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Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo: da che parte stare?
Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo, uno di quelli in cui nessuno vorrebbe trovarsi. Da una parte c’è un regime criminale, denunciato da anni per violazioni sistematiche dei diritti umani, con carceri piene di prigionieri politici, dissidenti e perfino ostaggi internazionali, come il nostro connazionale Alberto Trentini. Un potere autoritario che non riconosce il risultato delle elezioni quando le perde, come abbiamo visto nel 2024, e che ha provocato il più grande esodo migratorio della storia recente dell’America Latina. Una cupola senza scrupoli, guidata da Nicolás Maduro, ha di fatto sequestrato un Paese ricchissimo di risorse, ma soprattutto ha sequestrato un popolo che, per la propria storia e la propria cultura, non si sarebbe mai immaginato in esilio. Oggi milioni di venezuelani vivono lontani da casa, spesso in condizioni precarie, spesso con un passaporto scaduto e un futuro sospeso. Dall’altra parte, a fare da contraltare, c’è una potenza imperialista guidata da un presidente lunatico e vendicativo, che ha appoggiato senza esitazione il massacro del popolo palestinese, armando la mano di Benjamin Netanyahu. Un Trump misogino, egolatra, che usa i dazi come arma politica, che calpesta il diritto internazionale e si arroga il potere di decidere chi debba vivere o morire nel Mar dei Caraibi in nome della “lotta alla droga”. In mezzo, come se non bastasse, ecco il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado (arrivata rocambolescamente ad Oslo) che, insieme a quello a Obama, è uno dei più divisivi degli ultimi decenni: per molti venezuelani è un simbolo di resistenza contro Maduro, per altri l’ennesima espressione di un’opposizione liberale, bianca, di élite, perfettamente compatibile con le agende di Washington. E allora, da che parte stare? Dobbiamo davvero augurarci una invasione in stile boots on the ground – improbabile, ma non impensabile – degli Stati Uniti per rovesciare una dittatura sanguinaria? Oppure dobbiamo schierarci per riflesso automatico con chi si proclama anti-imperialista davanti alle telecamere e grida “gringo go home”, anche quando nei fatti ha trasformato il proprio Paese in una prigione a cielo aperto? Il sangue versato per le ingerenze Usa in America Latina e nei Caraibi non è acqua passata: è memoria viva, è il ricordo dei golpe, dei desaparecidos, delle torture, delle riforme strutturali imposte col ricatto del debito. È la cicatrice delle dittature che ancora oggi segna i corpi e le biografie di milioni di persone. Ma se ci fermiamo qui, restiamo prigionieri di un antimperialismo di riflesso che spesso assolve, o minimizza, i crimini dei regimi che si dichiarano “nemici degli Stati Uniti”. C’è poi una dimensione che fatichiamo ad ammettere: il nostro privilegio. Da Milano, Roma, Madrid o Parigi è facile romanticizzare le rivoluzioni altrui. Lo abbiamo fatto con Cuba, lo abbiamo fatto con il Nicaragua: bandiere, poster, slogan, magliette. Ma chi vive l’esilio, chi fa la fila per un permesso di soggiorno, chi cerca lavoro con un documento scaduto, chi porta addosso le conseguenze psichiche e fisiche della repressione raramente ha il lusso di perdersi nelle nostre categorie ideologiche. A Madrid, le esiliate e gli esiliati dal Nicaragua – fra cui figure come Gioconda Belli – raccontano cosa significhi vivere sotto Ortega e Murillo: criticare la dittatura non li trasforma automaticamente in fan di Trump. Allo stesso modo, criticare Maduro non significa consegnarsi mani e piedi al progetto imperiale statunitense. La realtà, ancora una volta, è più complessa delle nostre tifoserie geopolitiche. Lo stesso vale per il Venezuela. Al netto delle nostre analisi da esperti della domenica, dovremmo cominciare da una domanda semplice: cosa dicono i venezuelani e le venezuelane? Se oggi fermassimo per strada, a Roma, Lima, Bogotá o Buenos Aires, una persona venezuelana in esilio e le chiedessimo cosa pensa di quello che sta succedendo, la risposta più probabile sarebbe che gli Stati Uniti ci stanno mettendo troppo ad intervenire. Possiamo non condividere, possiamo discutere, possiamo ricordare tutte le volte in cui l’intervento “salvifico” di Washington si è trasformato in tragedia. Ma non possiamo continuare a parlare sopra le voci di chi ha perso casa, lavoro, cittadinanza, futuro. Questo post non offre soluzioni nette e definitive. Vuole essere, più modestamente, una riflessione aperta. Un invito a disinnescare il riflesso condizionato che ci porta a scegliere sempre e comunque “il nemico del mio nemico”, anche quando è disposto a sacrificare il proprio popolo sull’altare del potere. Un invito a mettere al centro le persone in fuga, i loro racconti, le loro ferite, prima dei nostri schemi ideologici. Perché se c’è una cosa che il Venezuela ci sta insegnando è che si può essere, allo stesso tempo, contro Maduro e contro Trump; contro la tortura e contro le invasioni; contro i narco-generali e contro i droni teleguidati dal Nord. Forse, oggi più che mai, la vera scelta non è tra “regime sanguinario” e “impero”, ma tra la nostra comodità di spettatori e la responsabilità di ascoltare chi, da anni, non ha più il privilegio di voltarsi dall’altra parte. L'articolo Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo: da che parte stare? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Giallo sulla presenza di Maria Corina Machado alla cerimonia del Nobel: annullata la conferenza stampa
