Dietro l’assedio statunitense sul Venezuela non c’è solo il petrolio – di cui il
Paese vanta le più grandi riserve a livello mondiale -, ma anche minerali
critici, tra cui coltan ed elementi di terre rare, spesso legati alla
transizione ecologica. Tali risorse naturali sono state tirate in ballo nelle
recenti trattative tra Caracas e Washington laddove Nicolás Maduro avrebbe
“offerto di tutto” – parole di Trump – pur di restare al potere mentre a inizio
novembre, all’American Business Forum, María Corina Machado ha parlato del suo
Paese come hub energetico delle Americhe e prossima “frontiera
dell’innovazione”.
Ma la realtà va già oltre la fantasia e c’è già un flusso costante di terre rare
che partono dal Venezuela, passano dalla Colombia, attraverso la guerriglia
dell’Eln, Ejército de liberación nacional, e raggiungono la Cina, il grande
monopolista di minerali critici, che li trasforma ed esporta in Europa. Dal
gigante asiatico proviene il 98% delle terre rare che raggiungono l’Unione
europa e che poi ci troviamo negli scaffali, sotto forma di smartphone e
auricolari, nelle vetture elettriche e in altri beni di consumo.
Il Paese sudamericano concentra un’importante riserva di minerali critici,
prevalentemente nell’Arco Minero, un’area da quasi 112mila chilometri quadri –
che equivale al 12,2% del territorio venezuelano – situata nello Stato Amazonas
(e quindi nell’Amazzonia venezuelana) dal valore stimato di 2mila miliardi di
dollari. Diverse inchieste realizzate da Armando.info, Amazon Underworld e
Insight Crime svelano che le risorse dell’Arco Minero non sono sotto il dominio
del governo centrale, bensì di gruppi privati e di guerriglie come l’Eln,
presente nella metà delle regioni del Paese, con la connivenza di settori
deviati della Gnb, la Guardia nazionale bolivariana, già nel mirino delle
Nazioni Unite per trame di corruzione e violazione sistematica dei diritti
umani. “Ci si doveva limitare a procedure artigianali, rispettose dell’ambiente.
Qui invece impiegano macchine pesanti, distruggendo anche le riserve naturali,
3.200 ettari soltanto nella riserva naturale Yacapana“, denuncia l’ong Sos
Orinoco. Ma non c’è solo l’impatto ambientale: l’attività estrattiva fa leva
sulla povertà della popolazione locale, colpita dalla crisi economica che lacera
tutto il Paese. “Qui guadagno in un giorno solo ciò che prenderei altrove
nell’arco di un mese”, dice Juan González a Ilfattoquotidiano.it parlando di
guadagni di circa “dieci dollari per ogni chilo di coltan”.
Il territorio, fuori dalla miniera, è presidiato dalla Guardia nazionale, che
lucra dall’attività estrattiva, mentre all’interno delle miniere comanda l’Eln.
“Qui ogni trasgressione si paga con la vita”, sostiene una fonte consultata da
Armando.info mentre racconta di aver assistito a un’esecuzione da parte della
guerriglia: “Lo hanno messo in ginocchio e gli hanno piantato due pallottole in
testa. A sparare era una donna”. Anche Human Rights Watch ha denunciato la
condizione inumana dei minatori parlando di “trattamenti brutali“,
“smembramenti” e “uccisioni” di minatori dinanzi ad altri lavoratori per
garantire l’ordine interno. Gli stessi popoli originari hanno spesso alzato la
voce contro l’attività mineraria illegale che, secondo l’ong Provea ha recato
“problemi di salute” non indifferenti, tra cui “intossicazioni e malattie
croniche che colpiscono soprattutto bambini e anziani”. Compromesse anche le
attività agricole che garantiscono la sussistenza alle comunità aborigene, come
gli Yanomami, spesso ignorate dal potere centrale.
