È stata sospesa dal lavoro per non avere notato un mascara nascosto in una busta
di castagne. È una cassiera con 36 anni di esperienza – denunciano i sindacati –
l’ultima “vittima” del tanto contestato “test del carrello” messo in campo
dall’azienda Pam Panorama che ha già portato al licenziamento di due dipendenti.
Il test consiste nell’occultamento volontario di prodotti in punti difficili da
individuare nel carrello di un finto cliente durante una normale passata in
cassa. E il dipendente del supermercato che non si accorge del prodotto nascosto
rischia la sanzione.
Per la cassiera del supermercato Pam di Fornacette – nel comune di Calcinaia, in
provincia di Pisa – è scattata così la sospensione dal lavoro per dieci giorni,
non retribuiti. “Una sanzione pesantissima, mettendo sulla testa della
dipendente una spada di Damocle che appare come un messaggio chiaro, per lei e
per i colleghi: ogni minimo errore sarà punito senza pietà“, commenta Matteo
Taccola, della Filcams Cgil di Pisa.
Non si tratta di un caso isolato. A Siena e a Livorno, Pam Panorama ha già
licenziato due persone per non aver superato il test. In seguito ai
licenziamenti, l’azienda ha diffuso un comunicato stampa, ma i sindacati Filcams
Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs ne hanno sottolineato le contraddizioni: “Nel
comunicato si parla di un’escalation di furti, rapine e delinquenza e ammanchi
per 30 milioni di euro: uno scenario poco verosimile ed esasperato ad arte”. Tra
l’altro le responsabilità dei furti verrebbero, in questo modo, scaricate sul
personale di cassa. L’azienda, come fanno notare i sindacati, “dovrebbe
investire sui servizi di anti taccheggio e vigilanza privata”, soprattutto sulle
casse veloci.
Il test del carrello è diventato anche un caso politico, con i partiti di
opposizione che hanno portato l’argomento in Parlamento. Intanto i sindacati
confermano che andranno avanti con la mobilitazione nazionale fino a quando Pam
Panorama “non avrà ritirato tutti i licenziamenti e i provvedimenti
disciplinari, e non avrà ripristinato relazioni industriali improntate al
rispetto e alla dignità del lavoro”.
L'articolo “Non si è accorta di un mascara nascosto tra le castagne”: Pam
sospende dal lavoro un cassiera dopo il “test del carrello” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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Salvi, quasi tutti, e chi comunque non continuerà a lavorare avrà un cuscinetto
di tempo e di denaro per provare a trovare una nuova collocazione. È in buona
parte rientrata la vertenza Yoox, il colosso dell’e-commerce che aveva
annunciato il licenziamento di 211 persone. Al termine del tavolo al ministero
delle Imprese e del Made in Italy, è stato raggiunto un accordo che prevede una
riduzione degli esuberi strutturali, con 70 dipendenti che lasceranno l’azienda,
l’uso di ammortizzatori sociali e la possibilità di incentivazioni all’esodo su
base volontaria.
A settembre scorso, l’azienda aveva comunicato 211 licenziamenti, tra Bologna e
Milano, giustificandoli con la crisi del settore. A ottobre, il licenziamento
collettivo era stato sospeso in seguito all’incontro tra sindacati, azienda e
istituzioni locali al Mimit. Ora, al termine del confronto, la vertenza è stata
chiusa con un accordo che fa esultare il ministro Adolfo Urso (“Un successo
frutto di un lavoro di squadra”) e il presidente della Regione Emilia-Romagna
Michele De Pascale: “Si sono centrati i tre obiettivi che ci eravamo dati fin
dall’inizio della crisi: la continuità dell’attività aziendale sul territorio di
Bologna, l’attivazione di ammortizzatori sociali e la massima salvaguardia dei
livelli occupazionali nonché l’individuazione di percorsi che garantissero le
migliori condizioni di uscita volontaria per le lavoratrici e i lavoratori che
intendessero farne uso”.
L’accordo sarà ora votato dalle lavoratrici e dai lavoratori di Yoox. Nata nel
2000 dalla mente dell’imprenditore emiliano-romagnolo Federico Marchetti,
l’azienda fu la start up “unicorno” emiliana, in grado di raggiungere, non
quotata in Borsa, una valutazione di mercato di almeno 1 miliardo di dollari.
