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Sotto l’aerospazio, niente: tutti i settori industriali Ue in crisi. “Tra costi dell’energia e interventismo di Usa e Cina si rischia il deserto”
Su diciotto settori industriali, in Europa uno solo è in crescita: l’aerospazio. Tutti gli altri diciassette sono fermi se non addirittura in preoccupante calo, in particolare l’automotive e l’acciaio che interessano da vicino l’Italia, alle prese con la produzione ai minimi di Stellantis e la morte annunciata dell’Ilva. Persino il comparto della difesa, che pure sta ricevendo la spinta dei piani di riarmo, sconta la difficoltà di essere troppo permeato dagli Stati Uniti. A Bruxelles è stato presentato il report realizzato da Syndex per IndustriAll, il sindacato europeo dei metalmeccanici. Il documento ha un titolo che non si serve di giri di parole: Ending european naivety, ovvero “finiamola con l’ingenuità europea”. Scatta una drammatica fotografia dello stato della manifattura nei Paesi Ue e chiede alle istituzioni di intervenire con una cura choc per evitare il tracollo, visto che al momento ci sono oltre 4 milioni di lavoratori interessati da ammortizzatori sociali. PROBLEMI IN TUTTI I REPARTI Volendo prendere in prestito la metafora calcistica, l’industria europea può essere descritta come una squadra che ha problemi in tutti i reparti. Innanzitutto in attacco, perché l’austerità fiscale blocca gli investimenti e comprime i consumi interni. Poi in difesa, perché ci sono pochi e inefficaci strumenti per proteggere le nostre fabbriche dalla concorrenza cinese e americana, dal dumping salariale e dalla eccessiva dipendenza energetica. Infine, è del tutto carente quello che potremmo definire il settore giovanile: gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione sono troppo bassi, l’età media della forza lavoro è elevata e si fa fatica a favorire il ricambio generazionale. UE A RISCHIO DESERTIFICAZIONE Insomma, senza un drastico cambio di rotta si rischia una perenne desertificazione industriale. Sorride solo l’aerospazio, che va meglio dei suoi competitori statunitensi e molto meglio di quelli cinesi. L’industria del solare è stata annientata dalla Cina, così come Pechino domina quella delle componenti per le telecomunicazioni. E ancora, la farmaceutica è sotto pressione da parte degli Stati Uniti, oltre che dipendente da Cina e India. Questa situazione è definita dal sindacato “una precisa scelta politica”, dettata soprattutto dal patto di stabilità che pone un freno agli investimenti e alla domanda interna. Ecco perché IndustriAll chiede di tornare a sospendere la stretta fiscale, come fatto durante il Covid. L’URGENZA? I COSTI DELL’ENERGIA L’urgenza è rappresentata dal capitolo energia. I costi sono determinati dal ristretto mercato del gas e l’Europa sta assorbendo la costosa crescita dell’offerta americana, anche se continua a consumare gas e petrolio russi. La transizione ecologica è una sfida fondamentale e, secondo gli autori del report, bisognerebbe programmarla facendo sì che porti con sé nuove assunzioni. Anche da questo punto di vista va contraddetto il luogo comune per cui una maggiore regolamentazione rallenta lo sviluppo: anzi è “ironico” che mentre l’Europa tenta di ridurre la regolamentazione, la Cina introduce nuovi standard di sostenibilità. INDUSTRIALL CHIEDE LA DIFESA DEL MERCATO INTERNO Si diceva della carenza difensiva dell’Europa: ci sono pochi mezzi per contrastare le importazioni da Paesi che attuano il cosiddetto dumping, per esempio utilizzando fonti inquinanti e non riconoscendo diritti e giuste retribuzioni a chi lavora. Ecco perché il rapporto IndustriAll chiede una maggiore difesa del mercato interno, rendendo “non gratuito” l’ingresso di merci. Il riferimento è alla possibilità di inasprire le tariffe per far entrare prodotti realizzati con alto apporto di carbonio, quindi