Non appare in pubblico da mesi e adesso anche la sua presenza a Oslo è avvolta nel mistero. Alla vigilia della cerimonia di consegna del premio Nobel per la Pace nella capitale norvegese, la conferenza stampa di Maria Corina Machado è stata annullata. La leader dell’opposizione venezuelana era attesa a Oslo per la tradizionale conferenza stampa prima della cerimonia di assegnazione. La conferenza era già stata rinviata in giornata. Ma Erik Aasheim, portavoce dell’Istituto Nobel, aveva rassicurato sul suo svolgimento. Nel frattempo, però, si sono moltiplicate le voci secondo sui Maria Corina Machado potrebbe non riuscire a ritirare il premio di persona. La leader dell’opposizione venezuelana, infatti, vive in clandestinità: presentandosi alla cerimonia di premiazione, rischia di essere dichiarata “latitante” dalle autorità venezuelane. La sua ultima apparizione in pubblico risale al 9 gennaio, quando la politica 58enne ha partecipato a una manifestazione a Caracas contro il terzo mandato di Nicolas Maduro come presidente. Il premio Nobel per la Pace le è stato assegnato proprio per la sua “lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia” in Venezuela, sfidando il governo di Maduro, si leggeva nella motivazione. Alcune oro dopo, è arrivata la notizia dell’annullamento della conferenza stampa. “La stessa Maria Corina Machado ha parlato di quanto sia difficile venire in Norvegia. Speriamo venga per la cerimonia”, ha fatto sapere il portavoce Erik Aasheim. L’Istituto Nobel ha poi dichiarato di non poter fornire ulteriori informazioni su quando e come Machado arriverà alla cerimonia di premiazione, e non è stato nemmeno chiarito se la conferenza stampa verrà recuperata in un secondo momento. Intanto, mentre ancora non è chiaro se Machado sia riuscita a partire, arriva una dichiarazione da parte di Magalli Meda, la responsabile della sua ultima campagna elettorale: “Non esiste alcuna possibilità che Maria Corina resti in esilio” dopo la consegna del Premio Nobel: “È come dire a una madre che dovrà smettere di amare i propri figli”, ha dichiarato in un video diffuso su uno dei profili social dell’opposizione venezuelana. Intanto, a Oslo sono arrivati diversi leader politici sudamericani. Il presidente dell’Argentina, Javier Milei, ha dichiarato che la sua presenza è a sostegno di Maria Corina Machado e dell’opposizione venezuelana. Saranno presenti anche i leader di Panama, Ecuador e Paraguay. Nella capitale norvegese è presente anche la famiglia di Machado. L'articolo Giallo sulla presenza di Maria Corina Machado alla cerimonia del Nobel: annullata la conferenza stampa proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ultimatum di Trump a Maduro: “Lascia il Paese o attacchiamo”. ‘No’ del leader venezuelano che riappare in pubblico dopo giorni
Donald Trump lancia un ultimatum a Nicolas Maduro. Prima del vertice alla Casa Bianca sul Venezuela, alla presenza del presidente americano, del capo del Pentagono Pete Hegseth e del segretario di Stato Marco Rubio, il leader statunitense ha chiamato l’omologo di Caracas, secondo indiscrezioni raccolte dal Miami Herald, offrendogli un passaggio sicuro per lasciare il Paese e la salvezza insieme alla moglie, al figlio e ai fedelissimi a patto che abbandoni immediatamente l’incarico. Se questo non dovesse accadere, aggiunge il quotidiano americano, il presidente sembra essere pronto a sferrare un attacco. Ma da quanto riferiscono le fonti, il colloquio non è andato a buon fine: Trump non ha voluto assecondare la richiesta di Maduro di un’amnistia generale e il mantenimento del controllo delle Forze Armate come avvenne in Nicaragua nel 1991. Il presidente venezuelano non manifesta preoccupazione e nella stessa giornata è tornato a mostrarsi in pubblico, a Caracas, dopo un’assenza che aveva alimentato speculazioni su una sua possibile fuga dal Paese. Maduro ha partecipato alla cerimonia annuale di premiazione dei migliori caffè che si è svolta nella zona orientale della capitale. Solitamente presente sulla tv venezuelana più volte durante la settimana, il leader non appariva in pubblico da mercoledì, quando ha condiviso su Telegram un video in cui guidava per le strade di Caracas. Durante la sua ultima apparizione, il leader sudamericano era seduto davanti a una folla e consegnava medaglie ai produttori di caffè che presentavano i loro prodotti migliori. Maduro è poi passato agli assaggi e ha pronunciato brevi discorsi, nessuno dei quali ha affrontato apertamente l’attuale crisi con gli Stati Uniti. Al termine dell’evento, ha poi gridato che il Venezuela è “indistruttibile, intoccabile, imbattibile”, parlando dell’economia del Paese. Ma i punti di scontro tra le parti non mancano. La Procura generale e l’Assemblea nazionale del Venezuela hanno annunciato indagini sui bombardamenti Usa di presunte imbarcazioni narcos nelle acque dei Caraibi che hanno provocato la morte di un’ottantina di persone. Secondo il presidente del parlamento venezuelano, Jorge Rodríguez, “l’ordine di uccidere” gli occupanti delle imbarcazioni “viola le Convenzioni di Ginevra e il diritto