Nel 2015 si è fusa con la la britannica Net-à-Porter e nel 2018 è passata di
mano: Ynap fu comprata dal colosso svizzero Richemont, proprietario tra l’altro
degli orologi Cartier e delle penne Montblanc. A ottobre 2024 Richemont ha
sottoscritto un accordo per la vendita alla tedesca Mytheresa, completato in
primavera. La nuova proprietà, che fa capo Luxesperience, ha dichiarato una
riduzione di ricavi 191 milioni nell’ultimo esercizio e perdite complessive
superiori a 2 miliardi negli ultimi due anni e lanciato una riorganizzazione,
che prevede un accentramento delle funzioni attualmente svolte da Yoox a livello
di gruppo.
L'articolo Yoox ritira il licenziamento collettivo, raggiunto l’accordo al
ministero: 70 esuberi in meno e incentivi all’esodo proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Spintonata in bagno, trattenuta, costretta a subire palpeggiamenti: la vittima è
una dipendente dell’Esselunga di Novoli, a Firenze, che è stata sorpresa da uno
sconosciuto nei servizi del supermercato. La lavoratrice, una cassiera di 30
anni, ha urlato e i clienti l’hanno soccorsa, facendo fuggire l’aggressore. I
carabinieri stanno indagando per identificarlo. Per protesta i lavoratori del
negozio hanno scioperato, organizzando un presidio davanti al punto vendita.
“Siamo di fronte all’ennesima aggressione verso i dipendenti – sottolinea la
Filcams Cgil -, le denunciamo da anni ad aziende e istituzioni, ora si arriva
persino a un tentativo di stupro. Ribadiamo che a norma di legge è l’azienda che
deve garantire la sicurezza di chi lavora all’interno del negozio e dei clienti.
La situazione è inaccettabile, diciamo basta ai rimpalli di responsabilità, in
questi anni non sono stati fatti passi significativi in avanti per migliorare la
situazione”. Quest’ultima aggressione riapre il problema di episodi di violenza
e furti nella grande distribuzione che il sindacato ha più volte denunciato in
passato.
Esselunga ha espresso la vicinanza alla dipendente aggredita assicurandole
“tutto il supporto necessario con la massima attenzione”. “Rispettiamo
profondamente le preoccupazioni dei lavoratori – sottolinea l’azienda – e
restiamo disponibili al dialogo, come sempre, con spirito costruttivo e
trasparente. Desideriamo, inoltre, ribadire la piena disponibilità a collaborare
con le autorità competenti”.
La sindaca di Firenze Sara Funaro si è definita “molto preoccupata perché
l’escalation della violenza sulle donne sta aumentando in maniera drammatica,
non solo nella nostra città, ma in tutto il nostro paese. Al prossimo Cosp
chiederò che venga analizzata la situazione, ma vorrei nelle prossime ore andare
a trovare personalmente la dipendente”.
L'articolo Cassiera aggredita e palpeggiata all’Esselunga a Firenze: protesta
Cgil, i lavoratori scioperano fuori dal supermercato proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tutte riassunte, nero su bianco. Si chiude con la firma degli ultimi contratti
la vertenza de La Perla, l’azienda di intimo di lusso che ha rischiato di
scomparire per sempre. Due anni di incertezze sui quali viene messo un punto
dando seguito alla svolta della scorsa estate, quando l’azienda era stata
acquisita dal miliardario statunitense Peter Kern, ex ceo di Expedia, che aveva
investito circa 25 milioni di euro nell’azienda bolognese di lingerie.
Il salvataggio – orchestrato dal ministero delle Imprese e del Made in Italy –
ha riguardato il posto di lavoro di circa 210 persone, quasi tutte donne. “È il
passaggio che chiude più di due anni di incertezze, un periodo segnato da
sacrifici e paura, ma anche da una determinazione che non è mai venuta meno –
commentano i sindacati Filctem Cgil e Uiltec – Le maestranze, abituate a cucire
vere e proprie opere d’arte per il lusso, apprezzate a livello internazionale,
hanno tenuto insieme ciò che la speculazione finanziaria stava smontando pezzo
per pezzo”.
