Quasi nello stesso momento nel quale si festeggiava l’assegnazione alla cucina
italiana del riconoscimento Unesco di patrimonio dell’umanità, i dati Istat
gelavano il vuoto ottimismo governativo sullo stato dell’industria.
Dopo quasi due anni di calo continuativo della produzione industriale, nello
scorso mese di settembre c’era stata un ripresa. La crisi è industriale è
finita, avevano subito proclamato i seguaci di Giorgia Meloni, che prima avevano
negato l’esistenza stessa della crisi. Invece i dati di ottobre hanno registrato
un nuovo calo per tutti i settori manifatturieri, non compensato dalla tenue
crescita del settore dell’energia. Si è così confermata la tendenza di fondo
alla stagnazione e contrazione del sistema industriale italiano, una tendenza
che è lo specchio della regressione economica e sociale complessiva del paese.
L’Italia è ancora il secondo paese industriale d’Europa, dopo la Germania. Ma la
crisi è aggravata proprio dalla subordinazione del nostro sistema produttivo a
quello tedesco, entrato in una fase di stagnazione e recessione strategica. A
peggiorare la situazione c’è qui la distruzione dell’industria automobilistica,
la cui produzione crolla più del 20%.
Nessun grande paese industriale al mondo è privo di una forte industria dei
mezzi di trasporto e giganteschi sono gli investimenti nel settore per la
riconversione elettrica. L’Italia, per colpa della famiglia Agnelli Elkann e di
tutte le complicità politiche con essa, ha venduto o smantellato non solo le
fabbriche di auto, ma anche quelle dei veicoli industriali e dei treni. Ora ciò
che resta in casa nostra è il residuo dei disegni di ristrutturazione delle
multinazionali estere: Stellantis per le auto, Tata per i camion, sono qui solo
per chiudere.
In Italia gli addetti al sistema produttivo manifatturiero sono ancora 5,5
milioni e pensare di salvare l’occupazione con qualche migliaio di posti in più
nella produzione di armi non è solo criminale, ma è stupido. Altrettanto stupido
è pensare che l’occupazione industriale possa essere rimpiazzata da quella
creata dal turismo, magari anche grazie al riconoscimento Unesco. A parte il
fatto che l’occupazione nei servizi del turismo e della ristorazione è in Italia
è tra quelle che fanno più precipitare in basso i salari, anche il turismo se
non pianificato e gestito può diventare devastante. Le città non reggono il
modello turistico invasivo e deregolato: questo può provocare danni come
l’industria più inquinante.
Ciò che va messo in discussione, nel turismo come nell’industria e in tutta
l’economia, è la rinuncia colpevole del potere pubblico alla pianificazione, al
controllo e all’intervento diretto rispetto al mercato. Il lasciar fare
liberista dei passati governi di centrosinistra e ora di quello di destra,
sempre più subalterno ai vincoli dell’austerità europea, non solo non ha risolto
la crisi, ma l’ha aggravata. Il sistema industriale italiano ha avuto il massimo
sviluppo quando era composto da una forte industria pubblica e da grandi gruppi
privati, sostenuti da un sistema bancario a maggioranza pubblica. Tutto questo
oggi non c’è più e non solo dal lato dello stato, ma anche da quello dei
privati. La borghesia italiana, salvo poche eccezioni, ha svenduto le fabbriche
alla finanza e alle multinazionali, esattamente come aveva fatto lo stato, ma a
differenza del sistema pubblico ha accumulato ricchezza, spesso con domicilio
fiscale estero.
Una ripresa produttiva equilibrata non può fondarsi sull’imprenditoria privata,
né tantomeno sulle multinazionali, che hanno dato ampia prova negativa, ma
sull’intervento pubblico diretto e sulla pianificazione economica. Altrimenti il
degrado dell’industriale diventerà sempre di più degrado e frantumazione sociale
del paese, con il Mezzogiorno che andrà sempre peggio e con le zone
deindustrializzate del Nord che diventeranno come il Mezzogiorno. L’Italia
scivolerà verso il sottosviluppo, con un’economia fondata sul terziario
turistico e su posti di lavoro precari a mal pagati. L’Italia precipiterà verso
quel modello di sviluppo coloniale da cui si sono emancipati la Cina, l’India e
tanti paesi di quello che una volta veniva definito “terzo mondo”.
Gli operai dell’Ilva che hanno bloccato Genova e che sono in lotta a Taranto
oggi indicano la via a tutto il paese: bisogna bloccare la chiusura delle
fabbriche e pretendere che lo stato intervenga per la continuità produttiva. Il
sindacalista della Usb licenziato alla ex Jabil di Caserta perché faceva il suo
dovere mostra tutto l’imbroglio di soluzioni industriali raffazzonate e affidate
a imprenditori privati. Lo stessa dimostrazione viene dalla resistenza degli
operai della Gkn.
