Atre otto persone sono morte nella guerra che gli Usa hanno dichiarato al
narcotraffico. Il fatto è accaduto il 15 dicembre nell’Oceano Pacifico
orientale, dove già a fine ottobre erano stati effettuati dei raid dal
Pentagono. Stavolta l’operazione è stata condotta dalla Joint task force
southern spear e diretta dal segretario del Dipartimento della guerra, Pete
Hegseth.
Degli attacchi cinetici hanno affondato tre imbarcazioni in acque
internazionali, uccidendo otto presunti narcotrafficanti: tre sulla prima
imbarcazione, due sulla seconda e altri tre sulla terza. “L’intelligence ha
confermato che le imbarcazioni stavano transitando lungo note rotte del
narcotraffico nel Pacifico orientale ed erano coinvolte in attività di
narcotraffico”, scrive l’Us Southern Command sulla piattaforma social X.
Giovedì Pete Hegseth, il segretario di Stato Marco Rubio e alti ufficiali
dell’esercito sono attesi a Washington per un aggiornamento a porte chiuse ai
membri del Congresso sulla campagna di questa amministrazione contro il traffico
di stupefacenti dall’America Latina. Il presidente Donald Trump ha più volte
giustificato e rivendicato politicamente queste operazioni militari contro i
cartelli della droga, che da settembre hanno ucciso almeno 95 persone nei 25
attacchi noti al pubblico.
Secondo alcuni avvocati ed esperti di diritto, gli attacchi ai presunti
narcotrafficanti sono delle esecuzioni extragiudiziali illegali. A queste
accuse, il portavoce del Pentagono Kingsley Wilson aveva risposto così: “Le
nostre operazioni nella regione di Southcom (il Comando Sud dell’esercito
statunitense, che ha come aree di competenza l’America centrale, il Sud America,
i Caraibi e le acque adiacenti della regione, ndr) sono legali sia secondo il
diritto statunitense che secondo quello internazionale e tutte le azioni sono
conformi al diritto dei conflitti armati”.
L'articolo Attacchi cinetici Usa contro presunti narcos: colpite altre 3 barche
nel Pacifico orientale, 8 morti proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Stati Uniti
È stato rilasciato l’uomo sospettato di essere l’autore della sparatoria
compiuta sabato alla Brown University, a Providence nel Rhode Island (Stati
Uniti), costata la vita a due studenti e il ferimento di altri 9. Lo ha
annunciato il sindaco di Providence, Brett Smiley, mentre prosegue la caccia
all’uomo. “Penso che sia giusto dire che non ci sono basi per considerarlo una
persona di interesse”, ha dichiarato ai giornalisti il procuratore generale del
Rhode Island, Peter Neronha. La persona rilasciata è un ex militare con problemi
psichici. “Abbiamo un assassinio in giro, non riveleremo i nostri piani”, ha
concluso Neronha. La polizia ha diffuso un video di 10 secondi in cui si vede il
sospettato, ripreso di spalle, mentre cammina a passo svelto lungo una strada
deserta dopo aver aperto il fuoco all’interno di un’aula al primo piano
dell’ateneo dove si stavano svolgendo gli esami.
LA SPARATORIA E LA CACCIA ALL’UOMO
Ieri le forze dell’ordine avevano fermato l’ex militare di circa trent’anni,
mentre alloggiava in un hotel del Rhode Island con due armi da fuoco. Le
ricerche del killer, con centinaia di agenti a setacciare l’area, erano scattate
subito dopo la sparatoria avvenuta sabato pomeriggio nel campus universitario.
L’assassino aveva aperto il fuoco nell’edificio di ingegneria durante gli esami
finali, dopo essere entrato nella palazzina dei dipartimenti di Fisica e
ingegneria. Joseph Oduro, studente 21enne al quarto anno e assistente didattico,
stava facendo una lezione di economia. Al New York Times ha raccontato che la
lezione era quasi terminata e gli studenti stavano per andarsene.
