Il rapporto di Trump con il proprio tempo è tutto nell’idea che nel 2025 una
sala da ballo sia così indispensabile da sventrare un’ala della Casa Bianca. Un
Paese spaccato, una democrazia in apnea, un pianeta in fiamme e lui pensa ai
metri quadrati per far volteggiare ospiti e dignitari. La sala da ballo! Quando
ne abbiamo sentito parlare l’ultima volta, se non ai balli delle debuttanti,
liturgia pre-illuminista dell’ancien régime? La memoria corre al 1985, al gala
di Nancy Reagan: Travolta che volteggia con Lady Diana. Trump è ancora lì,
confinato in quel frame. Non vive nel 2025, vi soggiorna per obblighi
amministrativi.
E in effetti è rimasto l’uomo degli anni Ottanta: il palazzinaro tracotante di
New York che espandeva il suo impero tra hotel e casinò ad Atlantic City.
Coerente nella sua visione predatoria, arriva a scorgere persino nell’abisso di
Gaza un’opportunità di sviluppo immobiliare.
Così, mentre l’architettura contemporanea si interroga su emissioni zero,
sostenibilità e giustizia sociale, Trump concepisce l’ampliamento della “White
House Ballroom”: 300 milioni di dollari per “ospitare monarchi e capi di Stato”.
Per realizzarla ha sventrato l’ala est, cancellando il giardino di Jacqueline
Kennedy e il cinema presidenziale. L’operazione era stata affidata a James
McCrery, architetto convertitosi dal decostruttivismo di Eisenman a un
classicismo catechistico, a cui è subentrato lo studio Shalom Baranes
Associates.
Intanto, il National Trust ha scritto implorando di fermare tutto: la nuova
sala, con i suoi 8.400 metri quadrati, “sommergerà la Casa Bianca stessa”, che
ne misura appena 5.200. Violazione della più elementare regola architettonica:
non costruire un ampliamento che eclissi l’edificio principale. Risposta
dell’amministrazione? Un comunicato che denuncia “l’indignazione dei sinistroidi
scatenati” contro questa “aggiunta visionaria”. Visionaria, hanno scritto. Come
se demolire per erigere una versione ingigantita del salone delle feste di
Mar-a-Lago costituisse un’innovazione rivoluzionaria. Come se i soffitti
cassettonati dorati, i lampadari a goccia di cristallo e le vetrate con
l’inglesina rappresentassero il futuro, anziché la malinconica riproduzione
dell’habitat naturale di chi ha edificato fortune con casinò e golf club.
D’altronde Trump ha dichiarato di non aver avuto il “coraggio” di affiancare
l’architettura moderna a quella tradizionale nel progetto di ampliamento della
Casa Bianca, definendo questa sua rinuncia “coraggio al contrario”: come se la
contemporaneità fosse un rischio da schivare, non un dialogo da affrontare.
Eppure il quadro è grottesco: perché l’uomo che da immobiliarista ha incarnato
il capitalismo più brutale – demolì il Bonwit Teller Building per costruire la
Trump Tower in vetro e acciaio, distruggendo le sculture art déco che aveva
promesso di donare al Metropolitan Museum of Art – ora da Presidente si erge a
custode del classicismo. È la stessa “visionarietà” che lo ha portato a firmare
l’ordine esecutivo “Make Federal Architecture Beautiful Again”, imponendo il
neoclassico come stile di Stato e negando la natura stessa dell’architettura:
quella di interrogare il proprio tempo, interpretarlo e trasformarlo. Ridurla a
un repertorio obbligatorio di colonne e timpani posticci significa, quindi,
svuotarla definitivamente della sua funzione civile.
La battaglia innescata da Trump trascende la questione del gusto. Non è classico
contro moderno. È il conflitto tra un’architettura intesa come pensiero critico,
capace di esprimere la complessità di un’epoca, e un’architettura-fondale,
ridotta a simulacro propagandistico. Il suo “coraggio al contrario” è
l’ammissione di una resa: l’incapacità di confrontarsi con la contemporaneità,
sostituita dalla costruzione di un passato cartonato. In definitiva, il rapporto
di Trump con il proprio tempo è semplice: vive in un eterno passato di grandeur,
e quando la realtà non si adegua, la demolisce. Letteralmente.
