di Tobia Davico
Dopo l’assassinio dell’attivista Maga Charlie Kirk, si sono spese tante parole
per celebrarlo o per condannarlo. I Repubblicani hanno immediatamente
santificato Kirk come martire della libertà di parola, mentre parte del mondo
Dem gli rinfacciava di aver causato da sé la propria tragica fine, avendo
promosso per anni posizioni reazionarie e divisive. Il discorso mainstream –
anche in Italia – non è mai andato al di là di questo livello molto superficiale
di analisi. La verità è che, se analizzato a fondo, il caso Kirk offre una
chiave di lettura per comprendere una spaccatura molto profonda e significativa
in atto nel mondo Maga.
La versione ufficiale fornita dall’Fbi vede un unico colpevole, un lone shooter
come se ne sono visti tanti nella storia degli omicidi politici in America (vedi
il caso Jfk). Non solo, l’accusato Tyler Robinson sarebbe il nemico perfetto per
il mondo Maga: proviene da una famiglia conservatrice, da cui però ha preso le
distanze; è descritto nella narrazione mediatica come un “estremista di
sinistra” radicalizzato online, che convive con un fidanzato queer in fase di
transizione. Insomma: ecco il capro espiatorio, caso risolto.
Eppure, una larga maggioranza del mondo trumpiano (ma anche molti “a sinistra” o
tra gli indipendenti) non crede a questa versione dei fatti. Le ragioni sono
molteplici. Per dirne una: il direttore dell’Fbi, Kash Patel, già non gode di
buona fiducia a causa della gestione confusa e contraddittoria del caso Epstein,
che ha causato un vero scossone tra i Repubblicani. Basti sapere che c’è ragione
di ritenere che Epstein fosse legato al Mossad; e questo è uno dei temi chiave.
Ma questo è solo uno degli aspetti di uno smottamento più profondo, uno shift
culturale nel mondo repubblicano rispetto alle influenze israeliane sulla
politica Usa, in contrasto con l’agenda America First.
Dopo il 7 ottobre, numerose voci molto popolari nell’ecosistema mediatico Maga
hanno assunto posizioni nettamente critiche nei confronti di Israele. Due su
tutti: Candace Owens e Tucker Carlson. Candace, amica di vecchia data e
collaboratrice di Kirk, è stata cacciata dall’outlet sionista The Daily Wire e
da Turning Point Usa (Tpusa), dando vita a un proprio show indipendente ora tra
i più seguiti al mondo; Carlson, già bandito da Fox News per le sue posizioni
anti-interventiste sull’Ucraina, è stato ulteriormente ostracizzato
dall’establishment repubblicano. Eppure le loro voci rimangono estremamente
influenti. I recenti sondaggi su Israele mostrano un crollo nella base
elettorale repubblicana che qualche anno fa era impensabile. Specialmente tra i
repubblicani nella fascia under 30, il supporto per Israele è ormai una
posizione di netta minoranza.
E qui torniamo al caso Kirk: infatti proprio questo era ed è il pubblico di
Tpusa, i giovani conservatori di età universitaria. Nell’ultimo anno Kirk ha
percepito ed accolto questa ondata di scetticismo rispetto ai rapporti tra gli
Usa e lo stato di Israele. Lo stesso Kirk, che aveva sempre mantenuto una
posizione di default pro-israeliana (anche per il suo orientamento cristiano
evangelico) aveva nell’ultimo anno iniziato ad assumere sul tema una postura
prima solo moderatamente critica e via via sempre più netta. Sul suo show ha più
volte messo in dubbio la narrazione sul 7 ottobre, insinuando che il governo di
Netanyahu l’abbia volontariamente lasciato accadere per perseguire i propri
scopi; e ha sollevato forti dubbi circa il fatto che il supporto americano alla
macchina bellica israeliana possa essere sempre giustificato e in linea con i
reali interessi americani (certo, è una critica ”da destra”). A giugno, con
l’aggressione israeliana ai danni dell’Iran, Kirk ha espresso la sua assoluta
contrarietà al coinvolgimento americano su questo fronte; tanto da chiedere con
urgenza un incontro con Trump alla Casa Bianca per convincerlo a non farsi
ulteriormente trascinare dalle politiche folli di Netanyahu. Tucker Carlson
riporta che Trump cacciò Kirk da quell’incontro a male parole.
Quest’estate ha destato scandalo per aver ospitato lo stesso Carlson ad un
importante evento di Tpusa in Florida, durante il quale il giornalista ha
esplicitamente denunciato il controllo che i sionisti esercitano sulla politica
americana, citando fra gli altri temi proprio il caso Epstein. Poco dopo Kirk ha
ospitato un dibattito sul tema tra Josh Hammer, noto giornalista
filo-israeliano, e Dave Smith, comico e opinionista ebreo anti-sionista. In
questa fase, poco prima della sua morte, Charlie Kirk ha denunciato a più
riprese di stare ricevendo fortissime pressioni, “bullismo”, minacce da parte
dei miliardari sionisti che finanziano Tpusa, che pretendevano facesse marcia
indietro su questa “apertura” a posizioni “anti-israeliane”. Candace Owens ha di
recente pubblicato messaggi privati in cui Kirk dichiarava di non poter
accettare questo tipo di ricatto morale e di sentirsi “costretto ad abbandonare
la posizione pro-israeliana”.