internazionale umanitario”. Il Venezuela ha anche chiesto aiuto all’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) per “fermare questa aggressione (americana, ndr), che si sta preparando con sempre maggiore forza”. Lo si legge in una lettera firmata dallo stesso Maduro e letta dalla vicepresidente, Delcy Rodríguez, che è anche ministro del Petrolio venezuelano, durante una riunione virtuale dei ministri dell’Opec. Washington “sta cercando di impossessarsi delle vaste riserve petrolifere del Venezuela, le più grandi al mondo, usando la forza militare”, ha scritto. L'articolo Ultimatum di Trump a Maduro: “Lascia il Paese o attacchiamo”. ‘No’ del leader venezuelano che riappare in pubblico dopo giorni proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La guerra Usa ai narcos venezuelani, il WP: “Hegseth ha ordinato: uccideteli tutti”. Lui: “Fake news”. E Trump apre a un incontro con Maduro
“Le nostre attuali operazioni nei Caraibi sono legali sia secondo il diritto statunitense che quello internazionale, e tutte le azioni sono conformi al diritto dei conflitti armati e approvate dai migliori avvocati militari e civili, lungo tutta la catena di comando”. Nel giorno in cui il New York Times scrive che presidente Usa Donald Trump ha avuto una conversazione telefonica, la scorsa settimana, con il leader venezuelano Nicolas Maduro per discutere un possibile incontro – di ufficiale al momento non c’è nulla – il segretario alla Difesa, Peter Hegseth, replica alle indiscrezioni pubblicate dal Washington Post, secondo cui il 2 settembre, data del primo attacco ordinato dalla Casa Bianca contro i narcotrafficanti venezuelani, lo stesso Hegseth avebbe ordinato: “Uccideteli tutti”. Questa indicazione avrebbe determinato un doppio attacco da parte dei Navy Seal agli ordini dell’ammiraglio Mitch Bradley, capo dello Special Operations Command; il primo aveva distrutto una imbarcazione, il secondo doveva eliminare due persone rimaste aggrappate ai rottami del barchino, per evitare che potessero chiedere aiuto ad altri trafficanti e recuperare il carico. La campagna voluta dal presidente Trump per debellare il Cartel de los soles ha scatenato polemiche anche all’interno del Congresso. Per la Casa Bianca, il cartello della droga è direttamente organizzato dagli alti ufficiali del presidente Maduro e da lui stesso, tanto da aver messo una taglia sul leader chavista e su alcuni dei suoi generali. Il regime di Caracas ha risposto chiedendo aiuto agli alleati: Russia e Iran in testa, per potenziare le proprie difese. I raid nei Caraibi, secondo i media americani, avrebbero portato a circa 20 attacchi diretti e alla morte di 80 persone. Su quanto ha denunciato il Washington Post il senatore repubblicano Roger Wicker si è alleato con i democratici per chiedere “un controllo rigoroso per accertare i fatti” in merito alla ricostruzione secondo cui la Marina Usa, il 2 settembre scorso, avrebbe intenzionalmente ucciso i due sopravvissuti. Altri due repubblicani – il senatore Wicker, presidente del Comitato per le forze armate del Senato e Jack Reed, membro dello stesso Comitato – hanno promesso una indagine scrupolosa. Hegseth ha replicato sul social X: “Come sempre, le fake news stanno fornendo un resoconto fabbricato, infiammatorio e denigratorio per screditare i nostri incredibili guerrieri che combattono per proteggere la patria”; ha definito gli attacchi della Marina Usa “cinetici” mirati a “fermare droghe letali, distruggere i narco-boat e uccidere i narco-terroristi che stanno avvelenando il popolo americano. Ogni trafficante che uccidiamo è affiliato a un’Organizzazione Terroristica Designata”. La Casa Bianca sostiene che gli attacchi siano legali in quanto i cartelli dei narcos sono classificati come “organizzazioni terroristiche straniere”. Chi contesta questa linea invece ritiene che il compito di fermare i trafficanti sia da assegnare alle forze dell’ordine federali, per arrestare i responsabili e sequestrare i carichi di stupefacenti, e non all’Esercito o alla Marina che mettono a segno raid letali. Nei giorni scorsi, sei tra senatori e deputati democratici hanno pubblicato un video in cui invitano forze armate e funzionari di intelligence a disubbidire a ordini provenienti dall’amministrazione Trump che potrebbero portare ad azioni illegali. Il presidente li ha bollati come “sediziosi, meritevoli della pena capitale”. L'articolo La guerra Usa ai narcos venezuelani, il WP: “Hegseth ha ordinato: uccideteli tutti”. Lui: “Fake news”. E Trump apre a un incontro con Maduro proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Trump vuole parlare con Maduro”. Ma gli Usa dichiarano il “Cartel de los soles” organizzazione terroristica