“All’improvviso, abbiamo sentito degli spari e delle urla nel corridoio”, ha
riferito. Circa tre secondi dopo – ha aggiunto – un uomo con una maschera sul
viso e un fucile è entrato in classe e ha iniziato a sparare. L’uomo ha urlato
qualcosa che, a detta di Oduro, era incomprensibile. Il video di sorveglianza
diffuso dalla polizia mostra il sospetto, vestito di nero, che si allontana con
calma dalla scena. Il suo volto non è visibile e non è chiaro se sia uno
studente oppure no. Forse indossava una maschera mimetica e potrebbe avere
intorno ai 30 anni, avrebbero dichiarato alcuni testimoni.
Due studenti sono stati uccisi e altre 9 persone sono rimaste ferite. Sei
pazienti, secondo quanto riferisce la Cnn, sono in condizioni critiche ma
stabili, mentre uno è in condizioni critiche. Due pazienti sono in condizioni
stabili.
L'articolo Sparatoria alla Brown university, rilasciato l’uomo sospettato di
essere il killer proviene da Il Fatto Quotidiano.
Mentre le tensioni con il Venezuela raggiungono l’apice – con l’ultimo sequestro
della petroliera Skipper al largo del Paese sudamericano – Donald Trump torna a
minacciare il presidente colombiano, Gustavo Petro, denunciando che “la Colombia
produce molta droga” ed è “meglio che si svegli o sarà la prossima”, dopo
Caracas s’intende, già nel mirino del Dipartimento di Stato perché
presumibilmente “governata dal Cartel de los Soles“. Ma non solo. Trump parla di
“fabbriche“, dice che la Colombia vende direttamente la cocaina agli Usa e dice
che Petro “avrà seri problemi se non se ne rende conto”, accusandolo di essere
piuttosto ostile. Nulla di nuovo sotto il sole, bensì la piena continuità delle
operazioni anti-narcos lanciate lo scorso 21 agosto, con raid nei Caraibi che
hanno provocato più di 80 vittime e “minacce di operazioni di terra” a tutela
del territorio federale.
IL DOPPIO STANDARD
Ma c’è qualcosa che non torna nelle operazioni anti-narcos di Trump, ora
intitolate South Spear: vi è un massiccio apparato militare dispiegato contro
governi non allineati – come il Venezuela e la Colombia – compensato da un
atteggiamento accomodante nei confronti delgoverno conservatore del Perù, il
secondo produttore di cocaina al mondo – oltre 54.655 ettari produttivi -,
ritenuto “il granaio del sud”, con “laboratori clandestini in fase di
moltiplicazione”, e della Bolivia, ora sotto il governo di Rodrigo Paz, che nel
2023 ha battuto il record di sequestri di carichi pari a oltre 32,9 tonnellate.
Trump tace anche sulla situazione in Ecuador, non di certo migliorata sotto il
governo del suo delfino Daniel Noboa, dove passa il 70% della cocaina che
circola a livello mondiale. Le stesse autorità venezuelane hanno più volte
chiesto agli Stati Uniti di porre più attenzione sulla droga che esce da Quito
attraverso il Pacifico. Tuttavia, qualche settimana fa, alla vigilia del
referendum sulle basi militari Usa in Ecuador, il segretario di Stato Usa, Marco
Rubio, ha speso parole di elogio nei confronti di Noboa definendolo “un esempio
nella lotta al narcoterrorismo”.
L’EX PRESIDENTE “NARCO”, MA AMICO
Ma non c’è soltanto l’accondiscendenza nei confronti degli Stati amici. Il
doppio standard dell’amministrazione Trump nella presunta lotta al narcotraffico
si svela anche in interventi diretti nei Paesi da conquistare, anche
condizionandone il voto, com’è il caso dell’Honduras. Poco prima dell’apertura
dei seggi a Tegucigalpa, Trump ha concesso la grazia all’ex-presidente
honduregno Juan Orlando Hernández, condannato nel 2024 da un Tribunale federale
per aver favorito il traffico di droga negli Stati Uniti. Trump ha giustificato
la sua scelta incolpando Joe Biden di aver messo in pratica “un’orribile caccia
alle streghe” e di aver trattato troppo male Hernández. In fondo, però,
l’intenzione era quella di favorire il candidato conservatore Nasry Tito Asfura,
candidato presidenziale del Patito nazionale dell’Honduras – lo stesso di
Hernández – paradossalmente definito dal tycoon “l’unica alternativa al
narcoterrorismo“.