I minerali estratti vengono distribuiti in sacchi di 40 chilogrammi circa,
navigano – di notte, su canoe artigianali o go fast – attraverso il fiume
Orinoco. Prima tappa: Colombia. I controlli vengono superati con documentazione
e titoli falsi e, anche se l’esercito colombiano ha provveduto a sequestri
record di circa 60 tonnellate, la merce viene poi restituita. Documenti falsi,
di produzione colombiana, servono ad aggirare le lacune giuridiche e la fragile
normativa in vigore. Riuscita la pratica di ripulitura, i minerali vanno in
Cina, che conta sulla presenza di importanti stabilimenti e raffinerie. Pechino
sorveglia i flussi dalla loro partenza, attraverso imprese presenti nell’Arco
Minero. “Non c’è solo la rotta colombiana, ma i minerali escono anche attraverso
il Brasile e la Guyana, tramite vie illegali, in assenza di controlli statali”,
afferma a Ilfattoquotidiano.it il giornalista Carlos Uzcátegui, già residente
nello Stato Bolívar. “Vengono usate anche piste clandestine e stabilimenti
militari dismessi mentre molte terre sono diventate inabitabili, come Santa
Elena de Uairén e il Kilómetro 88“. Caracas tace sul fenomeno, Bogotà si arrende
a una più grande “trama internazionale” – targata Pechino, lontana da Trump – e
i gruppi armati si espandono e pongono lo sguardo anche su altre località come
la Sierra de Perijá, nello stato Zulia, anch’essa sotto l’Eln, dove si ipotizza
la presenza di elementi di terre rare e altri minerali. È una questione di
domanda e offerta.
L'articolo Il business delle terre rare venezuelane che dalla Cina finiscono in
Ue: tra miniere illegali, omicidi e distruzione delle riserve naturali proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Venezuela
Ha atteso la sua telefonata di auguri, nel giorno del suo compleanno. Ma quella
chiamata non è mai arrivata. Armanda Colusso parla a Repubblica del messaggio
mai arrivato da parte del figlio Alberto Trentini, il cooperante italiano di
Venezia detenuto da 395 giorni nel carcere El Rodeo I di Caracas senza che
nessuna accusa sia mai stata formalizzata. “Povero Alberto, si sarà illuso di
poterci chiamare. Lui non dimentica mai la data del mio compleanno. Io ho atteso
inutilmente quella telefonata perché avevo bisogno di sentire il timbro della
sua voce e di capire come vive questa situazione così dolorosa e ingiusta”.
Solo pochi giorni fa Armanda era intervenuta a Tutta la città ne parla per
sollecitare ancora una volta il governo a riportare a casa il figlio, dopo che a
metà novembre aveva di nuovo sottolineato – affiancata dall’avvocata Alessandra
Ballerini – l’immobilismo del governo italiano, in un’attesa diventata
insopportabile. “Non sono in grado di dare una risposta esatta, anche perché
probabilmente non conosciamo tutte le azioni intraprese – dice a Repubblica -.
Secondo me bisogna cambiare strategia: occorrerebbe designare una persona che
sappia rapportarsi con Maduro e con i suoi collaboratori, perché se dopo 395
giorni di prigionia non ci sono risultati, qualcosa non sta funzionando.
Sappiamo bene che i carcerieri di Alberto sono in Venezuela e non in Italia, ma
occorre convincerli a restituirci nostro figlio”.
“Questi 13 mesi di prigionia per Alberto sono stati una crudeltà quotidiana, per
lui e anche per noi – aggiunge -. Non oso immaginare i pensieri e le riflessioni
di mio figlio quando inizia un nuovo giorno: ‘In che Paese sono nato, se
permettono che io resti in cella senza colpa alcuna?’ si chiederà. Mi fa male
soltanto pensare che dolore e quanta delusione hanno segnato tutti questi mesi
di prigionia e di isolamento. Sofferenze così forti minano il fisico e l’animo
per sempre. Noi genitori ci sentiamo svuotati. Viviamo un’agonia che non si può
descrivere. Al mattino esco in terrazza ad accarezzare lo striscione di Alberto,
per salutarlo, perché all’aperto non ci sono barriere che possano trattenere i
miei pensieri, che vogliono infondergli coraggio. Ogni giorno esco a prendere
pane e giornale: cammino guardando per terra, perché non voglio incontrare lo
sguardo felice della gente che mi passa vicino. Le nostre attese sono nel
pomeriggio e nella sera, a causa del fuso orario, perché speriamo sempre in una
telefonata di Alberto che poi non arriva”. “La prigionia di Alberto – continua
Armanda – deve indignare gli italiani, le nostre istituzioni e i comuni
cittadini, perché è costretto in carcere per così tanto tempo senza avere alcuna
colpa – continua – Spero che sempre più voci si uniscano alle nostre proteste.
Io, se necessario, griderò finché avrò fiato. Nessuna energia può essere
risparmiata per riavere Alberto a casa”.