rendere ancora più severo il Cbam (Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere) che oggi regola la materia. ANCHE LA RICERCA PERDE TERRENO Anche nella ricerca l’Europa sta perdendo terreno: è messa bene per quanto riguarda quella di base, ma non in quella cosiddetta applicata. Mentre negli Stati Uniti l’obiettivo è stato aumentare la capacità produttiva, nel nostro continente ci si è concentrati più sulla sostituzione. Ma soprattutto, l’atteggiamento europeo è ancora focalizzato sulla gestione di una crisi, e non tanto sulla pianificazione dello sviluppo. Le diverse normative nazionali sul mercato del lavoro aggravano la carenza di manodopera competente. LA RICHIESTA: AIUTI SOLO SE PROFITTI REINVESTITI C’è anche un passaggio sul rapporto tra la finanza e l’industria. Il rapporto del sindacato sostiene che in Europa i profitti non vengono reinvestiti, e che il nostro continente è il primo per distribuzione degli utili agli azionisti. Ecco perché l’altra proposta è creare una condizionalità negli aiuti pubblici: non concederli a pioggia ma vincolarli a investimenti in occupazione, formazione e ricerca. LE REGOLE INTERNE NON FANNO BARRIERA In definitiva, il rapporto racconta l’industria europea come un settore stritolato da due superpotenze come Cina e Stati Uniti, interventiste e protezioniste. Le regole interne inceppano gli investimenti e non pongono barriere alle “minacce” esterne sul piano energetico e del dumping ambientale e salariale. Vale la pena ricordare, al di là dello studio europeo, che il caso italiano è emblematico: da due anni il dato sulla produzione industriale è in calo, al netto di qualche ripresa occasionale. A pesare sono le questioni più spinose, ex Ilva e Stellantis. L’AUTO IN LOTTA PER LA SUA SOPRAVVIVENZA Proprio l’automotive è uno dei settori più indagati dal report. La produzione di veicoli è diminuita in “maniera preoccupante” nel 2024 con un calo del del 6,1% e si prevede un’ulteriore diminuzione nel 2025, mentre i cinesi trainano i volumi mondiali con un numero di vetture assemblate che ha superato la richiesta del mercato interno nel 2021 e lo scorso anno era superiore del 15%. Una tendenza che – secondo IndustriAll – non si arresterà negli anni a venire. Il comparto è definito “sotto minaccia” dal sindacato europeo con impatti a valle sull’intera catena: i produttori automobilistici europei stanno “lottando”, si legge nel report, nel quale gli autori avvisano che il “picco dell’onda non è ancora arrivato”. Il rischio è che diversi pezzi della filiera “non sopravvivano”. LE CINESI IN UE SÌ, LE AUTO EUROPEE LÌ NO Anche perché in futuro, stando ai dati, si rischia un’invasione cinese. L’ascesa dei marchi di Pechino sembra inarrestabile: IndustriAll fa notare che i produttori automobilistici del Paese asiatico sono in crescita (6 gruppi cinesi sono ora nella Top 20 delle immatricolazioni europee e BYD è nella Top 10), mentre le vendite dei produttori stranieri in Cina sono in calo. Quando la quota di elettrico aumenterà (oggi è al 17%), il trend rischia di impennarsi definitivamente perché l’offerta di veicoli senza motori endotermici da parte delle cinesi sta raggiungendo o superando quella dei produttori occidentali. LA PERDITA DI KNOW HOW, UNO SCENARIO PLAUSIBILE La conclusione è drammatica nel lungo periodo, non solo per le materie prime legate alle batterie, ma anche perché la ricerca e sviluppo – secondo il sindacato – è minacciata a causa dell’attrattiva crescente delle piattaforme ideate in Cina e India, che consentono uno sviluppo più rapido a costi inferiori. Il rischio è che vada totalmente disperso il know how. Se il settore automobilistico europeo continuerà a ridurre le sue capacità di produzione e progettazione e a esternalizzare gli acquisti al di fuori dell’Europa, ad avviso degli autori, presto non avrà più i volumi necessari per essere