A questo punto c’è un cortocircuito nella logica anti-narcos di Trump, criticato
anche sul fronte repubblicano, con il senatore Bill Cassidy che si è chiesto:
“Perché diamo la grazia a Hernández e poi perseguitiamo Maduro per il traffico
di droga negli Stati Uniti?”. Sulla stessa sponda il senatore Thom Tillis ha
aggiunto: “È confuso dire, da una parte, che dovremmo valutare pure l’invasione
del Venezuela per il traffico di droga e, dall’altra, rilasciare qualcuno” già
condannato per narcotraffico.
IL RIASSETTO DEL CONTINENTE
In assenza di criteri oggettivi nella lotta ai narcos, che si sta dimostrando
selettiva a seconda dell’interlocutore, c’è chi comincia a mostrarsi sempre più
critico nei confronti dell’amministrazione Usa. “La missione antinarcotici, per
lo meno in termini di narrazione, sembra molto più selettiva e motivata da
ragioni politiche”, afferma Rebecca Bill Chávez, Ceo di Inter-American Dialogue.
Più critico ancora Christopher Sabatini, senior fellow per l’America Latina
presso Chatam House, per il quale “non si tratta della guerra contro le droghe”,
ma di “partitismo” e “alleati” al fine di “forzare gli altri governi della
regione” perché sostengano Trump. Pur nella consapevolezza generale, le
organizzazioni internazionali non si mostrano in grado di contrastare lo
strapotere trumpiano, il cui ritorno alla Dottrina Monroe è messo nero su
bianco. Qualche timido accenno è stato fatto mercoledì dall’Alto commissario Onu
per i diritti umani, Volker Türk, che ha chiesto una “de-escalation” fra Caracas
e Washington.
Vi è anche una coincidenza sospetta con gli eventi di Oslo, dove è stato
consegnato il Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado. Il presidente del
Comitato del Nobel, Jørgen Watne Frydnes, ha invitato apertamente, forse per la
prima volta nella storia del riconoscimento, un capo di Stato a dimettersi,
incassando le proteste di circa 21 associazioni pacifiste vicine al premio.
Droga o meno, qualcuno ha deciso di smuovere le carte in America Latina: dal
Venezuela, raccontato come “grande malato”, al resto del continente.
L'articolo La lotta alla droga di Trump? Colpisce solo i governi non allineati e
grazia gli amici: dal Venezuela al Perù, il doppio standard Usa proviene da Il
Fatto Quotidiano.
È entrato nella palazzina dei dipartimenti di Fisica e ingegneria mentre si
stavano svolgendo gli esami e ha aperto il fuoco. Due studenti sono stati uccisi
e altre 9 persone sono rimaste ferite nella sparatoria avvenuta alla Brown
University nel campus di Providence, Rhode Island, in America. Il killer non è
stato ancora rintracciato, e 400 agenti sono stati mobilitati per le ricerche.
Nel frattempo, la polizia ha diffuso il video dell’uomo sospettato: vestito di
nero, nelle immagini è di spalle mentre lascia l’edificio camminando verso Hope
Street. Le autorità hanno chiesto la collaborazione di chi ha informazioni utili
a identificarlo. Secondo quanto riferito dai testimoni, l’uomo, al momento della
sparatoria, indossava una maschera mimetica grigia, ha dichiarato il vice capo
della polizia di Providence, Timothy O’Hara. Intanto l’Fbi ha lanciato un sito
di segnalazioni per permettere ai cittadini di inviare foto e video prove che
potrebbero avere del sospettato. Mentre le ricerche dell’uomo armato proseguono,
non si registra alcuna minaccia nota per la comunità nel suo locale, ha
affermato il sindaco Brett Smiley. Ci sarà comunque una maggiore presenza di
agenti di polizia in città, ma “non riteniamo necessario annullare la festa di
Natale”, ha spiegato. “Siamo convinti che potrete andare in chiesa in tutta
sicurezza”, ha aggiunto Smiley.