Mentre la filiera della moda è attraversata da casi di sfruttamento e lavoro
irregolare, secondo le due sigle, La Perla diventa l’esempio opposto: “Dimostra
che si può fare qualità rispettando persone, diritti e salari. Le artigiane
della storica azienda bolognese rappresentano il punto più alto di un sapere che
il mercato globale non riesce a duplicare. Questa giornata racconta che il
lavoro corretto, retribuito in modo giusto e fondato sulla qualità, non è un
miraggio. È un obiettivo raggiungibile quando una comunità decide di proteggere
ciò che conta davvero”.
L'articolo La Perla salvata: firmati i contratti per 210 dipendenti dopo
l’acquisizione di Kern proviene da Il Fatto Quotidiano.
Governo come un muro di gomma. Priorità assoluta alla riforma costituzionale su
separazione delle carriere e doppio Csm, referendum il prima possibile, ma
nessuna apertura per risolvere un problema cruciale, questo sì, per far
funzionare la Giustizia: la stabilizzazione di 12 mila precari. Questa mattina
c’è stato un sit-in organizzato dal sindacato di base Usb (per motivi logistici
davanti al ministero della Funzione pubblica e non della Giustizia). Gli
organizzatori chiedono che i lavoratori restino tutti al loro posto e che il
governo preveda la loro stabilizzazione a tappe: 6 mila dal primo luglio e gli
altri 6 mila a scaglioni.
Il maggior numero dei precari riguarda gli 8 mila addetti all’ufficio del
processo (UPP). A questi bisogna aggiungere tra i 1.600-1.800 data entry,
addetti alla digitalizzazione degli atti e altri 900 circa tecnici di
amministrazione. I loro contratti a tempo, finanziati con il PNRR, del 2022,
scadranno a fine giugno del 2026. Attraverso le cosiddette “prove selettive”
saranno assunti a tempo indeterminato 3 mila precari dal primo luglio 2026,
grazie ai fondi stanziati dalla precedente manovra economica.
La capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, che sta
gestendo il tavolo delle trattative, ha detto alle sigle sindacali che vi
partecipano (Cisl Fp; Confsal, Flp; Uil Pa e Confintesa) che saranno
stabilizzati altri 3 mila precari, sempre dal primo luglio 2026, con i
cosiddetti “fondi assunzionali” a disposizione del ministero della Giustizia.
Quindi, 6 mila precari, dopo 4 anni di esperienza, andranno a casa. Con quali
conseguenze? “Saranno al collasso – ci dice Pina Todisco, responsabile Usb
Giustizia – tanti uffici giudiziari anche di grandi dimensioni, come quello di
Milano, dato che hanno più personale precario che di ruolo. Si consideri,
inoltre, che molti dei precari hanno assunto ruoli che non erano previsti dal
contratto e hanno, con grande abnegazione, affiancato il personale di
cancelleria che in tutta Italia ha quasi 14 mila persone in meno”. Riflessioni e
richieste ribadite oggi da Todisco e da una delegazione dei manifestanti, a Lina
Di Domenico. La capa del Dog (Dipartimento organizzazione giudiziaria) di via
Arenula non ha nascosto le difficoltà per tenere tutti e 12 mila i precari anche
se ha assicurato che il ministero della Giustizia ci proverà.
Dalle trattative ufficiali con la capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi sia Usb che
Cgil sono escluse perché non hanno firmato il contratto nazionale delle funzioni
centrali ( ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici). Fino a
stamattina non c’era stato alcun incontro separato. “Era previsto un incontro
con la dottoressa Bartolozzi – ci racconta Todisco – il 27 ottobre alle 17, ma è
stato annullato la mattina. Annullato pure il secondo, del 10 novembre,
addirittura appena 30 minuti prima. Poi non siamo più stati chiamati. Oggi c’è
stata un’apertura del Dog, almeno a parole. L’apprezziamo, ma aspettiamo di
vedere i fatti. Se si vuol fare funzionare la giustizia non occorre la
separazione delle carriere ma un investimento soprattutto sul personale
amministrativo e le infrastrutture”.