(immagine di repertorio)
L'articolo La madre di Alberto Trentini: “Ho aspettato la sua chiamata per il
mio compleanno, l’ho attesa inutilmente” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Mentre le tensioni con il Venezuela raggiungono l’apice – con l’ultimo sequestro
della petroliera Skipper al largo del Paese sudamericano – Donald Trump torna a
minacciare il presidente colombiano, Gustavo Petro, denunciando che “la Colombia
produce molta droga” ed è “meglio che si svegli o sarà la prossima”, dopo
Caracas s’intende, già nel mirino del Dipartimento di Stato perché
presumibilmente “governata dal Cartel de los Soles“. Ma non solo. Trump parla di
“fabbriche“, dice che la Colombia vende direttamente la cocaina agli Usa e dice
che Petro “avrà seri problemi se non se ne rende conto”, accusandolo di essere
piuttosto ostile. Nulla di nuovo sotto il sole, bensì la piena continuità delle
operazioni anti-narcos lanciate lo scorso 21 agosto, con raid nei Caraibi che
hanno provocato più di 80 vittime e “minacce di operazioni di terra” a tutela
del territorio federale.
IL DOPPIO STANDARD
Ma c’è qualcosa che non torna nelle operazioni anti-narcos di Trump, ora
intitolate South Spear: vi è un massiccio apparato militare dispiegato contro
governi non allineati – come il Venezuela e la Colombia – compensato da un
atteggiamento accomodante nei confronti delgoverno conservatore del Perù, il
secondo produttore di cocaina al mondo – oltre 54.655 ettari produttivi -,
ritenuto “il granaio del sud”, con “laboratori clandestini in fase di
moltiplicazione”, e della Bolivia, ora sotto il governo di Rodrigo Paz, che nel
2023 ha battuto il record di sequestri di carichi pari a oltre 32,9 tonnellate.
Trump tace anche sulla situazione in Ecuador, non di certo migliorata sotto il
governo del suo delfino Daniel Noboa, dove passa il 70% della cocaina che
circola a livello mondiale. Le stesse autorità venezuelane hanno più volte
chiesto agli Stati Uniti di porre più attenzione sulla droga che esce da Quito
attraverso il Pacifico. Tuttavia, qualche settimana fa, alla vigilia del
referendum sulle basi militari Usa in Ecuador, il segretario di Stato Usa, Marco
Rubio, ha speso parole di elogio nei confronti di Noboa definendolo “un esempio
nella lotta al narcoterrorismo”.
L’EX PRESIDENTE “NARCO”, MA AMICO
Ma non c’è soltanto l’accondiscendenza nei confronti degli Stati amici. Il
doppio standard dell’amministrazione Trump nella presunta lotta al narcotraffico
si svela anche in interventi diretti nei Paesi da conquistare, anche
condizionandone il voto, com’è il caso dell’Honduras. Poco prima dell’apertura
dei seggi a Tegucigalpa, Trump ha concesso la grazia all’ex-presidente
honduregno Juan Orlando Hernández, condannato nel 2024 da un Tribunale federale
per aver favorito il traffico di droga negli Stati Uniti. Trump ha giustificato
la sua scelta incolpando Joe Biden di aver messo in pratica “un’orribile caccia
alle streghe” e di aver trattato troppo male Hernández. In fondo, però,
l’intenzione era quella di favorire il candidato conservatore Nasry Tito Asfura,
candidato presidenziale del Patito nazionale dell’Honduras – lo stesso di
Hernández – paradossalmente definito dal tycoon “l’unica alternativa al
narcoterrorismo“.
A questo punto c’è un cortocircuito nella logica anti-narcos di Trump, criticato
anche sul fronte repubblicano, con il senatore Bill Cassidy che si è chiesto:
“Perché diamo la grazia a Hernández e poi perseguitiamo Maduro per il traffico
di droga negli Stati Uniti?”. Sulla stessa sponda il senatore Thom Tillis ha
aggiunto: “È confuso dire, da una parte, che dovremmo valutare pure l’invasione
del Venezuela per il traffico di droga e, dall’altra, rilasciare qualcuno” già
condannato per narcotraffico.
IL RIASSETTO DEL CONTINENTE
In assenza di criteri oggettivi nella lotta ai narcos, che si sta dimostrando
selettiva a seconda dell’interlocutore, c’è chi comincia a mostrarsi sempre più
critico nei confronti dell’amministrazione Usa. “La missione antinarcotici, per
lo meno in termini di narrazione, sembra molto più selettiva e motivata da
ragioni politiche”, afferma Rebecca Bill Chávez, Ceo di Inter-American Dialogue.