L'articolo Sparatoria in un campus della Brown University a Providence: uccisi
due studenti, nove feriti. Il killer in fuga proviene da Il Fatto Quotidiano.
Truppe internazionali potrebbero essere schierate nella Striscia di Gaza già dal
mese prossimo. Lo scrive il Times of Israel citando due funzionari Usa in
contatto con l’agenzia di stampa Reuters. Sotto l’egida dell’Onu, i contingenti
militari garantirebbero la stabilizzazione del territorio scoraggiando ulteriori
scontri armati. Tuttavia non è ancora chiaro come verranno disarmati i
guerriglieri palestinesi di Hamas.
Il tema sarà sul tavolo della conferenza statunitense con i Paesi partner,
prevista a Doha il 16 dicembre. I delegati di 25 paesi – riferisce Reuters –
discuteranno della pianificazione di una Forza internazionale di stabilizzazione
(Isf) per Gaza. Sono tanti i nodi da sciogliere, ma l’aspetto decisivo riguarda
la struttura di comando. I funzionari Usa – sotto anonimato – sostengono che lo
scopo non sarà combattere Hamas. Poi indicano le altre questioni: le dimensioni,
la composizione, l’alloggio, l’addestramento e le regole di ingaggio delle
truppe.
L'articolo Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio:
conferenza Usa a Doha il 16 dicembre proviene da Il Fatto Quotidiano.
La distanza tra Europa e Stati Uniti, nell’era di Donald Trump, è sempre più
siderale. Al punto che le agenzie di viaggio americane, nel Parlamento Ue, sono
percepite come una minaccia. In una lettera alla presidente Roberta Metsola,
l’eurodeputato austriaco Helmut Brandstätter chiede di revocare il mandato alla
ditta Carlson Wagonlit Travel (CWT), della multinazionale a stelle e strisce
American Express. Da quando si è aggiudicata l’appalto, la ditta organizza i
viaggi degli ospiti, degli eletti e dello staff del Parlamento europeo. Ma dopo
il caso di Francesca Albanese a novembre – denunciato dal M5s e raccontato da
ilfattoquotidiano.it – il clima è cambiato attorno all’agenzia. Cosa era
accaduto? Pochi giorni prima di un convegno organizzato dall’Aula di Bruxelles,
Cwt ha disdetto la prenotazione della relatrice Onu, ospite dell’evento. La
motivazione ufficiale non è mai arrivata, ma per gli addetti è chiaro: l’agenzia
è tenuta ad applicare le sanzioni Usa contro Albanese, anche in Europa. Il
problema fu risolto in fretta: l’esperta di Medio Oriente partecipò alla
conferenza grazie al nuovo alloggio prenotato direttamente dagli uffici del
Parlamento Ue. Ma un’ombra è rimasta sulla ditta Cwt. Ora per i viaggi delle
persone sanzionate dagli Stati Uniti – scrive la testata brussellese Politico –
l’Ue intende cambiare agenzia affidandosi a una ditta belga. Ma ad alcuni
europarlamentari non basta e invocano la revoca dell’appalto alla società
americana.
LA LETTERA A METSOLA: “L’AGENZIA AMERICANA UN RISCHIO PER I DEPUTATI”
Secondo la lettera firmata da Helmut Brandstätter – iscritto al gruppo centrista
di Renew – gli eletti del Vecchio continente sono esposti al “rischio di azioni
esecutive arbitrarie ed extraterritoriali da parte delle autorità americane”.