Il prossimo 5 dicembre, invece, ci sarà sciopero nazionale dei lavoratori di
tutti i dipartimenti del settore Giustizia, indetto dalla Cgil. Il sindacato,
oltre alle “stabilizzazioni dei precari” e alla “programmazione delle nuove
assunzioni”, chiede “risorse aggiuntive” per gli amministrativi di ruolo che
hanno, tra l’altro, gli avanzamenti di carriera bloccati.
L'articolo Uffici giudiziari, i 12mila precari possono attendere: il governo ha
altre priorità proviene da Il Fatto Quotidiano.
È stato firmato il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei
metalmeccanici: Fiom, Fim e Uilm e Fedemerccanica-Assistal hanno trovato
un’intesa dopo il rush finale iniziato il 19 novembre. Tra i punti principali,
un aumento salariale medio complessivo di 205,32 euro, una somma che va oltre
l’inflazione prevista per gli anni di vigenza.
“È stata una trattativa molto sofferta, ma siamo riusciti a superare le distanze
e a firmare un buon contratto“, dichiarano i segretari generali di
Fim-Fiom-Uilm, Ferdinando Uliano, Michele De Palma e Rocco Palombella. “Abbiamo
salvaguardato – aggiungono nella nota congiunta – il potere d’acquisto delle
lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici e rafforzato diritti e tutele.
L’incremento salariale, l’inizio di una sperimentazione sulla riduzione
dell’orario di lavoro e la stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari erano
i nostri capisaldi e li abbiamo ottenuti”. “Oggi – concludono i sindacalisti –
possiamo dire di aver salvato il Ccnl che non ha mai smesso di essere sotto
attacco”.
Dopo quattro giorni di negoziato, nel pomeriggio di oggi 22 novembre, si è
arrivati alla firma per il rinnovo del CCNL 2025-28 che riguarda più di un
milione e mezzo di metalmeccanici. L’aumento mensile al livello medio (C3 ex
quinto livello) è di 205,32 euro, di cui la prima rata è stata già erogata l’1
di giugno 2025 (27,70 euro), a cui seguiranno le rate per i prossimi anni: 53,17
€ il 1° giugno 2026; 59,58 € il 1°giugno 2027; 64,87 € il 1° giugno 2028.
I minimi retributivi per il settore metalmeccanico sono: €2.158,26 nel 2025,
€2.211,43 nel 2026, €2.271,01 nel 2027 e €2.335,88 nel 2028. Questi importi
rappresentano degli aumenti progressivi nel corso di quattro anni. Ma sono
diversi i punti importanti dell’intesa: tra questi c’è anche l’aumento Flexible
benefit, da 200 a 250 euro annui.
Inoltre i lavoratori vedranno anche il rafforzamento della sicurezza e della
formazione, maggiori tutele per i lavoratori in appalto, tutela aggiuntiva per
le donne vittime di violenza, la conferma della clausola di salvaguardia che si
attiva in caso di inflazione superiore a quella preventivata e maggiori garanzie
per parità di genere e aumento della quota di contribuzione aziendale per la
previdenza complementare per le donne (0,2% in più, arrivando al 2,2%). Altro
tassello importante: la detassazione prevista dal Governo per i rinnovi
contrattuali, grazie all’innalzamento del limite a 35mila euro, riguarderà una
buona parte dei lavoratori metalmeccanici.
L'articolo Firmato il rinnovo del contratto dei metalmeccanici: aumento di 205
euro. Maggiori tutele, sicurezza e formazione proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sono solo due righe ma abbastanza ambigue da scatenare un putiferio. I sindacati
non hanno dubbi: sono la pietra tombale sul futuro dell’Ilva e il governo non ha
voluto chiarire il loro significato. Da marzo 2026 “sarà comunque necessario
fare ulteriori interventi, auspicabilmente a cura del nuovo acquirente”, hanno
scritto i commissari nel “piano corto” che spiega come verrà tenuta in vita
l’acciaieria nei prossimi mesi. È tutta qui la radice di uno scontro che si
ingrossa di ora in ora con Fiom, Fim e Uilm sul piede di guerra e gli operai che
hanno scelto di occupare strade e tangenziali a Genova e Novi Ligure. Il
sospetto, insomma, è che non esista una strategia che vada al di là dei prossimi
tre mesi né ci sia la volontà di sostenere finanziariamente un impianto che
necessita di miliardi di euro per arrivare a una svolta ambientale e
occupazionale.