L’amministrazione Trump persiste nelle azioni dimostrative nei confronti del Venezuela, che nelle ultime settimane è stato anche accerchiato da manovre militari Usa. Washington ha infatti deciso di inserire il Cartel de los soles – il presunto cartello guidato da Nicolás Maduro e dai vertici militari di Caracas – in cima all’elenco Usa delle ‘Organizzazioni terroristiche straniere’, stilato dal Dipartimento di Stato sulla base dell’Immigration and nationality act. Nonostante questo, secondo quanto pubblicato da Axios, il presidente della Casa Bianca è intenzionato a parlare col leader di Caracas, anche se di fatto lo ha bollato come ‘capo di un’organizzazione terroristica’. Un segno che fa pensare non sia imminente un attacco americano via terra o un raid missilistico contro il Paese latinoamericano. “Nessuno ha intenzione di entrare e sparargli o rapirlo, almeno per ora. Non direi mai, ma al momento non è nei nostri piani – ha detto ad Axios un funzionario a conoscenza delle discussioni -. Nel frattempo, faremo saltare in aria le imbarcazioni che trasportano droga. Fermeremo il traffico di droga”. Le operazioni Usa, quindi, proseguono: almeno 83 persone sono state uccise in 21 diversi raid contro imbarcazioni che presumibilmente trasportavano droga durante l’operazione militare statunitense nei Caraibi nota come “Operazione Southern Spear”. Il provvedimento sul Cartel de los Soles – Sul sito state.gov si legge che la designazione ha le finalità di “restringere il sostegno alle attività terroristiche” e “far pressione” sui gruppi coinvolti. L’annuncio, ufficializzato lunedì, era previsto nell’ambito delle operazioni anti-narcotraffico avviate tre mesi fa dagli Stati Uniti, che finora hanno provocato oltre ottanta vittime nel Sud dei Caraibi, con l’affondamento di 21 imbarcazioni che, secondo il segretario di Guerra, Pete Hegseth, “trasportavano droga”. L’etichetta di “organizzazione terroristica” al Cartel de los Soles isola ulteriormente il governo di Maduro, autorizzando sanzioni a stati e privati che collaborino con quest’ultimo. La misura legittima anche “attacchi mirati”, nel territorio venezuelano, dove si temono anche operazioni sotto copertura targate Cia. Di qui le reazioni di Mosca – che offre sostegno politico e consulenza militare a Caracas – e dei Paesi dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe, mentre Brasile e Spagna chiamano al dialogo in continuità con quanto già fatto da Francia, Germania e Regno Unito. Il governo venezuelano ha inoltre invitato gli Stati Uniti a “rettificare l’erronea policy di aggressioni e minacce” fondata su “menzogne” volte a giustificare “interventi illegittimi e illegali” nel Paese sudamericano. Possibile scontro militare – L’annuncio degli Stati Uniti coincide con una serie di manovre come il blocco navale e aereo del Paese dopo il recente annuncio della Federal aviation administration, che ha provocato la sospensione delle attività di oltre sette compagnie aeree nel Paese. Si registrano anche costanti incursioni nei cieli venezuelani e il fermo della nave petrolifera russa Seahorse nei Caraibi da parte delle forze statunitensi. Fonti della Casa Bianca parlano a NewsNation di strette sui permessi e ferie del personale SouthCom. Nel frattempo Mosca risponde con l’invio del generale russo e consulente di guerra Oleg Makarevic a Caracas. È lì per fornire addestramento militare all’esercito venezuelano. Sul versante opposto voci dissidenti come quella del contrammiraglio Carlos Molina Tamayo esortano i soldati locali a non “immolarsi per Maduro” e prevedono una “guerra mosaico”, con anche “blackout totale del campo elettromagnetico” e manovre “psicologiche” che, secondo il Financial Times, suscitano già paranoia a Palazzo di Miraflores. Cresce il partito del dialogo – Nello stesso tempo le basi argomentative con cui gli Stati Uniti connettono narcotraffico e politica venezuelana risentono di diverse lacune e destano perplessità a livello internazionale. Già in passato diverse fonti – tra cui Insight crime e Cnn – hanno sostenuto che il Cartello sia “un termine ad hoc, usato per attaccare alti funzionari” di Caracas. Nella migliore delle ipotesi il Dipartimento di Stato cerca di semplificare, sotto un unico cappello, l’accozzaglia di gruppi criminali che, pur sostenendo affari con funzionari venezuelani, non sono connessi tra loro. Di qui la preoccupazione di diversi leader, come il leader brasiliano Luiz Inàcio Lula Da Silva, che si offre mediatore e chiede a Trump di “non aprire l’ennesimo fronte” e il premier spagnolo Pedro Sánchez, che ribadisce la centralità del dialogo per Madrid. Lo stesso presidente Usa aveva anticipato, nei giorni precedenti, la disponibilità a parlare con Maduro, senza svelare le intenzioni né il contenuto della futura conversazione. In parallelo la ministra degli Esteri colombiana, Rosa Villavicencio, ha fatto trapelare alla Bloomberg la disponibilità di Maduro verso una transizione serena e ordinata. Ipotesi voluta anche dal presidente colombiano Gustavo Petro, tra gli interlocutori più vicini al presidente venezuelano. Il rischio di uno stallo prolungato – Tuttavia l’attuale stato di tensioni, anche nell’eventuale caso di attacchi, potrebbe generare una situazione di stallo prolungato a livello politico, economico e sociale. Il caso specifico della designazione, con la quale si ritiene Maduro “capo di un cartello”, irrigidisce ulteriormente le posizioni dei vertici di Caracas. Si andrebbe verso il rafforzamento del potere militare e lo schiacciamento di ciò che resta delle opposizioni interne, come l’Iran dopo la guerra dei dodici giorni. Fonti Usa temono anche una situazione di “caos irreversibile” in caso di caduta di Maduro che, secondo alcuni diplomatici Usa getterebbe nell’instabilità un Paese già colpito da emigrazione di massa – oltre 8 milioni di esuli – e, secondo l’Fmi, un’iperinflazione al 548%. Non si parla invece delle concessioni Usa alla petrolifera Chevron, che mantiene saldi i rapporti con Caracas, nonostante tutto. L'articolo “Trump vuole parlare con Maduro”. Ma gli Usa dichiarano il “Cartel de los soles” organizzazione terroristica proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Trinidad e Tobago rassicura il Venezuela: “Non riceverete attacchi Usa dal nostro territorio”
