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Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio: conferenza Usa a Doha il 16 dicembre
Truppe internazionali potrebbero essere schierate nella Striscia di Gaza già dal mese prossimo. Lo scrive il Times of Israel citando due funzionari Usa in contatto con l’agenzia di stampa Reuters. Sotto l’egida dell’Onu, i contingenti militari garantirebbero la stabilizzazione del territorio scoraggiando ulteriori scontri armati. Tuttavia non è ancora chiaro come verranno disarmati i guerriglieri palestinesi di Hamas. Il tema sarà sul tavolo della conferenza statunitense con i Paesi partner, prevista a Doha il 16 dicembre. I delegati di 25 paesi – riferisce Reuters – discuteranno della pianificazione di una Forza internazionale di stabilizzazione (Isf) per Gaza. Sono tanti i nodi da sciogliere, ma l’aspetto decisivo riguarda la struttura di comando. I funzionari Usa – sotto anonimato – sostengono che lo scopo non sarà combattere Hamas. Poi indicano le altre questioni: le dimensioni, la composizione, l’alloggio, l’addestramento e le regole di ingaggio delle truppe. L'articolo Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio: conferenza Usa a Doha il 16 dicembre proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni, obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg. Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender, si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza, l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo” in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi. Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma, ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e Luisa Morgantini. Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei caduti. Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella. “Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”. L'articolo “Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Gaza, la tempesta Byron si abbatte sui campi degli sfollati. Al Jazeera: “Bambina di otto mesi morta di freddo”
Inondazioni, fango e freddo. La tempesta Byron si è abbattuta anche sui campi degli sfollati di Gaza, che dopo due anni di distruzione e massacri si appresta ad affrontare l’inverno in tende vecchie e logore e con abbigliamento inadeguato. Mentre Israele continua a fermare gli aiuti al confine. A Khan Younis, nel sud della Striscia l’agenzia palestinese Wafa e Al Jazeera hanno denunciato la morte di una bambina di otto mesi a causa delle basse temperature. “Continuava a piovere e il freddo stava peggiorando” ha raccontato la madre all’emittente del Qatar. “Improvvisamente, ho trovato la mia bambina immobile, morta”. Secondo l’Onu sono 850mila le persone che dopo il cessate il fuoco hanno ritrovato la propria casa in macerie e ora sono costrette a vivere in tende distribuite negli oltre 760 campi improvvisati. Rifugi che in queste ore sono stati flagellati dalla tempesta Byron. Le strade dei campi si sono trasformate in fiumi di fango, l’aria è diventata gelida e carica di umidità, l’acqua ha invaso le tende e inzuppato coperte e materassi. Le persone hanno cercato di far fronte al disastro con i pochi strumenti a disposizione, creando barriere con secchi di sabbia e provando a far defluire l’acqua. “A Gaza stanno cadendo piogge invernali, portando con sé nuove difficoltà. Le strade allagate e le tende bagnate rendono ancora più pericolose le condizioni di vita già difficili. Il freddo, il sovraffollamento e le condizioni igieniche precarie aumentano il rischio di malattie e infezioni”, ha scritto l’Unrwa, agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, sottolineando che “queste sofferenze potrebbero essere evitate grazie ad aiuti umanitari senza ostacoli, compreso il supporto medico e alloggi adeguati”. Oltre al rischio immediato per gli sfollati c’è quello legato alle reti fognarie in gran parte distrutte: l’acqua delle inondazioni quindi con tutta probabilità si è mescolata a quelle reflue, aumentando significativamente il pericolo di diffusione di malattie come la dissenteria e il colera. Inoltre il forte vento ha fatto crollare alcuni palazzi semidistrutti e ridotti ormai a scheletri dai bombardamenti israeliani. L’associazione israeliana Btselem accusa Israele di continuare a bloccare gli aiuti umanitari anche dopo il cessate il fuoco: “Ci sono 6500 camion attualmente in attesa di essere fatti entrare a Gaza con materiale invernale di prima necessità, tra cui tende, coperte, abbigliamento caldo e materiali per l’igiene. Intanto i bambini vanno scalzi e indossano abiti estivi al freddo gelido”. Denuncia fatta nelle scorse settimane da diverse organizzazioni internazionali, che in vista dell’inverno avevano lanciato l’allarme sull’assenza di rifugi adeguati. L'articolo Gaza, la tempesta Byron si abbatte sui campi degli sfollati. Al Jazeera: “Bambina di otto mesi morta di freddo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Tony Blair fuori dal Consiglio di pace per Gaza voluto da Trump”: determinante l’opposizione dei Paesi arabi