Non si salveranno gli occupati e gli stabilimenti di Stellantis e di tante altre
realtà industriali senza una netta rottura con le politiche del passato. Ci
vuole una politica economica e industriale dello Stato che impedisca e prevenga
la chiusura delle fabbriche e per ottenerla sono necessarie lotte operaie
radicali. Per bloccare la deindustralizzazione bisogna “bloccare tutto”.
L'articolo Nuova contrazione del sistema industriale italiano: l’unico modo per
salvarlo è bloccare tutto proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Produzione Industriale
L’industria italiana è alle corde. A ottobre l’indice destagionalizzato della
produzione industriale è diminuito ancora, dell’1% rispetto a settembre e dello
0,3% su base annua. E la media del trimestre agosto-ottobre segna un decremento
dello 0,9% rispetto ai tre mesi precedenti, stando alle rilevazioni dell’Istat.
“Il rimbalzo di settembre era solo un effetto tecnico dovuto al crollo di
agosto: nulla ha interrotto la tendenza negativa”, commenta il segretario
confederale della Cgil Gino Giove. “La realtà è ben diversa dalla narrazione del
governo e del Ministro Urso, che restano assenti“.
“Dato pessimo”, aggiunge Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale
Consumatori. “Il ribasso maggiore si registra per i beni di consumo. Ennesima
prova del fatto che se le famiglie non hanno soldi, i commercianti non vendono e
le imprese non producono”. Il leader M5s Giuseppe Conte dal canto suo chiosa:
“Trentaduesimo crollo della produzione industriale su 36 mesi rilevati durante
il governo Meloni. Ci vuole talento!. Il presidente del Consiglio non ha niente
da dire su questo disastro? Hanno presentato una manovra che – per stessa
ammissione del Ministero dell’Economia – ha impatto nullo sulla già misera
crescita. Senza i 209 miliardi del Pnrr ora saremmo in recessione“.
I DATI ISTAT: CROLLI PER CHIMICA E TESSILE-ABBIGLIAMENTO
Su base annua, “anche l’indice corretto per gli effetti di calendario è in
flessione. Ad eccezione dei beni intermedi, tutti i principali settori di
attività mostrano riduzioni rispetto all’anno precedente”. Si registra un
aumento tendenziale solo per i beni intermedi (+1,1%) mentre mostrano un calo i
beni consumo (-2,0%), i beni strumentali (-0,7%) e l’energia (-0,2%). Le
flessioni più ampie si rilevano nella fabbricazione di prodotti chimici (-6,6%),
nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-5%), nella
fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-4,6%) e nei mezzi di
trasporto (-3,5%), mentre vanno bene l’attività estrattiva (+5,2%), la
metallurgia e fabbricazione di prodotto in metallo (+2,7%) e la fabbricazione di
articoli in gomma e materie plastiche (+2,1).
“GOVERNO ASSENTE SULLE CRISI INDUSTRIALI”
“Sulla chimica di base – denuncia Giova – il governo non ha semplicemente
sbagliato: ha scelto consapevolmente di non intervenire, lasciando depauperare
un settore strategico per tutte le filiere manifatturiere. Per quanto riguarda
l’acciaio, dopo anni di promesse, non c’è ancora una decisione seria. E
nell’automotive assistiamo a una totale sudditanza nei confronti delle imprese,
che decidono tagli, delocalizzazioni e riduzioni di volumi senza strategia
nazionale né alcun reale indirizzo pubblico”. Inoltre, aggiunge, “le tante crisi
aziendali vanno affrontate nel quadro di una più complessiva politica
industriale e non semplicemente con l’uso di ammortizzatori sociali“. “Se il
compito del Governo è quello di garantire stabilità, affidabilità e credibilità,
sarebbe opportuno cambiare rotta, a partire dalla legge di bilancio 2026. Per
questo la Cgil ha proclamato lo sciopero generale del 12 dicembre: in tutte le
piazze italiane i lavoratori e le lavoratrici chiederanno lavoro stabile,
investimenti, futuro”.
L'articolo Produzione industriale giù dell’1% a ottobre. “Disastro, è il
trentaduesimo crollo su 36 mesi di governo Meloni” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Su diciotto settori industriali, in Europa uno solo è in crescita: l’aerospazio.
Tutti gli altri diciassette sono fermi se non addirittura in preoccupante calo,
in particolare l’automotive e l’acciaio che interessano da vicino l’Italia, alle
prese con la produzione ai minimi di Stellantis e la morte annunciata dell’Ilva.