La sintesi più accalorata è quella del segretario della Uilm Rocco Palombella
che, accanto agli altri leader Michele De Palma e Ferdinando Uliano, a un certo
punto non si trattiene: “Marzo arriverà e tutte le sue cazzate verranno a
galla”. L’uomo in questione è il ministro delle Imprese Adolfo Urso, considerato
colui che sta portando il siderurgico verso la fine dopo tredici anni di
vertenza che nessun esecutivo ha mai risolto in maniera definitiva. “Il suo è un
piano di morte”, va ripetendo Palombella. De Palma (Fiom) lo paragona alla
regina Maria Antonietta e le sue famose brioche durante la crisi del pane in
Francia: “Ci dice che non ci saranno altre 1.500 in cassa integrazione perché
daranno loro la formazione. La realtà è che cambia sempre idea e ci manca di
rispetto”. Affonda perfino il più moderato dei tre, il numero della Fim Uliano:
“Vanno verso il ridimensionato, vogliono una mini-Ilva. Parla di improbabili
acquirenti, di alcuni non ci comunica neanche i nomi. La presidente del
Consiglio prenda in mano la situazione”. Il ministro è la figura più impallinata
nel day-after dell’ultimo incontro sulla vertenza a Palazzo Chigi, senza che
Giorgia Meloni abbia mai preso in mano il dossier, mossa che i sindacati
chiedono da tempo.
Lo stato dell’arte dice che è arrivato un passo indietro sull’aumento dei cassa
integrati, che faranno formazione fino a fine febbraio. Un pannicello caldo.
Perché non c’è un raggio d’azione che vada da marzo in poi. Non si fidano più,
guardano con sospetto ogni mossa. “Ci hanno certificato che l’1 marzo 2026 sarà
una sorta di lutto nazionale, scompariranno posti di lavoro – attacca Palombella
– Chiediamo ai partiti e alla premier di interessarsi a quanto sta accadendo”.
Il segretario della Fiom sottolinea invece come Urso abbia parlato di una
“decarbonizzazione veloce”, accelerata rispetto agli otto anni preventivati ad
agosto, ma “non risponde se è vero o no che de-finanziano Dri Italia”, la
società che si dovrebbe occupare della costruzione degli impianti necessari ad
alimentare i forni elettrici. “L’obiettivo è quello di fermare gli impianti –
aggiunge De Palma – Non c’è un piano industriale verso la decarbonizzazione,
quello presentato in estate non esiste più”.
Anche la gara di vendita finisce nel mirino. La scelta dell’acquirente – cioè
del privato che dovrebbe farsi carico di tutti quei lavori, e quindi di spese,
che il governo ha rimandato alla primavera del prossimo anno – è al limite del
tragicomico. Urso era entrato in una fase di negoziato in esclusiva con Baku
Steel, poi il tutto si è arenato facendo slittare la chiusura dell’iter che,
garantiva, sarebbe avvenuto entro il 2025. Quindi ha riaperto tutto,
ritrovandosi con le offerte di soli due fondi – Bedrock e Flacks – e ora
continua a tenersi aperte altre porte. Almeno a parole. “Parla di due nuove
offerte, ma non ci dice i nomi e nel frattempo tratta con Bedrock che nella sua
manifestazione di interesse prevede migliaia di esuberi”, rimarcano i sindacati.
De Palma è implacabile: “I lavoratori sono diventati il bancomat dell’azienda,
il governo non mette i soldi per la continuità produttiva”. La richiesta è
unanime: “Diciamo al governo: fermatevi. Meloni decida se imboccare la strada in
senso contrario come ha fatto Urso oppure se controsterzare. Intervenga lei e
tolga di mezzo questo piano di chiusura”. Il rischio dietro l’angolo e
condiviso: “L’Ilva è una questione strategica per i metalmeccanici e per
l’Italia. Lo scontro che si è aperto riguarda non solo i lavoratori, ma il
futuro industriale del Paese”.