redditizio, né le competenze e l’esperienza richieste per la sua trasformazione. DE PALMA: “RISCHI ENORMI, SERVE MOBILITAZIONE EUROPEA” “L’industria europea sta correndo un rischio enorme a causa delle mancate scelte e dei mancati investimenti privati e pubblici dalla Commissione e dell’Unione, dei Governi ma anche alle scelte sbagliate che le multinazionali stanno facendo in questo momento”, dice il segretario della Fiom-Cgil Michele De Palma. “Il numero che mi ha particolarmente colpito della relazione di Judith Kirton-Darling, segretaria generale di IndustriAll Europe, è quello dei 4,3 milioni di lavoratrici e di lavoratori in Europa che sono in questo momento interessati da ammortizzatori sociali e quindi non pienamente al lavoro a cui si aggiungono i lavoratori già licenziati, decine di migliaia. Questo segnala il rischio in Europa di perdita di ulteriori posti di lavoro e di perdita quindi della sovranità industriale europea”. Secondo De Palma è “fondamentale” che “ci siano proposte condivise da parte dei sindacati europei dell’industria” e “necessaria” una mobilitazione “nei confronti dei Governi e dell’Unione europea per rimettere al centro le lavoratrici e i lavoratori dell’industria per garantire autonomia e democrazia”. L'articolo Sotto l’aerospazio, niente: tutti i settori industriali Ue in crisi. “Tra costi dell’energia e interventismo di Usa e Cina si rischia il deserto” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Biocarburanti dopo il 2035: “Pressioni sull’Ue, ma vanno macellati 120 maiali per alimentare un’auto per un anno”
L’industria petrolifera e quella automobilistica stanno esercitando forti pressioni sull’Unione europea, affinché si preveda la possibilità di vendere auto endotermiche, alimentate con biocarburanti, anche dopo il 2035. Ma questa ipotesi – ventilata prima dell’ultimo Consiglio dell’Unione e fortemente sostenuta dal Governo italiano, oltre a comportare modifiche sostanziali al Regolamento Ue (che oggi prevede l’immatricolazione di sole auto a zero emissioni a partire dal 2035), innescherebbe un incremento insostenibile della domanda per questi carburanti. Lo sostiene Transport & Environment, organizzazione europea per la decarbonizzazione dei trasporti che, in un’analisi appena pubblicata calcola gli effetti che avrebbe il riconoscimento dei biofuels tra le soluzioni energetiche per la transizione dei trasporti su strada. Si tratterebbe prevalentemente di biofuels ottenuti da materie prime di scarto limitate nella disponibilità e in larga parte importate, come grassi animali, oli da cucina usati e co-prodotti dell’olio di palma. “Estenderne l’impiego anche alle auto (oltre che ad aerei e navi) spingerebbe a consumarne una quantità, al 2050, da due a nove volte superiore rispetto a quanto si potrà produrre in modo realmente sostenibile” spiega T&E nel report. Perché si tratta di una domanda insostenibile? “Alimentare un’auto totalmente a biofuels per un anno (per 15mila chilometri) richiederebbe il macello di circa 120 maiali o gli oli esausti prodotti dalla frittura di 25 chilogrammi di patatine al giorno”. LA POSIZIONE DELL’INDUSTRIA E LE PRESSIONI SULL’UE Nei giorni scorsi, la lobby automobilistica tedesca (Via), l’associazione dei fornitori automobilistici (Clepa) e un gruppo di 28 aziende e associazioni del settore dei carburanti hanno inviato una comunicazione alla Commissione europea, chiedendo che i veicoli che utilizzano biocarburanti possano essere considerati come a emissioni zero, anche dopo il 2035. Acea, l’associazione dei carmaker europei, ha chiesto una “implementazione pragmatica” delle norme, che consenta l’immatricolazione di nuove vetture alimentate con carburanti a zero emissioni di carbonio anche oltre il 2035. Emblematiche le parole pronunciate dal commissario Ue ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, che confermano la volontà