Persino il comparto della difesa, che pure sta ricevendo la spinta dei piani di
riarmo, sconta la difficoltà di essere troppo permeato dagli Stati Uniti. A
Bruxelles è stato presentato il report realizzato da Syndex per IndustriAll, il
sindacato europeo dei metalmeccanici. Il documento ha un titolo che non si serve
di giri di parole: Ending european naivety, ovvero “finiamola con l’ingenuità
europea”. Scatta una drammatica fotografia dello stato della manifattura nei
Paesi Ue e chiede alle istituzioni di intervenire con una cura choc per evitare
il tracollo, visto che al momento ci sono oltre 4 milioni di lavoratori
interessati da ammortizzatori sociali.
PROBLEMI IN TUTTI I REPARTI
Volendo prendere in prestito la metafora calcistica, l’industria europea può
essere descritta come una squadra che ha problemi in tutti i reparti.
Innanzitutto in attacco, perché l’austerità fiscale blocca gli investimenti e
comprime i consumi interni. Poi in difesa, perché ci sono pochi e inefficaci
strumenti per proteggere le nostre fabbriche dalla concorrenza cinese e
americana, dal dumping salariale e dalla eccessiva dipendenza energetica.
Infine, è del tutto carente quello che potremmo definire il settore giovanile:
gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione sono troppo bassi, l’età
media della forza lavoro è elevata e si fa fatica a favorire il ricambio
generazionale.
UE A RISCHIO DESERTIFICAZIONE
Insomma, senza un drastico cambio di rotta si rischia una perenne
desertificazione industriale. Sorride solo l’aerospazio, che va meglio dei suoi
competitori statunitensi e molto meglio di quelli cinesi. L’industria del solare
è stata annientata dalla Cina, così come Pechino domina quella delle componenti
per le telecomunicazioni. E ancora, la farmaceutica è sotto pressione da parte
degli Stati Uniti, oltre che dipendente da Cina e India. Questa situazione è
definita dal sindacato “una precisa scelta politica”, dettata soprattutto dal
patto di stabilità che pone un freno agli investimenti e alla domanda interna.
Ecco perché IndustriAll chiede di tornare a sospendere la stretta fiscale, come
fatto durante il Covid.
L’URGENZA? I COSTI DELL’ENERGIA
L’urgenza è rappresentata dal capitolo energia. I costi sono determinati dal
ristretto mercato del gas e l’Europa sta assorbendo la costosa crescita
dell’offerta americana, anche se continua a consumare gas e petrolio russi. La
transizione ecologica è una sfida fondamentale e, secondo gli autori del report,
bisognerebbe programmarla facendo sì che porti con sé nuove assunzioni. Anche da
questo punto di vista va contraddetto il luogo comune per cui una maggiore
regolamentazione rallenta lo sviluppo: anzi è “ironico” che mentre l’Europa
tenta di ridurre la regolamentazione, la Cina introduce nuovi standard di
sostenibilità.
INDUSTRIALL CHIEDE LA DIFESA DEL MERCATO INTERNO
Si diceva della carenza difensiva dell’Europa: ci sono pochi mezzi per
contrastare le importazioni da Paesi che attuano il cosiddetto dumping, per
esempio utilizzando fonti inquinanti e non riconoscendo diritti e giuste
retribuzioni a chi lavora. Ecco perché il rapporto IndustriAll chiede una
maggiore difesa del mercato interno, rendendo “non gratuito” l’ingresso di
merci. Il riferimento è alla possibilità di inasprire le tariffe per far entrare
prodotti realizzati con alto apporto di carbonio, quindi rendere ancora più
severo il Cbam (Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere) che oggi
regola la materia.
ANCHE LA RICERCA PERDE TERRENO
Anche nella ricerca l’Europa sta perdendo terreno: è messa bene per quanto
riguarda quella di base, ma non in quella cosiddetta applicata. Mentre negli
Stati Uniti l’obiettivo è stato aumentare la capacità produttiva, nel nostro
continente ci si è concentrati più sulla sostituzione. Ma soprattutto,
l’atteggiamento europeo è ancora focalizzato sulla gestione di una crisi, e non
tanto sulla pianificazione dello sviluppo. Le diverse normative nazionali sul
mercato del lavoro aggravano la carenza di manodopera competente.
LA RICHIESTA: AIUTI SOLO SE PROFITTI REINVESTITI
C’è anche un passaggio sul rapporto tra la finanza e l’industria. Il rapporto
del sindacato sostiene che in Europa i profitti non vengono reinvestiti, e che
il nostro continente è il primo per distribuzione degli utili agli azionisti.