Più critico ancora Christopher Sabatini, senior fellow per l’America Latina
presso Chatam House, per il quale “non si tratta della guerra contro le droghe”,
ma di “partitismo” e “alleati” al fine di “forzare gli altri governi della
regione” perché sostengano Trump. Pur nella consapevolezza generale, le
organizzazioni internazionali non si mostrano in grado di contrastare lo
strapotere trumpiano, il cui ritorno alla Dottrina Monroe è messo nero su
bianco. Qualche timido accenno è stato fatto mercoledì dall’Alto commissario Onu
per i diritti umani, Volker Türk, che ha chiesto una “de-escalation” fra Caracas
e Washington.
Vi è anche una coincidenza sospetta con gli eventi di Oslo, dove è stato
consegnato il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado. Il presidente del
Comitato del Nobel, Jørgen Watne Frydnes, ha invitato apertamente, forse per la
prima volta nella storia del riconoscimento, un capo di Stato a dimettersi,
incassando le proteste di circa 21 associazioni pacifiste vicine al premio.
Droga o meno, qualcuno ha deciso di smuovere le carte in America Latina: dal
Venezuela, raccontato come “grande malato”, al resto del continente.
L'articolo La lotta alla droga di Trump? Colpisce solo i governi non allineati e
grazia gli amici: dal Venezuela al Perù, il doppio standard Usa proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Chiede ancora una volta al governo di intervenire per fare tornare a casa suo
figlio Alberto, che da oltre 13 mesi è nelle mani del governo di Maduro. Armanda
Colusso Trentini, madre del cooperante 46enne detenuto in Venezuela dal 15
novembre 2024, in un messaggio vocale inviato a Tutta la città ne parla, su Rai
Radio3 ha nuovamente espresso la sua angoscia per la situazione in cui versa il
figlio, che ha finora avuto pochissimi contatti con la famiglia. “Sono ormai 13
mesi che Alberto è in prigione e noi non sappiamo darci pace. Mi chiedo ogni
mattina, quando inizia un nuovo giorno, cosa penserà del suo Paese che sembra
averlo abbandonato?”. Poiha proseguito: “Ringrazio la trasmissione – riferendosi
a Tutta la città ne parla – e tutti coloro che si stanno unendo a noi per
chiedere al nostro Governo un’azione incisiva per riportare a casa Alberto,
perché ogni giorno di detenzione in più ci risulta insopportabile”. Meno di un
mese fa, a metà novembre, Armanda, in conferenza stampa a Milano insieme
all’avvocata Alessandra Ballerini, le famiglie Regeni e Rocchelli, aveva di
nuovo sottolineato l’immobilismo del governo italiano, in un’attesa diventata
insoportabile. Lo stallo è stato in parte compensato dalla mobilitazione della
famiglia Trentini con Ballerini – e l’aiuto dell’associazione Articolo 21, la
parrocchia, gli amici – entrati a contatto con “politici, diplomatici, artisti e
negoziatori perché Alberto potesse tornare a casa”. Faceva ben sperare la
stretta di mano tra il capo di Stato Sergio Mattarella e la ministra
dell’Istruzione venezuelana durante la canonizzazione dei santi José Gregorio
Hernández e María Carmen Rendiles, ma Alberto non è ancora tornato. E poco
c’entrano i venti di guerra che soffiano al largo del Venezuela, vista la
liberazione di decine di detenuti colombiani (che hanno riferito di aver visto
Alberto). Su questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani era
intervenuto il 14 novembre, ribadendo lo sforzo italiano per “sollecitare la
liberazione” dei connazionali detenuti in Venezuela, facendo però riferimento a
“una tensione crescente” che coinvolge Caracas, “anche a livello
internazionale”. Nelle scorse settimane 39 eurodeputati hanno lanciato un
appello per il rilascio del cooperante, ma secondo quanto risulta a
ilfattoquotidiano.it la trattativa non sta procedendo, anche a causa di tensioni
politiche interne.
