L’industria petrolifera e quella automobilistica stanno esercitando forti
pressioni sull’Unione europea, affinché si preveda la possibilità di vendere
auto endotermiche, alimentate con biocarburanti, anche dopo il 2035. Ma questa
ipotesi – ventilata prima dell’ultimo Consiglio dell’Unione e fortemente
sostenuta dal Governo italiano, oltre a comportare modifiche sostanziali al
Regolamento Ue (che oggi prevede l’immatricolazione di sole auto a zero
emissioni a partire dal 2035), innescherebbe un incremento insostenibile della
domanda per questi carburanti. Lo sostiene Transport & Environment,
organizzazione europea per la decarbonizzazione dei trasporti che, in un’analisi
appena pubblicata calcola gli effetti che avrebbe il riconoscimento dei biofuels
tra le soluzioni energetiche per la transizione dei trasporti su strada. Si
tratterebbe prevalentemente di biofuels ottenuti da materie prime di scarto
limitate nella disponibilità e in larga parte importate, come grassi animali,
oli da cucina usati e co-prodotti dell’olio di palma. “Estenderne l’impiego
anche alle auto (oltre che ad aerei e navi) spingerebbe a consumarne una
quantità, al 2050, da due a nove volte superiore rispetto a quanto si potrà
produrre in modo realmente sostenibile” spiega T&E nel report. Perché si tratta
di una domanda insostenibile? “Alimentare un’auto totalmente a biofuels per un
anno (per 15mila chilometri) richiederebbe il macello di circa 120 maiali o gli
oli esausti prodotti dalla frittura di 25 chilogrammi di patatine al giorno”.
LA POSIZIONE DELL’INDUSTRIA E LE PRESSIONI SULL’UE
Nei giorni scorsi, la lobby automobilistica tedesca (Via), l’associazione dei
fornitori automobilistici (Clepa) e un gruppo di 28 aziende e associazioni del
settore dei carburanti hanno inviato una comunicazione alla Commissione europea,
chiedendo che i veicoli che utilizzano biocarburanti possano essere considerati
come a emissioni zero, anche dopo il 2035. Acea, l’associazione dei carmaker
europei, ha chiesto una “implementazione pragmatica” delle norme, che consenta
l’immatricolazione di nuove vetture alimentate con carburanti a zero emissioni
di carbonio anche oltre il 2035. Emblematiche le parole pronunciate dal
commissario Ue ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, che confermano la volontà
della Commissione di aprire alle richieste del mondo automotive (Leggi
l’approfondimento). “Stiamo conducendo una revisione nell’ambito del più ampio
pacchetto per il comparto automotive che rispetterà il principio di neutralità
tecnologica” ha detto.
I BIOFUELS “SPRECATI” PER LE AUTO
Una decisione in tal senso, secondo Transport & Environment, avrebbe due gravi
conseguenze: consolidare il mercato di fonti fossili per il settore dell’auto e
“sprecare” le limitate quantità di biocarburanti avanzati, fondamentali per i
settori cosiddetti hard to abate, come l’aviazione, dove la decarbonizzazione è
più difficile. Secondo gli attuali target Ue, infatti, anche nello scenario più
ottimistico, nel 2050 aerei e navi richiederanno circa il doppio dei
biocarburanti avanzati che sarà possibile produrre in Europa. “Le pressioni
dell’industria per espandere il ruolo dei biocarburanti nella transizione sono
irresponsabili: non disporremo mai di quantità di grassi animali e oli da cucina
esausti sufficienti per alimentare in modo sostenibile neppure una frazione del
parco auto europeo, e ancor meno per navi e aerei” afferma Carlo Tritto,
Sustainable Fuels Manager di T&E Italia.