Ecco perché l’altra proposta è creare una condizionalità negli aiuti pubblici:
non concederli a pioggia ma vincolarli a investimenti in occupazione, formazione
e ricerca.
LE REGOLE INTERNE NON FANNO BARRIERA
In definitiva, il rapporto racconta l’industria europea come un settore
stritolato da due superpotenze come Cina e Stati Uniti, interventiste e
protezioniste. Le regole interne inceppano gli investimenti e non pongono
barriere alle “minacce” esterne sul piano energetico e del dumping ambientale e
salariale. Vale la pena ricordare, al di là dello studio europeo, che il caso
italiano è emblematico: da due anni il dato sulla produzione industriale è in
calo, al netto di qualche ripresa occasionale. A pesare sono le questioni più
spinose, ex Ilva e Stellantis.
L’AUTO IN LOTTA PER LA SUA SOPRAVVIVENZA
Proprio l’automotive è uno dei settori più indagati dal report. La produzione di
veicoli è diminuita in “maniera preoccupante” nel 2024 con un calo del del 6,1%
e si prevede un’ulteriore diminuzione nel 2025, mentre i cinesi trainano i
volumi mondiali con un numero di vetture assemblate che ha superato la richiesta
del mercato interno nel 2021 e lo scorso anno era superiore del 15%. Una
tendenza che – secondo IndustriAll – non si arresterà negli anni a venire. Il
comparto è definito “sotto minaccia” dal sindacato europeo con impatti a valle
sull’intera catena: i produttori automobilistici europei stanno “lottando”, si
legge nel report, nel quale gli autori avvisano che il “picco dell’onda non è
ancora arrivato”. Il rischio è che diversi pezzi della filiera “non
sopravvivano”.
LE CINESI IN UE SÌ, LE AUTO EUROPEE LÌ NO
Anche perché in futuro, stando ai dati, si rischia un’invasione cinese. L’ascesa
dei marchi di Pechino sembra inarrestabile: IndustriAll fa notare che i
produttori automobilistici del Paese asiatico sono in crescita (6 gruppi cinesi
sono ora nella Top 20 delle immatricolazioni europee e BYD è nella Top 10),
mentre le vendite dei produttori stranieri in Cina sono in calo. Quando la quota
di elettrico aumenterà (oggi è al 17%), il trend rischia di impennarsi
definitivamente perché l’offerta di veicoli senza motori endotermici da parte
delle cinesi sta raggiungendo o superando quella dei produttori occidentali.
LA PERDITA DI KNOW HOW, UNO SCENARIO PLAUSIBILE
La conclusione è drammatica nel lungo periodo, non solo per le materie prime
legate alle batterie, ma anche perché la ricerca e sviluppo – secondo il
sindacato – è minacciata a causa dell’attrattiva crescente delle piattaforme
ideate in Cina e India, che consentono uno sviluppo più rapido a costi
inferiori. Il rischio è che vada totalmente disperso il know how. Se il settore
automobilistico europeo continuerà a ridurre le sue capacità di produzione e
progettazione e a esternalizzare gli acquisti al di fuori dell’Europa, ad avviso
degli autori, presto non avrà più i volumi necessari per essere redditizio, né
le competenze e l’esperienza richieste per la sua trasformazione.
DE PALMA: “RISCHI ENORMI, SERVE MOBILITAZIONE EUROPEA”
“L’industria europea sta correndo un rischio enorme a causa delle mancate scelte
e dei mancati investimenti privati e pubblici dalla Commissione e dell’Unione,
dei Governi ma anche alle scelte sbagliate che le multinazionali stanno facendo
in questo momento”, dice il segretario della Fiom-Cgil Michele De Palma. “Il
numero che mi ha particolarmente colpito della relazione di Judith
Kirton-Darling, segretaria generale di IndustriAll Europe, è quello dei 4,3
milioni di lavoratrici e di lavoratori in Europa che sono in questo momento
interessati da ammortizzatori sociali e quindi non pienamente al lavoro a cui si
aggiungono i lavoratori già licenziati, decine di migliaia. Questo segnala il
rischio in Europa di perdita di ulteriori posti di lavoro e di perdita quindi
della sovranità industriale europea”. Secondo De Palma è “fondamentale” che “ci
siano proposte condivise da parte dei sindacati europei dell’industria” e
“necessaria” una mobilitazione “nei confronti dei Governi e dell’Unione europea
per rimettere al centro le lavoratrici e i lavoratori dell’industria per
garantire autonomia e democrazia”.
L'articolo Sotto l’aerospazio, niente: tutti i settori industriali Ue in crisi.
“Tra costi dell’energia e interventismo di Usa e Cina si rischia il deserto”
proviene da Il Fatto Quotidiano.