Nel desiderio di costruire una sala da ballo c’è tutto il suo racconto: un uomo
che governa la più grande potenza mondiale rifiutando il presente e chiamando
questo regresso “visione”. Come ogni caricatura del potere, anche questa ha
qualcosa di ridicolo – e qualcosa di pericoloso.
L'articolo Trump vuole la sala da ballo e impone il neoclassico come stile di
Stato: così nega la natura stessa dell’architettura proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Architettura
Frank O. Gehry, uno dei talenti più formidabili e originali nella storia
dell’architettura contemporanea, è morto a 96 anni nella sua casa di Santa
Monica, in California. Il canadese naturalizzato statunitense si chiamava in
realtà Ephraim Owen Goldberg, ma cambiò il suo nome nel 1954 per proteggersi
dall’antisemitismo, un gesto che, già in gioventù, segnò la sua determinazione a
forgiare la propria identità. Gehry è stato un “Borromini del Ventesimo secolo”,
un architetto-scultore le cui creazioni in titanio e metallo ondulato hanno
ridefinito lo spazio urbano globale.
Dopo aver studiato alla University of Southern California e ad Harvard, Gehry si
affacciò alla scena internazionale nel 1978 con un progetto che fece scandalo:
la sua casa a Santa Monica. L’architetto smembrò un modesto bungalow in “stile
Cape Cod” e lo avvolse in una nuova pelle di materiali grezzi e scomposti:
compensato, rete metallica e lamiera ondulata. La collisione di forme, grezza e
persino violenta, sembrò catturare le fratture sociali dell’epoca, consacrandolo
come una forza innovatrice. La casa fu così dirompente che i vicini avviarono
una raccolta di firme per farla abbattere. Il critico Philip Johnson la
descrisse con un’intuizione perfetta: si provava all’interno “una sorta di
soddisfazione inquietante che non si prova in nessun altro spazio”.
Il punto di massima visibilità per Gehry, già premio Pritzker nel 1989, arrivò
con il Guggenheim Museum di Bilbao, inaugurato nel 1997. L’esuberante
composizione di volumi curvilinei, rivestita di titanio scintillante, sembrava
sfidare la gravità. L’opera innescò il cosiddetto “Bilbao effect”, il modello
urbanistico secondo cui un singolo edificio iconico può trasformare l’immagine e
l’economia di un’intera città in declino. Da allora, nell’immaginario
collettivo, l’architettura moderna si è divisa in due epoche: prima e dopo il
Guggenheim. Il suo genio risiedeva anche nella tecnologia: il suo studio
sviluppò l’uso di software derivati dall’aeronautica per la modellazione
digitale, essenziali per elaborare le sue ardite geometrie decostruttiviste e
portare al limite la dialettica tra stabilità e squilibrio.
Il suo portfolio globale è immenso. Tra le sue opere più note si contano la Walt
Disney Concert Hall a Los Angeles, la Fondazione Louis Vuitton a Parigi (un
edificio così etereo che sembra fatto di vetro soffiato, quasi un enorme
vascello), e la Dancing House di Praga. Il suo approccio era sempre quello di un
cardiochirurgo: come nel restyling del Museum of Fine Arts di Filadelfia
(costato 233 milioni di dollari), Gehry affrontava l’interno dell’edificio per
rimuovere gli ostacoli che bloccavano la circolazione.
Nonostante l’Italia fosse per lui un modello, con riferimenti all’architettura
barocca di Borromini e Bernini, il Paese rimane uno dei suoi rimpianti
professionali. Nel 2008 era stato coinvolto in un progetto a Salerno, ma ne uscì
amaramente: “Si sono solo fatti pubblicità sfruttando il mio nome”, disse.
Gehry, un divo a suo malgrado, ha lasciato una potente lezione ai giovani
architetti: “Quando mi capita di incontrare i giovani architetti — aveva
confessato — metto la mia firma su un foglio di carta, poi faccio mettere la
loro e dico: ‘Non copiate la mia, date dignità alla vostra’”. Una ricerca di una
strada unica che, per sua stessa ammissione, era in fondo solo “l’illusione di
un momento”.
L'articolo È morto Frank Gehry, l’architetto che trasformò il titanio in poesia:
il Guggenheim di Bilbao e la Casa Danzante di Praga tra le sue opere più celebri
proviene da Il Fatto Quotidiano.