Intanto prosegue la mobilitazione a favore di Alberto Trentini. Uno striscione
per chiederne la liberazione è stato esposto all’esterno della sede del Comune
di Vigonovo (Venezia), a seguito della Deliberazione del Consiglio Comunale del
2 ottobre scorso, approvato all’unanimità, con cui Vigonovo ha aderito
all’appello nazionale per il suo ritorno a casa, unendosi ai numerosi enti
locali che hanno sposato la causa. Vigonovo in una nota “rinnova l’appello
affinché si proseguano con determinazione tutte le azioni necessarie per
garantire i diritti umani e processuali di Trentini, favorire un rapido rilascio
e assicurare il suo ritorno in Italia”. Anche l’università Cà Foscari di
Venezia, dove il cooperante si è laureato nel 2004, ha esposto sul Canal Grande
lo striscione ‘Alberto Trentini libero’, in concomitanza con un appello letto in
apertura di un convegno sull’immigrazione veneta in Sudamerica. “Siamo fieri di
Alberto, della sua vita spesa nell’impegno concreto per la solidarietà
internazionale e per i diritti umani. Oggi, chiunque attraversa il Canal Grande,
veneziano o turista che sia, vede affisso al balcone della nostra sede centrale,
lo striscione con le parole Alberto Trentini libero: un segnale della nostra
adesione all’appello della famiglia perché il Governo italiano metta in campo
tutte le azioni possibili per l’immediata liberazione di Alberto”, ha dichiarato
la rettrice Tiziana Lippiello.
L'articolo “Cosa penserà dell’Italia che sembra averlo abbandonato?”: la madre
di Alberto Trentini, da 13 mesi ostaggio di Caracas proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo, uno di quelli in cui
nessuno vorrebbe trovarsi. Da una parte c’è un regime criminale, denunciato da
anni per violazioni sistematiche dei diritti umani, con carceri piene di
prigionieri politici, dissidenti e perfino ostaggi internazionali, come il
nostro connazionale Alberto Trentini. Un potere autoritario che non riconosce il
risultato delle elezioni quando le perde, come abbiamo visto nel 2024, e che ha
provocato il più grande esodo migratorio della storia recente dell’America
Latina.
Una cupola senza scrupoli, guidata da Nicolás Maduro, ha di fatto sequestrato un
Paese ricchissimo di risorse, ma soprattutto ha sequestrato un popolo che, per
la propria storia e la propria cultura, non si sarebbe mai immaginato in esilio.
Oggi milioni di venezuelani vivono lontani da casa, spesso in condizioni
precarie, spesso con un passaporto scaduto e un futuro sospeso.
Dall’altra parte, a fare da contraltare, c’è una potenza imperialista guidata da
un presidente lunatico e vendicativo, che ha appoggiato senza esitazione il
massacro del popolo palestinese, armando la mano di Benjamin Netanyahu. Un Trump
misogino, egolatra, che usa i dazi come arma politica, che calpesta il diritto
internazionale e si arroga il potere di decidere chi debba vivere o morire nel
Mar dei Caraibi in nome della “lotta alla droga”. In mezzo, come se non
bastasse, ecco il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado (arrivata
rocambolescamente ad Oslo) che, insieme a quello a Obama, è uno dei più divisivi
degli ultimi decenni: per molti venezuelani è un simbolo di resistenza contro
Maduro, per altri l’ennesima espressione di un’opposizione liberale, bianca, di
élite, perfettamente compatibile con le agende di Washington.
E allora, da che parte stare? Dobbiamo davvero augurarci una invasione in stile
boots on the ground – improbabile, ma non impensabile – degli Stati Uniti per
rovesciare una dittatura sanguinaria? Oppure dobbiamo schierarci per riflesso
automatico con chi si proclama anti-imperialista davanti alle telecamere e grida
“gringo go home”, anche quando nei fatti ha trasformato il proprio Paese in una
prigione a cielo aperto?
Il sangue versato per le ingerenze Usa in America Latina e nei Caraibi non è
acqua passata: è memoria viva, è il ricordo dei golpe, dei desaparecidos, delle
torture, delle riforme strutturali imposte col ricatto del debito. È la
cicatrice delle dittature che ancora oggi segna i corpi e le biografie di
milioni di persone. Ma se ci fermiamo qui, restiamo prigionieri di un
antimperialismo di riflesso che spesso assolve, o minimizza, i crimini dei
regimi che si dichiarano “nemici degli Stati Uniti”.
