costruito un modello di maschile che identifica l’amore con il
possesso, la cura con il controllo, la passione con la conquista. Un modello che
il cattolicesimo ha poi rafforzato: Eva la tentatrice che porta al peccato,
Maria la santa che tace e obbedisce. Tra colpa e santità, alla donna non è
rimasto spazio per essere semplicemente se stessa.
E l’uomo? L’uomo occidentale è cresciuto credendosi custode, giudice, salvatore.
Ha imparato che l’amore “vero” non finisce mai, che “finché morte non vi separi”
è un vincolo sacro, che conquistare una donna è una vittoria e perderla un
fallimento. Non gli hanno insegnato a piangere, a parlare del dolore, a gestire
il rifiuto. Gli hanno insegnato solo ad essere forte. E quando la forza non
basta più, resta solo la rabbia.
Eppure basterebbe guardare altrove per capire che si può amare in modo diverso.
Nelle culture orientali, l’amore non è battaglia ma armonia. Nel Taoismo, lo Yin
e lo Yang danzano insieme senza che uno debba dominare l’altro. Nel Buddhismo,
amare significa non possedere, accettare che tutto cambia, che la perdita fa
parte della vita. Nell’Induismo, Śiva e Śakti si uniscono e si separano
continuamente, in un respiro cosmico dove nessuno dei due appartiene all’altro.
Sono visioni che l’Occidente fatica ancora a comprendere. Perché noi abbiamo
fondato l’amore sull’illusione della permanenza, loro sull’accettazione del
cambiamento. Per noi, l’amore finito è fallimento. Per loro, è ciclo naturale. E
questa differenza ha conseguenze concrete: l’uomo che non sa lasciare andare
diventa pericoloso.
La verità è che molti uomini non sopportano la libertà dell’altra persona perché
identificano se stessi con quella relazione. E allora, nella loro mente
distorta, se devono morire preferiscono portarla con sé. Non è amore, è panico
identitario.
Ma forse c’è una via d’uscita. Forse rieducare il maschile non significa
annullarlo, ma riconciliarlo con ciò che ha sempre temuto: la vulnerabilità, il
silenzio, l’arte di lasciar andare. Insegnare ai ragazzi che piangere non è
debolezza, che perdere non è fallimento, che l’altra persona non è un’estensione
di sé ma un universo autonomo da rispettare. Significa imparare dal pensiero
orientale ciò che l’Occidente ha dimenticato: che l’amore vero non trattiene,
accoglie. Non possiede, accompagna. Non controlla, si fida. E quando finisce,
non distrugge. Ringrazia per il cammino fatto insieme, e lascia che ognuno
prosegua la propria strada.
Solo allora l’amore smetterà di avere paura della propria fine. E finalmente
potrà rinascere come quello che dovrebbe essere da sempre: non un abisso in cui
sprofondare, ma un cielo in cui volare liberi, insieme, finché dura. Perché il
vero contrario dell’amore non è l’odio. È il possesso.
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