Nuovo capitolo nella guerra fredda tra Venezuela e Stati Uniti. Intervistata dall’Afp il primo ministro di Trinidad e Tobago, Kamla Persad-Bissessar, ha rassicurato il governo di Maduro ed il popolo venezuelano: alleata di Trump, ha dichiarato che “gli Stati Uniti non hanno mai chiesto di utilizzare il nostro territorio per lanciare attacchi contro il popolo venezuelano. Il territorio di Trinidad e Tobago non verrà utilizzato per lanciare attacchi contro il popolo venezuelano”. Nel piccolo arcipelago caraibico Trump aveva dispiegato, poco meno di un mese fa, una nave lanciamissili insieme ad un contingente militare che continua a condurre delle operazioni. La vicenda ha chiaramente creato dei malumori a Caracas con Maduro che ha definito irresponsabili e minacciose le manovre militari dei marines. Ufficialmente, il governo statunitense sta giustificando l’escalation militare contro il Paese sudamericano con il pretesto della lotta al narcotraffico. Molti analisti militari, però, considerano spropositato lo schieramento di forze (disposto anche a Porto Rico) a ridosso del paese governato da Maduro. Che, qualche settimana fa, secondo il Washington Post ha chiesto aiuto a Russia, Cina e Iran. Dopo il dispiegamento della nave da guerra Gerald F. Ford, la più grande del mondo, il Venezuela ha allertato 200mila soldati La strategia è, in caso di guerra, una resistenza a lungo termine e una guerriglia atta a dissuadere il nemico. L'articolo Trinidad e Tobago rassicura il Venezuela: “Non riceverete attacchi Usa dal nostro territorio” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Qui a Caracas il Venezuela mi pare sereno: così sfida l’imperialismo Usa
Qui a Caracas il clima è di grande tranquillità e serenità. Il popolo sciama per le strade per godere i frutti della ripresa economica in atto ormai da qualche tempo, risultato a sua volta della stabilità politica raggiunta con la conferma di Nicolas Maduro a presidente, avvenuta a larga maggioranza nelle elezioni presidenziali del luglio 2024 e ribadita dal successo del Gran Polo Patriotico alle successive elezioni politiche del maggio 2025 e amministrative del luglio 2025. Le radici storiche dell’unità venezolana risalgono com’è noto alle guerre per l’indipendenza nazionale condotte fra gli altri da Bolivar, Zamora, dal leader afrovenezolano Negro Primero, dall’eroina dell’indipendenza, Luisa Cáceres de Arismendi, e dal leader indigeno Guaicaipuro. Il Venezuela di oggi è una società multietnica e multiculturale che vede la partecipazione su di un piano di parità di tutti i settori. La grande epopea socialista cominciata con la vittoria di Chavez alle elezioni presidenziali del 1998 e continuata ininterrottamente durante gli ultimi 27 anni è stata appunto contrassegnata dall’affiorare delle istanze e rivendicazioni dei settori storicamente emarginati. Ciò è avvenuto nonostante i complotti dell’imperialismo statunitense che non si è mai rassegnato a perdere le enorme risorse del Paese, che vorrebbe destinare, come sempre in passato, ai profitti delle multinazionali come Exxon Mobil e alle accumulazioni della finanza anziché alla realizzazione dei diritti dei popoli. Esaurite tutte le possibili opzioni alternative, dai colpi di Stato alle rivolte di piazza, dallo strangolamento economico, che pure continua a costare caro al Venezuela, al terrorismo puro e semplice, gli strateghi dell’Impero hanno imboccato la strada senza ritorno dell’aggressione diretta, schierando una flotta da guerra nel mar dei Caraibi. La scusa, assolutamente ridicola e incredibile, per i motivi già esposti qui, è la repressione del narcotraffico. Obiettivo reale le risorse del Venezuela e Nicolas Maduro, simbolo vivente dell’unità del Paese nel segno della lotta contro il neocolonialismo e l’imperialismo. Un’ampia cornice ideologica nella quale si riconosce anche l’opposizione democratica e costituzionale di cui fa parte anche, ad esempio, la giovane deputata del partito Acción Democratica che è venuta a dare il benvenuto all’aeroporto insieme ai suoi colleghi del partito di Maduro, il Partito Socialista Unito del Venezuela (Psuv), alla nostra delegazione del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (Cred). Se una parte minoritaria del popolo venezolano aveva in passato espresso appoggio alle posizioni di Corina Machado, oggi costei è più che mai isolata e disprezzata, mentre continua a rivolgere rabbiosi inviti a Trump affinché intervenga militarmente contro il Venezuela. Un Premio Nobel che auspica un bagno di sangue è certamente un atroce paradosso. Scopo principale della nostra missione (con me ci sono dall’Italia l’avvocata Francesca Trasatti e la dottoressa Margherita Cantelli, esponenti entrambe anche di Potere al Popolo) è la partecipazione alla Conferenza internazionale dei giuristi che comincia stamattina per ribadire le ragioni del diritto internazionale alla pace e all’autodeterminazione di fronte alla brutale prepotenza dell’imperialismo guerrafondaio e