L'articolo Ilva, gli “ulteriori interventi” e il “nuovo acquirente”: perché i
sindacati avvisano che quello di Urso è un “piano di morte” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
I lavoratori dell’ex Ilva a Genova hanno scelto di occupare lo stabilimento e
con i mezzi si sono mossi in corteo verso la stazione ferroviaria di Genova
Cornigliano, dove si terrà un presidio ad oltranza. L’assemblea dei lavoratori
in sciopero è durata pochi minuti: è stata scelta la strada della mobilitazione
per protestare “contro il blocco degli impianti del nord e il piano che prevede
l’aumento della cassa integrazione straordinaria fino a 6mila unità”. I
sindacati denunciano: “Sono mille i posti di lavoro a rischio a Genova”.
Armando Palombo, storico delegato Fiom Cgil della ex Ilva di Cornigliano, e
Stefano Bonazzi, segretario generale Fiom Cgil Genova, attaccano: “Il piano del
governo porta alla chiusura della fabbrica con la conseguenza che a Genova
abbiamo mille posti di lavoro a rischio, mille famiglie che rischiano di perdere
il loro sostentamento e la fine della siderurgia nella nostra città e nel
paese”. In una nota il sindacato sottolinea la “pesante situazione che investe
la siderurgia italiana e il sito industriale di Cornigliano”. “Dal primo gennaio
– proseguono Palombo e Bonazzi – saranno in 6mila a livello nazionale a trovarsi
in cassa integrazione e dal primo di marzo chiuderanno tutti gli impianti.
Chiediamo alle istituzioni locali di non stare in silenzio e di adoperarsi per
contrastare la decisione del Governo e impedire la chiusura di Cornigliano”.
L'articolo Ex Ilva a Genova, i lavoratori occupano lo stabilimento e si muovono
in corteo: “Mille posti di lavoro a rischio” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un “garante” segue l’altro: 150mila euro di penale comminati dalla Commissione
per la “Privacy” (con i voti dei consiglieri di destra ma anche del presidente
Pd e del membro Cinque Stelle) a Sigfrido Ranucci di Report per colpire la
libertà d’informazione; poi fino a 2 milioni di euro che la Commissione sugli
scioperi vorrebbe togliere alle 8 Confederazioni (Cgil, Usb, Cobas, Unicobas,
Cub ed altri) che hanno proclamato lo sciopero generale del 3 ottobre per Gaza e
a ognuna delle loro articolazioni di categoria (circa 40 differenti soggetti
giuridici). I “garanti” sono delle autocrazie, manganelli del governo e dei
poteri forti?
Nel merito dello sciopero, va detto che l’illegittima aggressione armata da
parte dello Stato di Israele contro imbarcazioni civili (diciotto delle quali
battenti bandiera italiana) in navigazione per Gaza, avvenuta il primo ottobre
(quando abbiamo proclamato lo sciopero), ha imposto l’obbligo morale di chiamare
i lavoratori italiani a manifestare con urgenza per l’incolumità e la sicurezza
dei cittadini e dei lavoratori imbarcati nella Global Sumud Flotilla, impegnati
in azioni umanitarie di solidarietà verso la popolazione palestinese, vittima,
come ritenuto dall’Onu, per due anni, di un attacco militare indiscriminato che
ha ucciso 80mila persone, prevalentemente civili, fra le quali almeno 20mila
minori, con centinaia di migliaia di feriti privati persino di medicinali, cibo
e acqua potabile.
Dunque, anche per la rapida successione degli avvenimenti, doveva applicarsi
l’art. 2, comma 7, della L. 146/1990 sul diritto di sciopero che esime da regole
e preavviso quando si tratta di difendere i principi costituzionali. La delibera
restrittiva del 2.10.2025 della Commissione di Garanzia contraddice lo spirito
della norma.
Il 3 ottobre si trattava di spingere il governo italiano a proteggere quanti
erano sulla Flotilla, almeno fino al limite convenzionale di 12 miglia dalla
costa, in acque territoriali impropriamente gestite da Israele di fronte alla
striscia di Gaza (entità palestinese). La Marina Militare, della quale sarebbe
bastata la mera presenza, ha seguito gli eventi soltanto fino a 150 miglia dalla
costa, per poi abbandonare i naviganti (ed i propri cittadini) in balia di
Israele, che aveva annunciato di voler trattare i componenti della Flotilla come
“terroristi”. L’illegale abbordaggio, con il sequestro ad armi spianate delle
persone e dei natanti, è infatti avvenuto in acque internazionali, fra le 60 e
le 70 miglia marine dal terra: un vero e proprio atto di pirateria, vietato dal
diritto internazionale, con precise regole d’ingaggio vincolanti anche per il
nostro Paese.