della Commissione di aprire alle richieste del mondo automotive (Leggi l’approfondimento). “Stiamo conducendo una revisione nell’ambito del più ampio pacchetto per il comparto automotive che rispetterà il principio di neutralità tecnologica” ha detto. I BIOFUELS “SPRECATI” PER LE AUTO Una decisione in tal senso, secondo Transport & Environment, avrebbe due gravi conseguenze: consolidare il mercato di fonti fossili per il settore dell’auto e “sprecare” le limitate quantità di biocarburanti avanzati, fondamentali per i settori cosiddetti hard to abate, come l’aviazione, dove la decarbonizzazione è più difficile. Secondo gli attuali target Ue, infatti, anche nello scenario più ottimistico, nel 2050 aerei e navi richiederanno circa il doppio dei biocarburanti avanzati che sarà possibile produrre in Europa. “Le pressioni dell’industria per espandere il ruolo dei biocarburanti nella transizione sono irresponsabili: non disporremo mai di quantità di grassi animali e oli da cucina esausti sufficienti per alimentare in modo sostenibile neppure una frazione del parco auto europeo, e ancor meno per navi e aerei” afferma Carlo Tritto, Sustainable Fuels Manager di T&E Italia. IL RISCHIO DI AUMENTARE LA DIPENDENZA DALL’IMPORT Se è vero che i biocarburanti avanzati rappresentano una delle soluzioni necessarie alla decarbonizzazione dei trasporti, è altrettanto vero che quelli realmente sostenibili sono limitati e spesso insufficienti, in termini di disponibilità dei feedstock, nel mercato interno. L’Europa, oggi, importa più dell’80% del proprio fabbisogno di olio da cucina usato da Paesi come Cina e Malesia. Mentre il pome (sotto-prodotto dell’inquinante olio di palma) viene importato dall’Unione europea, insieme al Regno Unito, in volumi circa doppi rispetto al potenziale globale. “Per soddisfare i consumi annui di un’auto con biofuels sarebbe necessario friggere – quotidianamente – 25 chilogrammi di patatine o macellare circa 120 maiali l’anno” si legge nell’analisi. I grassi animali, “scarto” dell’industria zootecnica, sono già tra i feedstock più richiesti: “Con l’attuale domanda, le auto europee ne consumano 1,3 milioni di tonnellate, equivalenti ai grassi prodotti dal macello di 200 milioni di maiali”. Lo squilibrio tra domanda e disponibilità aumenterebbe la dipendenza dell’Europa dalle importazioni. T&E stima che oggi circa il 60% dei biocarburanti utilizzati in Europa – sia quelli ottenuti da colture sia quelli avanzati – provenga da Paesi terzi. Per l’Italia tale dipendenza è anche più netta – superiore al 90% –, con la gran parte delle materie prime importate da Indonesia e Malesia, due dei principali produttori di olio di palma al mondo. La domanda ulteriore di biofuels, generata dal potenziale impiego nelle auto, porterebbe le importazioni europee al 90% entro il 2050. RISCHIO FRODI E IL PROBLEMA DELLA QUALITÀ DELL’ARIA L’aumento della dipendenza dall’estero comporta anche un maggiore rischio di frodi. T&E ha documentato in diverse occasioni significative discrepanze nei volumi dichiarati di oli esausti importati in Europa. L’Unione Europea, ad esempio, importa dalla Malesia un volume di olio esausto da cottura tre volte superiore a quanto il Paese può realisticamente raccogliere. Un’inchiesta ha messo in luce una potenziale frode nell’etichettatura degli effluenti dei mulini dell’olio di palma, la cui quantità esportata dall’Indonesia in Europa supererebbe la produzione globale stimata. L’Indonesia stessa – principale produttore mondiale di olio di palma e dei suoi sottoprodotti – ha avviato un’indagine interna in merito. L’Italia, il Paese più interessato a far entrare i biocarburanti nel regolamento Ue sulle auto, è anche quello maggiormente esposto al rischio di frodi. “Lo scorso anno il 40% di tutti i biocarburanti prodotti nel nostro Paese derivava da pome, con circa 600mila tonnellate importate dall’Indonesia” spiega Tritto. E aggiunge: “Oltre a non risolvere i problemi di dipendenza energetica, e in molti casi quelli relativi al clima, i biofuels non sono una soluzione nemmeno per la qualità dell’aria. Quando bruciati nei motori, producono elevate quantità di inquinanti locali tossici, con gravissimi effetti per la salute umana e ingenti costi sanitari”. E l’Italia, in materia di inquinamento atmosferico, ha già ricevuto tre procedure di infrazione dall’Ue, con due di queste tradotte in condanne dalla Corte di Giustizia. 