assassino. C’è in effetti un filo rosso che unisce, nel segno del diritto internazionale, Venezuela, Palestina e altri conflitti odierni. Il declino dell’Occidente e in particolare degli Stati Uniti che trascinano con sé nel gorgo i loro decerebrati vassalli europei, genera guerre e genocidi, perché l’unica carta rimasta in mano a quelli che furono a lungo i padroni del mondo è quella militare. Per questo i decadenti regimi occidentali, compresa l’Italietta di Giorgia Meloni, alimentano, armandoli fino ai denti, il genocida Netanyahu e il guerrafondaio Zelensky, principali pericoli oggi per la pace mondiale, mentre, ripetendo la favoletta del “dittatore” Maduro, legittimano anche l’aggressione contro il Venezuela. Alla forza bruta degli apparati militari occorre opporre quella del diritto internazionale, perché si tratta dell’unica chance di sopravvivenza dell’umanità nell’attuale transito verso il multipolarismo. Occorre sperare che quelli che si producono oggi nel mar dei Caraibi siano gli ultimi rantoli di una belva morente e che i popoli, compreso quello degli Stati Uniti, che a New York si è recentemente espresso per il candidato socialista Mamdani, sappiano affermare le loro ragioni, smantellando gli apparati criminali dediti a guerre e genocidi per salvaguardare gli interessi economici e strategici di un pugno di nemici dell’umanità contro l’umanità stessa, oggi in forte pericolo. L'articolo Qui a Caracas il Venezuela mi pare sereno: così sfida l’imperialismo Usa proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Venezuela, liberato il francese Camilo Castro dopo la condanna di Parigi all’escalation Usa
Dopo quattro mesi di prigionia, senza accuse, nel maxi-carcere venezuelano de El Rodeo I, Camilo Castro, 41enne, di nazionalità francese, è stato liberato dalle autorità venezuelane. La scarcerazione è avvenuta pochi giorni dopo la ferma condanna di Parigi all’escalation militare statunitense nei Caraibi, attraverso il ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot, per il quale “le operazioni militari” Usa al largo del Venezuela “violano il diritto internazionale”. Allora il ministro Barrot aveva ricordato che “la Francia è presente nella regione attraverso i territori di oltremare, dove risiedono oltre un milione di connazionali”. Per l’Italia il simbolo non può essere ignorato: il rilascio di Castro, scarcerato dallo stesso penitenziario in cui si trova Alberto Trentini – che ieri ha compiuto un anno di reclusione – chiama in causa il governo stesso, che proprio sabato è stato invitato dalla mamma Armanda Colusso e dalla legale Alessandra Ballerini a intensificare gli sforzi diplomatici per il ritorno del cooperante e “rassicurare il governo venezuelano sul rispetto del diritto internazionale”, seguendo l’esempio di Parigi. “CASTRO LIBERO”: L’ANNUNCIO DI MACRON Il rilascio di Castro, detenuto il 26 luglio al confine tra la Colombia e il Venezuela, mentre provava a rinnovare il suo visto, è stato annunciato sulla piattaforma X dallo stesso presidente francese Emanuel Macron. “Castro è stato liberato. Condivido il sollievo dei suoi cari e ringrazio tutti coloro che hanno lavorato per il suo rilascio”, si legge nel post pubblicato sull’account del presidente. “La Francia va avanti, a volte senza far rumore, a sempre con determinazione e sangue freddo”, aggiunge l’inquilino dell’Eliseo rivendicando il risultato diplomatico ottenuto da Quai d’Orsay. “Era molto contento di essere uscito, un po’ emozionato e, nello stesso tempo, un po’ inquieto prima di abbandonare il territorio venezuelano”, ha commentato il suocero di Castro, Yves Gilbert, in riferimento alla liberazione del 41enne francese. Anche la mamma, Hélène Boursier, si è detta emozionata per la scarcerazione ritenendola “una delle sorprese più grandi” della propria vita. Boursier, che è anche attivista per i diritti umani, un pensiero agli oltre ottanta stranieri detenuti nel Paese sudamericano. “Non li dimenticheremo”, ha esclamato, aggiungendo di voler lottare “affinché non succeda mai più”. Poche settimane prima della liberazione i familiari di Castro avevano espresso solidarietà per Trentini, manifestando la propria vicinanza all’operatore umanitario, sottoposto alla stessa sorte di Castro. LA MOSSA GEOPOLITICA DI MADURO Il rilascio di Castro, in piena escalation militare nei Caraibi, con il lancio dell’operazione Southern Spear, l’arrivo del gruppo di battaglia della portaerei Gerald R. Ford e lo schieramento di 200mila soldati venezuelani in risposta all’assedio, smentisce categoricamente ogni nesso causale fra i venti di guerra, che soffiano su Caracas, e lo stallo nelle trattative per il rilascio di Trentini e degli altri connazionali italiani dietro le sbarre, come il giornalista e attivista Biagio Pilieri. Parigi – senza neppure riconoscere il governo di Maduro – insegna che proprio l’escalation in corso rappresenta un’opportunità affinché i Paesi europei, tra cui l’Italia, strappino – una volta per tutte – i loro prigionieri, vivi, dalle mani delle autorità venezuelane, senza contraddire i propri principi. E poco importa se il presidente Usa Donald Trump sostiene di aver già “preso una decisione” sul Venezuela, senza svelarne i dettagli. Basta esortare al rispetto del diritto internazionale, come ha fatto Barrot e la stessa Unione Europea nella