Lo sciopero generale risultava l’unico strumento per consentire ai lavoratori
italiani di esprimersi immediatamente contro la connivenza del governo italiano,
nonché contro l’aggressione dello Stato di Israele al Popolo Palestinese e ai
suoi sostenitori, a cominciare dai membri della Flotilla. Il governo non ha
seguito le prescrizioni costituzionali, eludendo il ripudio della guerra e
sostenendo uno stato aggressore. Sinergie militari con Israele, scambi
commerciali e di materiale bellico coinvolgenti società e imprese italiane,
anche pubbliche o partecipate, considerata l’indiscriminata violazione del
diritto internazionale, avrebbero dovuto (e devono) essere interrotti. Ma
l’Italia ha votato in sede Ue contro qualsiasi sanzione ad Israele ed ha
rassicurato Netanyahu quando gli è stato spiccato contro un mandato d’arresto
internazionale.
Costituzionalmente, l’astensione collettiva dal lavoro è uno degli strumenti a
tutela dei diritti inviolabili: libertà di espressione e partecipazione
sindacale e politica, di opinione e di manifestazione. Senza lo sciopero i
lavoratori italiani non avrebbero potuto manifestare tempestivamente durante
l’orario lavorativo. Tale esigenza è stata confermata dall’enorme presenza di
piazza in tutto il territorio nazionale.
Infine, il procedimento della Commissione di Garanzia non è solo giuridicamente
viziato e volutamente repressivo, ma risulta persino raffazzonato. La premura
persecutoria, caldeggiata fra gli altri dal ministro Salvini, ha indotto la
Commissione in errori madornali.
Oltre ad un preavviso di 2 giorni anziché 10, viene contestato il mancato
rispetto dei termini di interruzione con piccoli scioperi locali e di settore
già previsti da organizzazioni diverse, quando in passato la medesima
Commissione ha considerato lo sciopero generale “assorbente” e prevalente sugli
altri. Ma il massimo dell’improvvisazione sta nel contestare alla Cib Unicobas
uno sciopero nei trasporti, mai proclamato onde evitare ai lavoratori i rischi
legati alla minacciata precettazione.
Poi l’Unicobas Scuola e Università, sindacato autonomo e distinto (che ha
evitato la proclamazione esistendo già una regolare indizione per il comparto da
parte del SiCobas), viene chiamato in causa come la Cib Unicobas, unico ente
proclamante. L’Unicobas Scuola è attivo in un settore ove lo sciopero è stato
considerato legittimo: sarebbe stato controproducente metterlo a rischio con
un’ulteriore inutile indizione fuori dai termini di legge. La confusione ci
espone ad un raddoppio della sanzione.
Quanti hanno a cuore la libertà d’espressione, la democrazia ed il diritto delle
organizzazioni sindacali di indire scioperi quando questo è decisivo, e quello
dei lavoratori di aderirvi, devono vigilare attentamente sulla conclusione di
queste inaudite vicende. Anche per questo il sindacalismo di base sciopera di
nuovo il 28 novembre.
L'articolo Scioperi e libertà d’informazione: dov’è la terzietà dei “Garanti”?
proviene da Il Fatto Quotidiano.
È solo rimandata la norma che ridurrà (ancora) il diritto di sciopero nei
trasporti. L’emendamento del senatore di Fratelli d’Italia Matteo Gelmetti, che
avrebbe obbligato i lavoratori a comunicare con almeno sette giorni di anticipo
l’eventuale adesione agli scioperi, è stato ritirato dalla legge di Bilancio, ma
sarà ripresentato come provvedimento apposito. Non si trattava dell’iniziativa
di un singolo, ma di una causa sposata del tutto dal partito di Giorgia Meloni.
Infatti in questi giorni l’ufficio studi di FdI ha inviato ai suoi parlamentari
un documento in cui vengono spiegate le “ragioni” dell’intervento.