C’è poi una dimensione che fatichiamo ad ammettere: il nostro privilegio. Da
Milano, Roma, Madrid o Parigi è facile romanticizzare le rivoluzioni altrui. Lo
abbiamo fatto con Cuba, lo abbiamo fatto con il Nicaragua: bandiere, poster,
slogan, magliette. Ma chi vive l’esilio, chi fa la fila per un permesso di
soggiorno, chi cerca lavoro con un documento scaduto, chi porta addosso le
conseguenze psichiche e fisiche della repressione raramente ha il lusso di
perdersi nelle nostre categorie ideologiche. A Madrid, le esiliate e gli
esiliati dal Nicaragua – fra cui figure come Gioconda Belli – raccontano cosa
significhi vivere sotto Ortega e Murillo: criticare la dittatura non li
trasforma automaticamente in fan di Trump. Allo stesso modo, criticare Maduro
non significa consegnarsi mani e piedi al progetto imperiale statunitense. La
realtà, ancora una volta, è più complessa delle nostre tifoserie geopolitiche.
Lo stesso vale per il Venezuela. Al netto delle nostre analisi da esperti della
domenica, dovremmo cominciare da una domanda semplice: cosa dicono i venezuelani
e le venezuelane? Se oggi fermassimo per strada, a Roma, Lima, Bogotá o Buenos
Aires, una persona venezuelana in esilio e le chiedessimo cosa pensa di quello
che sta succedendo, la risposta più probabile sarebbe che gli Stati Uniti ci
stanno mettendo troppo ad intervenire. Possiamo non condividere, possiamo
discutere, possiamo ricordare tutte le volte in cui l’intervento “salvifico” di
Washington si è trasformato in tragedia. Ma non possiamo continuare a parlare
sopra le voci di chi ha perso casa, lavoro, cittadinanza, futuro.
Questo post non offre soluzioni nette e definitive. Vuole essere, più
modestamente, una riflessione aperta. Un invito a disinnescare il riflesso
condizionato che ci porta a scegliere sempre e comunque “il nemico del mio
nemico”, anche quando è disposto a sacrificare il proprio popolo sull’altare del
potere. Un invito a mettere al centro le persone in fuga, i loro racconti, le
loro ferite, prima dei nostri schemi ideologici. Perché se c’è una cosa che il
Venezuela ci sta insegnando è che si può essere, allo stesso tempo, contro
Maduro e contro Trump; contro la tortura e contro le invasioni; contro i
narco-generali e contro i droni teleguidati dal Nord.
Forse, oggi più che mai, la vera scelta non è tra “regime sanguinario” e
“impero”, ma tra la nostra comodità di spettatori e la responsabilità di
ascoltare chi, da anni, non ha più il privilegio di voltarsi dall’altra parte.
L'articolo Il Venezuela oggi ci mette davanti a un dilemma scomodo: da che parte
stare? proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’attorney general Pam Bondi ha pubblicato su X un video sul sequestro di una
petroliera al largo del Venezuela che mostra personale armato Usa calarsi sulla
nave da un elicottero, per poi muoversi sul ponte con le armi puntate. L’Fbi,
Homeland Security Investigations e la Guardia Costiera degli Stati Uniti, col
supporto del Dipartimento della Guerra, ha spiegato, “hanno eseguito un mandato
di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio sanzionato
proveniente da Venezuela e Iran“. “Per diversi anni – ha dichiarato – la
petroliera è stata sanzionata dagli Stati Uniti a causa del suo coinvolgimento
in una rete illecita di trasporto di petrolio a supporto di organizzazioni
terroristiche straniere. Questo sequestro, completato al largo della costa
venezuelana, è stato condotto in modo sicuro e protetto, e la nostra indagine
insieme al Dipartimento della Sicurezza Interna per prevenire il trasporto di
petrolio sanzionato continua”. Il sequestro è avvenuto in acque internazionali,
ha dichiarato un alto funzionario statunitense, e si è svolto senza incidenti o
vittime, sia tra il personale statunitense che tra l’equipaggio della
petroliera. La nave, chiamata Skipper, trasportava greggio venezuelano, ha
aggiunto il funzionario. La petroliera era stata precedentemente associata al
petrolio iraniano, e un giudice federale aveva emesso un mandato per il suo
sequestro a causa di questi legami.
L'articolo Elicotteri militari e fucili spianati: così i soldati Usa hanno
sequestrato la petroliera al largo del Venezuela. Il video proviene da Il Fatto
Quotidiano.