IL RISCHIO DI AUMENTARE LA DIPENDENZA DALL’IMPORT
Se è vero che i biocarburanti avanzati rappresentano una delle soluzioni
necessarie alla decarbonizzazione dei trasporti, è altrettanto vero che quelli
realmente sostenibili sono limitati e spesso insufficienti, in termini di
disponibilità dei feedstock, nel mercato interno. L’Europa, oggi, importa più
dell’80% del proprio fabbisogno di olio da cucina usato da Paesi come Cina e
Malesia. Mentre il pome (sotto-prodotto dell’inquinante olio di palma) viene
importato dall’Unione europea, insieme al Regno Unito, in volumi circa doppi
rispetto al potenziale globale. “Per soddisfare i consumi annui di un’auto con
biofuels sarebbe necessario friggere – quotidianamente – 25 chilogrammi di
patatine o macellare circa 120 maiali l’anno” si legge nell’analisi. I grassi
animali, “scarto” dell’industria zootecnica, sono già tra i feedstock più
richiesti: “Con l’attuale domanda, le auto europee ne consumano 1,3 milioni di
tonnellate, equivalenti ai grassi prodotti dal macello di 200 milioni di
maiali”. Lo squilibrio tra domanda e disponibilità aumenterebbe la dipendenza
dell’Europa dalle importazioni. T&E stima che oggi circa il 60% dei
biocarburanti utilizzati in Europa – sia quelli ottenuti da colture sia quelli
avanzati – provenga da Paesi terzi. Per l’Italia tale dipendenza è anche più
netta – superiore al 90% –, con la gran parte delle materie prime importate da
Indonesia e Malesia, due dei principali produttori di olio di palma al mondo. La
domanda ulteriore di biofuels, generata dal potenziale impiego nelle auto,
porterebbe le importazioni europee al 90% entro il 2050.
RISCHIO FRODI E IL PROBLEMA DELLA QUALITÀ DELL’ARIA
L’aumento della dipendenza dall’estero comporta anche un maggiore rischio di
frodi. T&E ha documentato in diverse occasioni significative discrepanze nei
volumi dichiarati di oli esausti importati in Europa. L’Unione Europea, ad
esempio, importa dalla Malesia un volume di olio esausto da cottura tre volte
superiore a quanto il Paese può realisticamente raccogliere. Un’inchiesta ha
messo in luce una potenziale frode nell’etichettatura degli effluenti dei mulini
dell’olio di palma, la cui quantità esportata dall’Indonesia in Europa
supererebbe la produzione globale stimata. L’Indonesia stessa – principale
produttore mondiale di olio di palma e dei suoi sottoprodotti – ha avviato
un’indagine interna in merito. L’Italia, il Paese più interessato a far entrare
i biocarburanti nel regolamento Ue sulle auto, è anche quello maggiormente
esposto al rischio di frodi. “Lo scorso anno il 40% di tutti i biocarburanti
prodotti nel nostro Paese derivava da pome, con circa 600mila tonnellate
importate dall’Indonesia” spiega Tritto. E aggiunge: “Oltre a non risolvere i
problemi di dipendenza energetica, e in molti casi quelli relativi al clima, i
biofuels non sono una soluzione nemmeno per la qualità dell’aria. Quando
bruciati nei motori, producono elevate quantità di inquinanti locali tossici,
con gravissimi effetti per la salute umana e ingenti costi sanitari”. E
l’Italia, in materia di inquinamento atmosferico, ha già ricevuto tre procedure
di infrazione dall’Ue, con due di queste tradotte in condanne dalla Corte di
Giustizia.
L'articolo Biocarburanti dopo il 2035: “Pressioni sull’Ue, ma vanno macellati
120 maiali per alimentare un’auto per un anno” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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È solo rimandata la norma che ridurrà (ancora) il diritto di sciopero nei
trasporti. L’emendamento del senatore di Fratelli d’Italia Matteo Gelmetti, che
avrebbe obbligato i lavoratori a comunicare con almeno sette giorni di anticipo
l’eventuale adesione agli scioperi, è stato ritirato dalla legge di Bilancio, ma
sarà ripresentato come provvedimento apposito. Non si trattava dell’iniziativa
di un singolo, ma di una causa sposata del tutto dal partito di Giorgia Meloni.
Infatti in questi giorni l’ufficio studi di FdI ha inviato ai suoi parlamentari
un documento in cui vengono spiegate le “ragioni” dell’intervento.