Poiché American Express ha sede negli Usa, “CWT – e per estensione, il
Parlamento europeo e i suoi deputati – è sottoposta alle leggi statunitensi in
materia di sanzioni”, scrive Brandstätter. Dunque continuare ad affidarsi
all’agenzia a stelle e strisce, “espone i deputati e il personale del Parlamento
al pericolo reale e attuale delle sanzioni statunitensi, che sono già state
utilizzate come arma contro funzionari europei in passato. Basti pensare ai
recenti casi in cui individui ed entità europee sono stati minacciati o
sanzionati dagli Stati Uniti, con conseguente esclusione dai servizi digitali,
dai sistemi finanziari e persino dai viaggi”. Ecco perché “l’Unione Europea non
deve permettere che la sua sovranità, né l’indipendenza dei suoi rappresentante,
siano compromesse dalla portata giuridica e politica di un paese terzo”. Si
parla degli Usa, ma i toni suggeriscono inimicizia come fosse il Cremlino: da
alleati a “Paese terzo”. Se il messaggio non fosse chiaro, l’eletto austriaco
ribadisce: “Utilizzare un’agenzia di viaggi controllata dagli Stati Uniti mette
a rischio ogni deputato europeo e compromette la nostra capacità di adempiere al
nostro mandato democratico senza timore di coercizioni esterne”. Insomma, gli
Usa come una minaccia per le istituzioni elettive del Vecchio continente. In
conclusione, l’austriaco esorta la presidente del Parlamento Ue a “rescindere
immediatamente il contratto con Cwt”, “sospendere con effetto immediato
qualsiasi utilizzo” della ditta, infine selezionare un’agenzia europea. Le
preoccupazioni investono la privacy e i dati sensibili di eletti e funzionari:
“Cwt ha accesso alle informazioni più sensibili sui deputati e sul personale
parlamentare, inclusi i dati del passaporto, i dati delle carte di credito, le
modalità di viaggio e la loro esatta ubicazione in qualsiasi momento”.
IL DEPUTATO DI RENEW: “AZIENDE STRANIERE PROFONDAMENTE RADICATE NEL PARLAMENTO
UE”
L’appello da inviare a Roberta Metsola, firmato Brandstätter, sta circolando tra
gli europarlamentari ma è già giunto all’orecchio della multinazionale
americana. Che non ha gradito. “Ho ricevuto telefonate infastidite da American
Express perché qualcuno ha fatto trapelare la lettera”, ha scritto l’esponente
di Renew in una mail – letta dal Fatto – destinata a tutti gli europarlamentari.
“Questo dimostra quanto profondamente le aziende straniere siano radicate in
quest’Aula. È un motivo in più per lottare per la sovranità del Parlamento”,
chiosa Brandstätter.
Il M5s ha espresso sostegno a Brandstätter firmando l’appello destinato a
Metsola. Tra i motivi, anche “le nuove regole di accesso negli Stati Uniti che
prevedono uno screening dei social per rilasciare un visto d’ingresso”, si legge
in una nota dell’eurodeputato Danilo Della Valle. “La gestione dei viaggi e
degli spostamenti dei parlamentari europei sono dati sensibili che riguardano
anche la sicurezza interna e andrebbero affidate a società europee”, conclude
l’esponente pentastellato.
L'articolo “Le agenzie di viaggio Usa sono una minaccia per i parlamentari Ue”:
la lettera dell’eurodeputato a Metsola proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il piano di Donald Trump per la Striscia di Gaza sta per essere definito. E
l’Amministrazione statunitense ha invitato l’Italia e la Germania ad aderire al
Consiglio di Pace. La notizia è stata riportata da Axios che cita due fonti a
conoscenza diretta della questione. È inoltre previsto che a guidare il Gaza
Board of Peace sia lo stesso presidente Trump e che i suoi principali
consiglieri diventeranno membri del comitato esecutivo internazionale. Secondo
la stessa testata statunitense, gli alleati sarebbero stati informati anche
sulla Forza internazionale di stabilizzazione (Isf), che dovrebbe essere
composta da rappresentanti di diversi Paesi per il mantenimento della pace sotto
il mandato delle Nazioni Unite. Indonesia, Azerbaigian, Turchia ed Egitto hanno
già detto di voler inviare soldati. Non è ancora chiaro se questi Paesi ne
faranno parte e se qualche Stato occidentale accetterà di inviare truppe. La
seconda fase dell’accordo per Gaza – recentemente approvato dall’Onu – prevede,
infatti, un ulteriore ritiro dei militari israeliani, il dispiegamento delle Isf
a Gaza e l’entrata in vigore di una nuova struttura di governo, che include il
Consiglio di Pace. Come già trapelato nei giorni scorsi, del Board non farà
parte Tony Blair, dopo la ferma opposizione dei Paesi arabi. Rimangono però
ancora dubbi sulle tempistiche sull’inizio della fase due.