L’amministrazione Usa guidata da Donald Trump ha sequestrato una petroliera al
largo delle coste del Venezuela. La notizia, anticipata dall’agenzia di stampa
internazionale Reuters, è stata confermata da Trump parlando con i giornalisti
alla Casa Bianca: “Come probabilmente saprete, abbiamo appena sequestrato una
petroliera al largo delle coste del Venezuela. Una grande petroliera, molto
grande, in realtà la più grande mai sequestrata. E stanno succedendo altre cose,
vedrete più tardi”, ha detto. Secondo fonti citate dall’agenzia Associated
press, l’operazione è stata condotta dalla Guardia costiera statunitense insieme
alla Marina. Il tycoon non è entrato nel dettaglio dei motivi dell’azione,
limitandosi a dire che il sequestro è avvenuto “per una buona ragione”. La
vicenda è destinata a far salire la tensione già alta tra i governi di
Washington e Caracas, dovuta al massiccio rafforzamento militare statunitense
nella regione: appena il giorno prima, il Pentagono aveva fatto sorvolare il
golfo del Venezuela da due jet da combattimento, sfiorando lo spazio aereo del
Paese sudamericano.
Il Venezuela possiede le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo e
produce circa un milione di barili al giorno: esclusa dai mercati petroliferi
globali dalle sanzioni statunitensi, la compagnia petrolifera statale (la Pdvsa)
vende la maggior parte della sua produzione a prezzi fortemente scontati alle
raffinerie cinesi. Le transazioni di solito coinvolgono una complessa rete di
intermediari poco trasparenti, poiché le sanzioni hanno allontanato i trader più
affermati. Molte sono società di comodo, registrate in giurisdizioni note per la
loro segretezza. Gli acquirenti utilizzano “petroliere fantasma” che nascondono
la loro posizione e consegnano i loro carichi di valore in mezzo all’oceano
prima che raggiungano la destinazione finale. Nonostante le crescenti pressioni
sul presidente venezuelano Nicolás Maduro, Trump finora non era mai intervenuto
concretamente per ostacolare i flussi petroliferi del Paese.
L'articolo Trump sequestra una petroliera al largo del Venezuela: “È per un buon
motivo”. La mossa accresce le tensioni con Caracas proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La figlia della leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado, Ana
Corina Sosa, ha ritirato il Premio Nobel per la Pace a nome della madre, poche
ore dopo che i funzionari avevano comunicato che la Machado non avrebbe
partecipato alla cerimonia. Jørgen Watne Frydnes, presidente del Comitato
norvegese per il Nobel, ha detto durante la cerimonia di premiazione che “María
Corina Machado ha fatto tutto il possibile per poter partecipare alla cerimonia
odierna, intraprendendo un viaggio in una situazione di estremo pericolo”.
“Sebbene non potrà partecipare alla cerimonia e agli eventi di oggi, siamo
profondamente felici di confermare che è al sicuro e che sarà con noi qui a
Oslo”, ha detto tra gli applausi. Nel discorso pronunciato dalla figlia Machado
ha sottolineato che 2.500 persone sono state rapite, fatte sparire e torturate
sotto il regime del presidente Nicolas Maduro. “Si tratta di crimini contro
l’umanità, documentati dalle Nazioni Unite. Terrorismo di stato, messo in atto
per seppellire la volontà del popolo”, ha dichiarato la figlia
L'articolo Machado, la figlia ritira il premio Nobel per la pace a Oslo: “In
Venezuela terrorismo di stato” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Che qualcosa non andava lo si era capito ieri, quando il Comitato aveva
annullato la prevista conferenza stampa della vigilia. Oggi è arrivata
l’ufficialità: Maria Corina Machado, Premio Nobel per la Pace, non parteciperà
alla cerimonia per la consegna del riconoscimento a Oslo. “Purtroppo, al momento
non si trova in Norvegia. E non salirà sul palco del Municipio di Oslo all’una
di oggi, quando inizierà la cerimonia – ha annunciato il direttore dell’Istituto
Nobel, Kristian Berg Harpviken -. Non sappiamo dove si trovi”. A ritirare il
premio sarà la figlia di Machado, Ana Corina Sosa. “Sua figlia pronuncerà il
discorso scritto da Maria Corina stessa”, ha aggiunto Harpviken.
Machado è a capo dell’opposizione al regime di Nicolas Maduro in Venezuela e
vive in una località segreta dalle elezioni dell’anno scorso. “Vive
semplicemente con una minaccia di morte da parte del regime. Questa minaccia si
applica anche quando si trova all’estero, sia da parte del regime che dei suoi
amici in tutto il mondo”, ha spiegato Harpviken, sottolineando che per questioni
logistiche sarebbe stato ancora più impegnativo del previsto far arrivare
Machado in Norvegia in sicurezza. Se uscisse dal Venezuela, la donna correrebbe
il rischio di essere dichiarata latitante e di non poter rimpatriare.