dichiarazione di Santa Marta. “L’Italia ripudia la guerra”, ha ricordato sabato Ballerini, citando l’articolo 11 della Costituzione. Parole che potrebbero avere un impatto diverso se pronunciate da Palazzo Chigi, valorizzando il canale diplomatico che si è aperto di recente, con l’impegno dell’inviato speciale Luigi Maria Vignali e dell’ambasciatore a Caracas Giovanni Umberto De Vito. Si tratta di fare ciò che è “doveroso e necessario” per la liberazione del cooperante, come richiesto dalla madre del cooperante italiano. L'articolo Venezuela, liberato il francese Camilo Castro dopo la condanna di Parigi all’escalation Usa proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Venezuela, Trump: “In un certo senso ho deciso cosa fare ma non posso dirlo”. Machado, leader dell’opposizione, ai militari: “Disobbedite a Maduro”
“In un certo senso ho deciso” i prossimi passi nei confronti del Venezuela, ma “non posso dirvi quali sono”. Donald Trump non svela le carte nella partita che ha scelto di giocare contro il paese sudamericano, di fronte alla cui coste ha schierato una flotta di navi militari. Un eventuale attacco contradirebbe la promessa elettorale di non iniziare nuovi conflitti e anche quella al Congresso, al quale nelle ultime settimane il capo della Casa Bianca ha assicurato che non c’erano preparativi in atto per un’azione. L’uomo è difficilmente prevedibile, ma una cosa è certa: l’iniziativa di Washington, inizialmente annunciata per contrastare il traffico di droga, appare sempre più diretta contro il regime chavista e la persona di Nicolas Maduro. L’obiettivo del tycoon non è ancora chiaro: pur parlando pubblicamente di lotta contro la droga, il leader Usa con i suoi consiglieri si è consultato sul destino del presidente e del petrolio venezuelano, senza però definire l’obiettivo. Nelle scorse ore Trump ha annullato i colloqui sulla proposta di Maduro di concedere agli Stati Uniti i diritti su quasi tutte le riserve petrolifere del paese senza ricorrere a un’azione militare ma secondo la Casa Bianca, riferisce il New York Times, le trattative non sono completamente morte. La mancanza di chiarezza ha spinto molti a ipotizzare che Trump voglia un cambio di regime, nonostante il segretario di Stato Marco Rubio abbia assicurato che rimuovere il leader venezuelano non è l’obiettivo. Secondo Politico, una delle idee che l’amministrazione Trump sta valutando qualora riuscisse a rovesciare il regime è offrire a Maduro e ai suoi stretti collaboratori un passaggio sicuro per l’esilio in un altro paese. Un’altra ipotesi è invece quella di arrestarlo e processarlo negli Stati Uniti. Alcuni funzionari vedono con favore un ruolo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale per la ricostruzione dell’economia venezuelana, oltre al coinvolgimento di società di sicurezza privata non americane per offrire un’iniziale protezione alla nuova leadership. Maduro intanto tiene aperto il dialogo con l’estero, anche con azioni concrete. Emmanuel Macron ha annunciato su X che Camilo Castro, cittadino francese detenuto in Venezuela da fine giugno, è stato rilasciato. Castro, insegnante di yoga di 41 anni, è scomparso il 26 giugno al valico di frontiera di Paraguachón, tra Venezuela e Colombia, dove viveva. A metà settembre, sua madre ha detto di non avere più avuto sue notizie da allora, fatta eccezione per un messaggio audio ricevuto a fine luglio in cui Camilo Castro aveva “chiesto aiuto”. Secondo le ricerche condotte dalla sua famiglia e da Amnesty International, era trattenuto dalle autorità venezuelane. Ancora nessuna notizia, invece, Alberto Trentini, il 46enne cooperante veneziano fermato in Venezuela e arrestato senza accuse né spiegazioni esattamente un anno fa. In un rapporto pubblicato a metà luglio, Amnesty ha denunciato la politica di “sparizioni forzate” attuata dopo la rielezione di Maduro ai danni di oppositori e cittadini stranieri. “Le autorità venezuelane sembrano usare questa pratica per alimentare le loro narrazione su ‘cospirazioni straniere’ e per usare i prigionieri come merce di scambio nei negoziati con altri Paesi”, ritiene l’Ong per i diritti umani. L’opposizione, intanto, prosegue la sua battaglia. La leader, Maria Corina Machado, ha rivolto un appello agli uomini che “obbediscono agli ordini infami” di Maduro a deporre le armi e a disobbedire al governo. “Il momento decisivo è imminente”, ha detto la premio Nobel della Pace in un messaggio pubblicato sui social. “Deponete le armi, non attaccate il vostro popolo, prendete oggi la decisione di schierarvi dalla parte della libertà del Venezuela quando arriverà il momento”, ha aggiunto Machado, sottolineando che “ciò che accadrà sta già accadendo”. L'articolo Venezuela, Trump: “In un certo senso ho deciso cosa fare ma non posso dirlo”. Machado, leader dell’opposizione, ai militari: “Disobbedite a Maduro” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Un anno rubato a mio figlio Alberto Trentini. Non è stato fatto il necessario per liberarlo, la pazienza è finita”