UN GENERALE USA A CAPO DELLA FORZA INTERNAZIONALE
Secondo quanto trapela, il tycoon starebbe anche pianificando la nomina di un
generale americano a capo della Forza Internazionale. Una nomina che sarebbe
finalizzata ad accrescere ulteriormente la responsabilità degli Stati Uniti
nella messa in sicurezza e nella ricostruzione della Striscia, mentre a Gaza si
continua ancora a morire anche per le inondazione e il freddo. Gli Stati Uniti
hanno già istituito un quartier generale civile-militare in Israele per
monitorare il complesso cessate il fuoco e coordinare gli aiuti umanitari. Gli
Usa guiderebbero così la forze di sicurezza dell’enclave senza però inviare
truppe americane sul terreno. La notizia sarebbe stata già comunicata
dall’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Mike Waltz al primo ministro
Benjamin Netanyahu e ad altri funzionari. “Waltz ha persino affermato di
conoscere personalmente il generale e ha sottolineato che è una persona molto
seria”, ha detto un funzionario israeliano. Gli Stati Uniti hanno anche proposto
che l’ex inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nickolay Mladenov
ricopra il ruolo di rappresentante del Board of Peace sul campo a Gaza,
collaborando con un futuro governo tecnocratico palestinese, secondo fonti
informate.
L'articolo Media: “Gli Usa hanno invitato Italia e Germania ad aderire al
Consiglio di Pace per Gaza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Vuoi andare a vivere negli Usa ma la procedura per ottenere il visto è troppo
lunga? Nessun problema, basta comprare una carta speciale alla modica cifra di 1
milione di dollari. L’amministrazione del presidente Donald Trump ha appena
lanciato un nuovo programma di visti, la Trump Gold Card, un percorso per
ottenere più rapidamente il visto per vivere negli States. Una notizia che fa
discutere, dopo l’obbligo di giustificare la propria attività social per chi
vuole recarsi nel Paese.
Chi è interessati può visitare il sito web “Trumpcard.gov” e cominciare la
procedura: sulla homepage si legge “Sblocca la vita in America”, sotto sono
elencati i vantaggi speciali per le persone e le aziende che aderiscono alla
Trump Gold Card oppure alla Trump Platinum Card – ancora in fase di sviluppo.
Per quanto riguarda la Gold Card, il primo passaggio per “ottenere la residenza
negli Stati Uniti in tempi record” è il pagamento non rimborsabile di una
commissione di 15mila dollari al Dipartimento della sicurezza interna
statunitense. Dopo aver superato i controlli dei Servizi per la cittadinanza e
l’immigrazione, bisognerà mettere mano al portafogli. Per poi ottenere la carta
color oro che ritrae il presidente Trump con la sua firma, la Statua della
Libertà e la bandiera Usa.
Secondo quanto affermato dal Segretario al commercio Howard Lutnick, circa
10mila persone hanno già sottoscritto la Gold Card durante il periodo di
preregistrazione. “Mi aspetto che col tempo venderemo migliaia di queste card e
raccoglieremo miliardi, miliardi di dollari“, ha dichiarato il segretario in
un’intervista. Si tratta di un programma che sottolinea le contraddizioni delle
politiche migratorie della seconda presidenza Trump: se da un lato
quest’amministrazione si è distinta per la repressione ai confini e i rimpatri
delle popolazioni indesiderate, dall’altro lato invoglia le classi sociali più
ricche a venire negli Usa.
L'articolo Trump lancia la Gold Card: 1 milione di dollari per ottenere il visto
Usa proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il 17 ottobre 1931 Al Capone fu arrestato e condannato per reati fiscali, dopo
numerosi tentativi andati a vuoto da parte dei federali. La vicenda, che tanto
ha ispirato Hollywood, e che costituì un punto di svolta per gli investigatori
americani nelle indagini a carico dei pezzi da novanta del crimine organizzato e
della finanza, nell’America di Trump ha perso vigore.