La traiettoria di Kirk nell’ultimo anno è molto chiara. E le stranissime
reazioni dell’ecosistema mediatico ultrasionista hanno destato nella base Maga
(e non solo) molti sospetti di un plausibile coinvolgimento israeliano nel suo
omicidio – a partire dalla santificazione di Kirk come fedele difensore della
causa israeliana, che lo stesso Netanyahu ha promosso immediatamente dopo
l’attentato, ignorando appunto gli evidenti contrasti degli ultimi mesi.
Certamente Kirk è più utile da morto che da vivo alla causa sionista.
Al di là degli sviluppi che forse emergeranno da questo caso, resta un fatto
cruciale. Vale a dire: questa rottura nella destra americana è in atto e pare
irreversibile. Nonostante gli sforzi dell’apparato mediatico di sistema
nell’oscurare questa realtà, nell’opinione pubblica statunitense un fronte
anti-sionista trasversale a tutto l’arco politico sta prendendo forma. E questo
è un fatto epocale.
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Kirk pare irreversibile proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Repubblicani
Quello di Fox News è solo l’ultimo dei sondaggi che evidenziano le difficoltà
del presidente americano Donald Trump. Ma il dato è significativo perché sul
fronte dell’economia il Tycoon fa addirittura peggio del suo predecessore, il
democratico Joe Biden, quando era a fine mandato. Secondo il sondaggio della
rete di Rupert Murdoch, che non può certo dirsi vicina ai dem, il 76% degli
elettori ha un’opinione negativa sull’economia statunitense, contro il 70% di
Biden a fine corsa. Il 62% imputa all’attuale amministrazione le responsabilità
della situazione economica, e solo il 32% che dà la colpa a Biden. In un clima
di generale incertezza, a pesare sarebbero soprattutto i prezzi. “Un numero
elevato di persone, sia in generale che tra i repubblicani, afferma che
quest’anno i costi per generi alimentari, utenze, assistenza sanitaria e
alloggio sono aumentati”, scrive Fox News. Lo sconforto degli elettori riguarda
entrambi gli schieramenti, ma “la disapprovazione per l’operato complessivo di
Trump ha raggiunto livelli record tra i suoi sostenitori più fedeli”, scrive
l’emittente.
La disapprovazione verso l’operato di Trump si registra soprattutto tra uomini
bianchi e persone senza laurea. L’86% dei repubblicani esprime ancora un
giudizio positivo, ma in calo rispetto al 92% del marzo scorso. Nel complesso
dell’elettorato, il 41% approva e il 58% no. Due mesi fa erano 46-54% e peggio
di così è andata solo nell’ottobre 2017, durante il primo mandato di Trump,
quando si attestavano al 38-57%. Quanto alla propria condizione economica
personale, col 60% che la descrive appena sufficiente o negativa, in linea con
l’anno precedente, le valutazioni sono particolarmente sfavorevoli (70%
negative) tra chi non ha un titolo universitario, gli ispanici, gli
afroamericani, gli indipendenti e gli under 45. Tra gli elettori con un reddito
familiare sotto i 50 mila dollari, chi giudica negativamente la propria
situazione finanziaria arriva al 79%.
Ma la MAGAnomics inizia a stare stretta anche a chi ha stipendi più alti.
Secondo un nuovo studio pubblicato da The Harris Poll, un terzo di coloro che
guadagnano almeno 100 mila dollari l’anno afferma di essere “in difficoltà o
finanziariamente al collasso”. Metà degli intervistati afferma che il tanto
accarezzato “sogno americano” di lavorare sodo per andare avanti sembra sempre
più irraggiungibile, “rivelando una generazione di professionisti che hanno
ottenuto tutto sulla carta ma si sentono in difficoltà finanziarie”. In
particolare si punta il dito contro gli aumenti per generi alimentari, alloggio
e assistenza sanitaria, tanto che vacanze, benessere personale e persino i
risparmi per la pensione sarebbero sempre più cose “belle da avere” piuttosto
che un risultato affidabile da ottenere con il duro lavoro. “Il 10% più ricco
sta silenziosamente lottando, quindi cosa succede al restante 90%?”, si domanda
il rapporto. Il risultato segue di appena due mesi un altro sondaggio del Wall
Street Journal che ha rilevato come quasi il 70% delle persone ritenga che il
sogno americano – secondo cui se lavori duro, andrai avanti – non sia più vero o
non lo sia mai stato: il livello più alto in quasi 15 anni di sondaggi.
Alle politiche dei repubblicani targate Trump gli elettori concedono il primato
su sicurezza dei confini, immigrazione e criminalità, ma attribuiscono ai
democratici una maggiore efficacia su politiche climatiche, costo della vita,
retribuzioni e sanità. Questioni che sembrano spingere i dem nei consensi. Un
nuovo sondaggio dà loro il margine più ampio di gradimento sui repubblicani dal
2017. Secondo l’ultima proiezione di Npr (National Public Radio), Pbs News
(Public Broadcasting Service) e Marist (Centro di ricerca sull’Opinione Pubblica
della Marist University), i candidati democratici hanno il 14% di probabilità in
più di essere sostenuti alle elezioni del Congresso del prossimo anno. Per
ritrovare una percentuale del genere bisogna tornare alla vigilia delle Midterm
del 2018, quando si aggiudicarono 40 seggi. Il tema dell’accessibilità economica
è una questione prioritaria per quasi il 60% degli intervistati. Sempre secondo
questo sondaggio, ci sarebbe poi una diffusa antipatia per il presidente, col
suo indice di gradimento, pari al 39%, che è il più basso tra tutte le
rilevazioni Marist condotte durante il suo secondo mandato.
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molti elettori “il sogno americano è finito” proviene da Il Fatto Quotidiano.