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Geely Talks, una nuova idea di mobilità prende forma. Tra tecnologia avanzata e apertura al futuro
Dopo lo sbarco ufficiale sul mercato italiano, Geely punta a diventare un player credibile per istituzioni, addetti ai lavori e automobilisti. Non una semplice “nuova casa automobilistica”, ma un marchio che vuole inserirsi nel dibattito sulla mobilità del futuro con contenuti tecnici solidi, un approccio culturale aperto e una strategia costruita su innovazione e design. È in quest’ottica che nasce la collaborazione con il Politecnico di Milano, presentata ai Geely Auto Talks: un osservatorio privilegiato su come Intelligenza Artificiale, ADAS (ovvero i sistemi di assistenza alla guida), elettrificazione e nuove competenze stanno ridisegnando l’automotive. La fotografia scattata dal Polimi è chiarissima. Il mercato italiano degli ADAS cresce a doppia cifra e ha raggiunto 1,2 miliardi di euro nel 2024. Ma soprattutto questi sistemi generano benefici tangibili: la diffusione di tecnologie come la frenata automatica d’emergenza o il mantenimento della corsia, giusto per citarne alcune, ha ridotto gli incidenti del 12% e la gravità degli infortuni del 13%, con un risparmio sociale che supera gli 1,8 miliardi di euro nell’ultimo decennio. L’intelligenza artificiale accelera ulteriormente questo cambiamento: oggi l’automotive è tra i settori più maturi nell’adozione di soluzioni AI. Dai sistemi predittivi che anticipano comportamenti a rischio, alla progettazione generativa nei centri R&D, fino alla gestione del veicolo in tempo reale, l’AI permea l’intera catena del valore. E la guida autonoma? Nel mondo, oltre la metà dei progetti più avanzati riguarda i robotaxi, con Cina e Stati Uniti in forte vantaggio competitivo. In Italia siamo indietro, c’è dunque la necessità di riguadagnare terreno. Tecnologia, però, significa anche persone. La grande indagine sulle risorse umane del Politecnico, condotta su migliaia di cittadini e decine di opinion leader, racconta un’automotive che sta cambiando pelle: il 56% delle aziende segnala carenza di competenze specifiche e quasi la metà richiede nuovi set di skill, soprattutto su elettrificazione, AI, sostenibilità e guida autonoma. I ruoli più richiesti nei prossimi cinque anni? Automotive engineer, IT specialist e data analyst, insieme a figure di customer care e marketing sempre più data-driven. È proprio per colmare questo divario – tecnologico, culturale e di competenze – che Geely intende proporsi come attore sistemico. Come spiega Marco Santucci, il numero uno di Geely Italia: “Crediamo fortemente nel potenziale dell’Italia come hub strategico per l’innovazione, il design e la mobilità del futuro. Il nostro Rinascimento Tecnologico mette al centro le persone e usa la tecnologia per migliorare la qualità della vita, rendendo più sicuro e sostenibile il modo di muoversi”. Non solo auto, dunque. Geely punta a costruire un ponte stabile tra industria, istituzioni, università e professionisti. Un modo concreto per dimostrare che credibilità e visione non si dichiarano. Si costruiscono, numeri alla mano. L'articolo Geely Talks, una nuova idea di mobilità prende forma. Tra tecnologia avanzata e apertura al futuro proviene da Il Fatto Quotidiano.
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