Secondo una inchiesta dell’agenzia Reuters, le azioni penali federali per reati
fiscali sono scese al livello più basso degli ultimi decenni, con un calo di
oltre il 27%. Il motivo è da attribuire alla preferenza data dalla Casa Bianca
al contrasto dell’immigrazione illegale e alla criminalità di strada.
Tagli significativi sono stati apportati all’unità investigativa Internal
Revenue Service (IRS), con 330 unità in meno: a Washington, le nuove mansioni
affidate agli investigatori prevedono anche pattugliamenti con gli agenti di
polizia cittadina per fare fronte a quella che Trump ha definito la crisi della
Capitale legata alla microcriminalità. L’IRS ha cercato di fare buon viso a
cattivo gioco, mettendo a disposizione solo una parte delle sue forze. Ma
Stephen Miller, collaboratore di Trump, si è apertamente lamentato e il numero
dei funzionari destinato al pattugliamento è aumentato.
Nel contempo il Dipartimento di Giustizia ha chiuso la sua Divisione Fiscale; un
terzo o più degli avvocati sono stati mandati via. In termini di numeri, le
conseguenze sono queste: i procedimenti per reati fiscali dinanzi a Tribunali
federali nel 2024, tra gennaio e l’inizio di novembre, erano stati 420; nel 2025
ne sono stati registrati 160.
La Reuters ha ottenuto conferme da più fonti: alti funzionari
dell’amministrazione Trump hanno fatto sapere ai procuratori che le indagini
fiscali non erano una priorità, mostrando scetticismo sulle inchieste a carico
dei colletti bianchi e “sull’opportunità” di occuparsi di quei casi. Alla base
c’è uno scontro politico tra la precedente amministrazione Biden, e quella
attuale, che ha accusato l’ex presidente democratico di aver “militarizzato” il
Dipartimento di Giustizia.
Una storia emblematica, in questo contesto, è quella di Roger Ver, noto anche
come “Gesù Bitcoin”, investitore di criptovalute. In un video, Ver ha affermato
di essere stato preso di mira dal Dipartimento di Giustizia che gli imputava di
non aver pagato decine di milioni di dollari in tasse. Per difendersi dalle
contestazioni, “Gesù Bitcoin” si è rivolto all’avvocato Chris Kise, legato a
Donald Trump. Reuters sottolinea che in ottobre Kise e un alto funzionario del
Dipartimento di Giustizia che in precedenza aveva rappresentato Ivanka Trump,
hanno raggiunto un accordo di sospensione dell’azione penale nei confronti di
Ver; lui, in cambio, ha versato quasi 50 milioni di dollari.
Ufficialmente, la portavoce del Dipartimento di Giustizia, Natalie Baldassarre,
ha affermato che questo nuovo assetto “non avrà alcun impatto sulla capacità
degli avvocati civili e dei procuratori di portare avanti la propria missione di
far rispettare in modo equo e coerente le leggi fiscali nazionali”. Ma tra le
dichiarazioni governative e ciò che poi accade nella realtà a volte c’è un solco
profondo, e certamente i federali dell’IRS che assistono gli agenti per
effettuare arresti su strada di irregolari, accattoni o scippatori non avranno
poi il tempo di inseguire gli Al Capone degli anni 2000.
L'articolo Nell’America di Trump crollano le inchieste sui reati fiscali: i
federali vengono dirottati ai servizi di pattuglia proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il 71enne segretario Usa alla Salute Robert Kennedy Jr. e quello ai Trasporti
Sean Duffy si sono sfidati in una gara di trazioni e hanno dato spettacolo
all’aeroporto Ronald Reagan di Washington. La scena è stata ripresa e pubblicata
sui social per promuovere il piano da un miliardo di dollari che vuole rendere i
terminal dei luoghi più salutari e vivibili
L'articolo La sfida del segretario americano Robert Kennedy Jr. : venti trazioni
in giacca e cravatta all’aeroporto di Washington proviene da Il Fatto
Quotidiano.