La nota è stata redatta sotto la supervisione del sottosegretario Giovanbattista
Fazzolari, braccio destro della premier. Nell’introduzione spiega che il ritiro
dell’emendamento è stato “strumentalizzato da certe stampa e opposizioni”, ma
l’unico motivo è appunto che si tratta di “materia ritenuta particolarmente
complessa”, che quindi “necessita di una proposta di legge ad hoc e un confronto
parlamentare più approfondito”. Il succo è questo: il diritto di sciopero nei
trasporti ha un impatto rilevante su libertà di circolazione e sicurezza. La
legge 146 del 1990 già oggi limita questo diritto, ma – dice l’ufficio studi di
Fratelli d’Italia – quella legge “funzionava correttamente in un contesto
storico dominato da grandi organizzazioni sindacali, capaci di mobilitare una
larga parte dei lavoratori”.
La nota svela quindi i veri bersagli della norma proposta: i sindacati di base,
di solito più conflittuali di Cgil, Cisl e Uil. “Oggi – prosegue – la scenario è
mutato: scioperi a bassa partecipazione (spesso inferiori al 5%) sono promossi
da una crescente frammentazione sindacale, con sigle autonome che utilizzano lo
sciopero anche come strumento di visibilità. Nonostante l’adesione minima, le
aziende di trasporto riducono comunque i servizi ai livelli minimi previsti
(fino al 50% come previsto per legge), causando disagi sproporzionati per i
cittadini”.
FdI sostiene quindi che oggi, anche quando l’adesione a uno sciopero è bassa, le
aziende riducono di molto il servizio. Per cui serve l’obbligo di adesione
preventiva allo sciopero, così da far sapere il numero di scioperanti in
anticipo e modulare il servizio. Sul piano politico, è un evidente tentativo di
Fratelli d’Italia di invadere il terreno di propaganda solitamente battuto dal
leader della Lega Matteo Salvini, che da ministro dei Trasporti usa spesso la
precettazione per mettere chi sciopera contro gli utenti del servizio.
La norma, però, pone molti dubbi di legittimità. Secondo il costituzionalista
Gaetano Azzariti, “ci sono tutti i presupposti per dichiarare
l’incostituzionalità”. “Bisognerà vedere il testo che approveranno -, aggiunge –
l’ultima parola l’avrà la Consulta. Io non do patenti di costituzionalità o
incostituzionalità, ma se è vero che si parla di introdurre un preavviso di
sette giorni, si va a toccare il nucleo duro del diritto di sciopero”. Il
docente ricorda che, pur non essendo intervenuto per legge, il governo Meloni ha
già ridotto di fatto il diritto di sciopero: “L’interpretazione che si sta
facendo della legge sullo sciopero nei servizi pubblici è la più restrittiva che
io conosca. – spiega – Lo strumento della precettazione non è di per sé
incostituzionale, ma ha avuto una interpretazione estensiva che non si è mai
visto in passato. Si continuano a mettere paletti e delimitazioni che rendono
difficile soprattutto per il pubblico impiego”
L’obbligo di comunicare preventivamente l’adesione sarebbe quindi una ulteriore
limitazione. E non basta tirare in ballo il diritto dei cittadini di spostarsi.
“La legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici c’è già – insiste
Azzariti -, non stiamo negando che ci debba essere, ma deve esistere un
bilanciamento e il problema è che qui c’è uno sbilanciamento, si impedisce
l’esercizio di un diritto a fronte di altre libertà. Ricordo che il diritto di
sciopero è un diritto rafforzato perché a tutela del diritto del lavoro”.
Insomma, conclude il docente, “non esistono diritti tiranni, ma in questo caso
l’equilibrio si traduce in squilibrio, il bilanciamento in sbilanciamento e si
tende a intaccare il nucleo duro dell’esercizio del diritto di sciopero, il
preavviso di sette giorni non è ragionevole. Ripeto: ci sono tutti i presupposti
perché si arrivi alla Corte Costituzionale e poi vediamo che succede”.
L'articolo Scioperi, Meloni invade il campo di Salvini: in arrivo legge ad hoc
sull’obbligo di comunicare l’adesione in anticipo proviene da Il Fatto
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