In Norvegia è arrivata invece la madre di Machado, Corina Parisca. È tra gli
invitati d’onore, assieme all’argentino Javier Milei, all’ecuadoriano Daniel
Noboa e al paraguayano Santiago Orena, oltre al presidente di Panama José Raúl
Mulino, che aveva rinnovato l’appoggio “alla lotta per la libertà del popolo
venezuelano”.
Intanto Donald Trump ha ribadito in un’intervista a Politico che “Maduro ha i
giorni contati”, preannunciando attacchi di terra e senza escludere un’invasione
americana. Ma questa volta minaccia di mettere nel mirino anche Messico e
Colombia nella sua lotta contro il narcotraffico. L’intervistatore gli fa notare
che, secondo la Dea, quasi tutto il fentanyl illecito negli Stati Uniti è
prodotto in Messico usando precursori chimici dalla Cina e che il Venezuela non
è una fonte significativa né un Paese di transito. Il tycoon obietta che le
barche “piene di sacchi di droga” colpite dalle forze Usa “arrivano in gran
parte dal Venezuela”. Ma quando gli viene chiesto “se considererebbe qualcosa di
simile contro Messico e Colombia, che sono ancora più responsabili del traffico
di fentanyl negli Stati Uniti”, lui non ha esitazioni: “Sì, lo farei. Certo. Lo
farei”.
L'articolo Nobel per la Pace, Maria Corina Machado non ritira il premio a Oslo:
“Non si sa dove sia”. Al suo posto la figlia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Non appare in pubblico da mesi e adesso anche la sua presenza a Oslo è avvolta
nel mistero. Alla vigilia della cerimonia di consegna del premio Nobel per la
Pace nella capitale norvegese, la conferenza stampa di Maria Corina Machado è
stata annullata. La leader dell’opposizione venezuelana era attesa a Oslo per la
tradizionale conferenza stampa prima della cerimonia di assegnazione. La
conferenza era già stata rinviata in giornata. Ma Erik Aasheim, portavoce
dell’Istituto Nobel, aveva rassicurato sul suo svolgimento.
Nel frattempo, però, si sono moltiplicate le voci secondo sui Maria Corina
Machado potrebbe non riuscire a ritirare il premio di persona. La leader
dell’opposizione venezuelana, infatti, vive in clandestinità: presentandosi alla
cerimonia di premiazione, rischia di essere dichiarata “latitante” dalle
autorità venezuelane. La sua ultima apparizione in pubblico risale al 9 gennaio,
quando la politica 58enne ha partecipato a una manifestazione a Caracas contro
il terzo mandato di Nicolas Maduro come presidente. Il premio Nobel per la Pace
le è stato assegnato proprio per la sua “lotta per raggiungere una transizione
giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia” in Venezuela, sfidando il
governo di Maduro, si leggeva nella motivazione.
Alcune oro dopo, è arrivata la notizia dell’annullamento della conferenza
stampa. “La stessa Maria Corina Machado ha parlato di quanto sia difficile
venire in Norvegia. Speriamo venga per la cerimonia”, ha fatto sapere il
portavoce Erik Aasheim. L’Istituto Nobel ha poi dichiarato di non poter fornire
ulteriori informazioni su quando e come Machado arriverà alla cerimonia di
premiazione, e non è stato nemmeno chiarito se la conferenza stampa verrà
recuperata in un secondo momento.
Intanto, mentre ancora non è chiaro se Machado sia riuscita a partire, arriva
una dichiarazione da parte di Magalli Meda, la responsabile della sua ultima
campagna elettorale: “Non esiste alcuna possibilità che Maria Corina resti in
esilio” dopo la consegna del Premio Nobel: “È come dire a una madre che dovrà
smettere di amare i propri figli”, ha dichiarato in un video diffuso su uno dei
profili social dell’opposizione venezuelana.
Intanto, a Oslo sono arrivati diversi leader politici sudamericani. Il
presidente dell’Argentina, Javier Milei, ha dichiarato che la sua presenza è a
sostegno di Maria Corina Machado e dell’opposizione venezuelana. Saranno
presenti anche i leader di Panama, Ecuador e Paraguay. Nella capitale norvegese
è presente anche la famiglia di Machado.
L'articolo Giallo sulla presenza di Maria Corina Machado alla cerimonia del
Nobel: annullata la conferenza stampa proviene da Il Fatto Quotidiano.