La nota è stata redatta sotto la supervisione del sottosegretario Giovanbattista
Fazzolari, braccio destro della premier. Nell’introduzione spiega che il ritiro
dell’emendamento è stato “strumentalizzato da certe stampa e opposizioni”, ma
l’unico motivo è appunto che si tratta di “materia ritenuta particolarmente
complessa”, che quindi “necessita di una proposta di legge ad hoc e un confronto
parlamentare più approfondito”. Il succo è questo: il diritto di sciopero nei
trasporti ha un impatto rilevante su libertà di circolazione e sicurezza. La
legge 146 del 1990 già oggi limita questo diritto, ma – dice l’ufficio studi di
Fratelli d’Italia – quella legge “funzionava correttamente in un contesto
storico dominato da grandi organizzazioni sindacali, capaci di mobilitare una
larga parte dei lavoratori”.
La nota svela quindi i veri bersagli della norma proposta: i sindacati di base,
di solito più conflittuali di Cgil, Cisl e Uil. “Oggi – prosegue – la scenario è
mutato: scioperi a bassa partecipazione (spesso inferiori al 5%) sono promossi
da una crescente frammentazione sindacale, con sigle autonome che utilizzano lo
sciopero anche come strumento di visibilità. Nonostante l’adesione minima, le
aziende di trasporto riducono comunque i servizi ai livelli minimi previsti
(fino al 50% come previsto per legge), causando disagi sproporzionati per i
cittadini”.
FdI sostiene quindi che oggi, anche quando l’adesione a uno sciopero è bassa, le
aziende riducono di molto il servizio. Per cui serve l’obbligo di adesione
preventiva allo sciopero, così da far sapere il numero di scioperanti in
anticipo e modulare il servizio. Sul piano politico, è un evidente tentativo di
Fratelli d’Italia di invadere il terreno di propaganda solitamente battuto dal
leader della Lega Matteo Salvini, che da ministro dei Trasporti usa spesso la
precettazione per mettere chi sciopera contro gli utenti del servizio.
La norma, però, pone molti dubbi di legittimità. Secondo il costituzionalista
Gaetano Azzariti, “ci sono tutti i presupposti per dichiarare
l’incostituzionalità”. “Bisognerà vedere il testo che approveranno -, aggiunge –
l’ultima parola l’avrà la Consulta. Io non do patenti di costituzionalità o
incostituzionalità, ma se è vero che si parla di introdurre un preavviso di
sette giorni, si va a toccare il nucleo duro del diritto di sciopero”. Il
docente ricorda che, pur non essendo intervenuto per legge, il governo Meloni ha
già ridotto di fatto il diritto di sciopero: “L’interpretazione che si sta
facendo della legge sullo sciopero nei servizi pubblici è la più restrittiva che
io conosca. – spiega – Lo strumento della precettazione non è di per sé
incostituzionale, ma ha avuto una interpretazione estensiva che non si è mai
visto in passato. Si continuano a mettere paletti e delimitazioni che rendono
difficile soprattutto per il pubblico impiego”
L’obbligo di comunicare preventivamente l’adesione sarebbe quindi una ulteriore
limitazione. E non basta tirare in ballo il diritto dei cittadini di spostarsi.
“La legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici c’è già – insiste
Azzariti -, non stiamo negando che ci debba essere, ma deve esistere un
bilanciamento e il problema è che qui c’è uno sbilanciamento, si impedisce
l’esercizio di un diritto a fronte di altre libertà. Ricordo che il diritto di
sciopero è un diritto rafforzato perché a tutela del diritto del lavoro”.
Insomma, conclude il docente, “non esistono diritti tiranni, ma in questo caso
l’equilibrio si traduce in squilibrio, il bilanciamento in sbilanciamento e si
tende a intaccare il nucleo duro dell’esercizio del diritto di sciopero, il
preavviso di sette giorni non è ragionevole. Ripeto: ci sono tutti i presupposti
perché si arrivi alla Corte Costituzionale e poi vediamo che succede”.
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sull’obbligo di comunicare l’adesione in anticipo proviene da Il Fatto
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