“Un anno rubato”. Parole dure, pubblicate qualche ora fa sul profilo Facebook “Alberto Trentini Libero”, raccontano la Via Crucis del cooperante veneto, da 365 giorni ostaggio in Venezuela e recluso nel maxi-carcere de El Rodeo I, e dei suoi genitori, Armanda Colusso ed Ezio Trentini, che ogni giorno, insieme all’avvocata Alessandra Ballerini, aspettano il suo ritorno. Quella dei 365 giorni, si sa, è una linea rossa che non andava superata; una frontiera esistenziale tra l’impegno, finora mancato, e l’indifferenza, che ha avuto la meglio a Palazzo Chigi e dintorni. “Sono certa che per Alberto non si è fatto quel che era necessario e doveroso fare per la sua liberazione”, ha denunciato Armanda, intervenuta oggi in conferenza stampa a Palazzo Marino (Milano), insieme – fra gli altri – a Ballerini che, dall’inizio, ne chiedono la liberazione. “Sono stata troppo paziente ed educata. Ora la mia pazienza si è esaurita”, ha poi ammesso, rinnovando il suo appello ai giornalisti: “Io andrò a casa con la convinzione che parlerete e scriverete di Alberto e chiederete assieme a me a gran voce la sua liberazione”. Non c’è dubbio che per la liberazione di suo figlio “doveva esserci, e invece non c’è stato, un gruppo coeso e motivato di persone che doveva mirare allo stesso risultato”. Lo sanno bene Roma e Caracas, dove temporeggiano mentre i familiari di Trentini vivono “notti insonni e giornate senza senso, con il pensiero fisso su Alberto, ad immaginare come sta, cosa pensa, cosa spera, di cosa ha paura”, come denuncia Armanda. Gli unici benefici: tre chiamate brevi e una visita consolare, concesse anche ad altri detenuti. Del resto gli è “stato tolto un anno di vita” nel quale “non ha potuto godere dell’affetto della sua famiglia“, prosegue Armanda. Al Rodeo I si vive in “condizioni igieniche difficili”, come già raccontato da un ex-prigioniero svizzero, che ha conosciuto Alberto e per il quale il governo svizzero non ha risparmiato alcuno sforzo. È andata così anche per gli americani, ora tutti liberi, i colombiani e altre persone che “hanno raccontato le medesime condizioni terribili di detenzione“. Dal canto suo il governo italiano – che all’inizio aveva imposto “il silenzio” ai familiari per “non danneggiare la posizione” di Trentini – ha mantenuto, fino a poco tempo fa, una sorta di linea di fermezza nei confronti delle autorità venezuelane, mai telefonate nei primi nove mesi. “Mi sorge spontanea una domanda: fosse stato un loro figlio l’avrebbero lasciato in prigione un anno intero?”, ha detto Armanda. L’immobilismo italiano è stato in parte compensato dalla mobilitazione della famiglia Trentini con l’avvocata Ballerini – e l’aiuto dell’associazione Articolo 21, la parrocchia, gli amici – entrati a contatto con “politici, diplomatici, artisti e negoziatori perché Alberto potesse tornare a casa”. Faceva ben sperare la distensione dell’ultimo mese, con la stretta di mano tra il capo di Stato Sergio Mattarella e la ministra dell’Istruzione venezuelana durante la canonizzazione dei santi José Gregorio Hernández e María Carmen Rendiles, ma Alberto non è ancora tornato. E poco c’entrano i venti di guerra che in queste ore soffiano al largo del Venezuela, vista la recente liberazione di decine di detenuti colombiani (che hanno riferito di aver visto Alberto). Su questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani era intervenuto il 14 novembre, ribadendo lo sforzo italiano per “sollecitare la liberazione” dei connazionali detenuti in Venezuela, facendo però riferimento a “una tensione crescente” che coinvolge il Venezuela, “anche a livello internazionale. Ma in realtà l’ostacolo più grosso non è a stelle e strisce, bensì italiano, ed è rappresentato da negoziatori entrati in scena per colmare il vuoto lasciato dal governo Meloni e facendo perdere tempo e risorse, senza portare a casa Alberto. “Si sono palesati dei negoziatori e la sensazione è che questi mediatori millantassero un potere che non avevano. Quando sembrava che Alberto potesse arrivare a casa, lui di fatto non è tornato”, ha detto Ballerini rispondendo a Ilfattoquotidiano.it. “Io ho chiesto fin dai primi mesi il visto per andare a Caracas, come avvenuto per Giulio Regeni in Egitto. Spero che il visto venga finalmente concesso. Il mio scopo sarebbe quello di andare a trovare Alberto in carcere”. E ha aggiunto: “Per mia sicurezza personale, approfittando della presenza dell’inviato speciale per gli italiani in Venezuela, Luigi Maria Vignali, affinché – previa autorizzazione – possa tornare nel Paese”. Quanto alle invocazioni di pace di Maduro, la legale ha ricordato che “l’Italia ripudia la guerra” e ha sottolineato il “valore del canale recentemente aperto” con Caracas, dopo quattro anni di silenzi. L’Italia? “Pur lontana politicamente dal Venezuela potrebbe rassicurare Caracas sul rispetto del Diritto internazionale, anche dopo l’eventuale rilascio di Alberto“. A Palazzo Marino c’erano anche Beppe Giulietti (Articolo 21), Paola Deffendi e Giulio Regeni, genitori del ricercatore ucciso nel 2016 al Cairo, ed Elisa Signori e Rino Rocchelli, il cui figlio, il fotografo Andy, è morto per mano delle forze ucraine mentre svolgeva il proprio lavoro nel Donbass. La loro sete di giustizia si unisce ora al clamore per la liberazione di Alberto, affinché, almeno una volta, l’epilogo sia diverso. E la vita prevalga, al di sopra di ogni calcolo e meschinità. L'articolo “Un anno rubato a mio figlio Alberto Trentini. Non è stato fatto il necessario per liberarlo, la pazienza è finita” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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