Tony Blair rappresentava un ostacolo insormontabile nel tentativo degli Stati Uniti di riallacciare i rapporti con i giganti arabi e portare avanti l’espansione degli Accordi di Abramo. Così, secondo un’inchiesta esclusiva del Financial Times, l’ex primo ministro britannico, tra i principali fautori dell’invasione Nato dell’Iraq nel 2003, è stato escluso dalla lista dei candidati a far parte del Consiglio di pace ideato da Donald Trump per Gaza. Il presidente americano, che presiederà il board se e quando questo verrà creato, aveva sponsorizzato la presenza di Blair, un “bravissimo uomo” che, oltre all’oscuro precedente della guerra che ha devastato il Paese del Golfo gettando le basi per la nascita dello Stato Islamico, presentava anche un altro pesante conflitto d’interesse, dato che nella sua attività di consulente ha costruito stretti rapporti, tra gli altri, anche con British Petroleum. Interpellato sul suo possibile futuro ruolo, quando la discussione si concentrava su chi avrebbe messo le mani sulla ricostruzione della Striscia di Gaza, Blair descrisse il piano di Trump come “audace e intelligente” e dichiarò che sarebbe stato felice di far parte del Consiglio. Soluzione che, per tutto ciò che rappresenta e ha rappresentato per la storia moderna dell’intero Medio Oriente, era stata subito respinta non solo da Hamas, che l’aveva indicato come un elemento di ostacolo a un possibile accordo di pace, ma anche dai Paesi arabi e musulmani, compresa l’Arabia Saudita, primo obiettivo di Trump nel progetto di allargamento degli Accordi di Abramo. Blair si è rifiutato di commentare le indiscrezioni raccolte dal Ft, ma soggetti a lui vicini sostengono che non ci sia stata alcuna esclusione. L’ex premier britannico, dicono, non aveva semplicemente i requisiti per far parte del board, quindi la sua candidatura non sarebbe mai stata sul tavolo: il Consiglio “sarà composto da leader mondiali in carica e ci sarà un consiglio esecutivo più ristretto al suo interno”, ha affermato la fonte aggiungendo poi che Blair siederà nel comitato esecutivo insieme al genero del tycoon, Jared Kushner, e al consigliere Steve Witkoff insieme ad alti funzionari dei Paesi arabi e occidentali. Già a ottobre, Trump aveva compiuto un passo indietro rispetto alla possibile candidatura dell’ex leader laburista, specialmente dopo le rimostranze manifestate dai leader della regione: “Ho sempre apprezzato Tony, ma voglio scoprire se è una scelta accettabile per tutti”, aveva dichiarato. Questo nonostante l’ex primo ministro avesse lavorato per mesi alla stesura di un piano per la ricostruzione dell’exclave palestinese, devastata da oltre due anni di bombardamenti israeliani, attraverso il suo Tony Blair Institute. Anche un’altra fonte sentita dal quotidiano finanziario non ha comunque escluso che l’ex politico possa avere un ruolo rilevante in una delle future strutture di governance di Gaza. “Potrebbe ancora avere un ruolo in una veste diversa e questo sembra probabile. Piace agli americani e piace agli israeliani“. Secondo due persone a conoscenza dei preparativi, verrà creato un comitato esecutivo che sarà presieduto dall’ex inviato delle Nazioni Unite e ministro della Difesa bulgaro, Nickolay Mladenov, col compito di coordinare il Consiglio per la pace e un comitato tecnico palestinese incaricato della gestione quotidiana della Striscia. Il ruolo di Mladenov sembra simile alle funzioni inizialmente ipotizzate per Blair, che prevedevano di agire come un “esecutivo supremo” gestendo un organismo che avrebbe dovuto supervisionare la transizione postbellica a Gaza. Ma, a parte le indiscrezioni, del piano di amministrazione post-bellica di Gaza promesso da Trump non è emerso ancora niente di concreto. L'articolo “Tony Blair fuori dal Consiglio di pace per Gaza voluto da Trump”: determinante l’opposizione dei Paesi arabi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Raid di Israele sul Libano meridionale: “Colpiti obiettivi di Hezbollah”. A Gaza ucciso Abu Shabab, leader della milizia anti-Hamas
Tregua sempre più a rischio in Libano a un anno dall’entrata in vigore. Nelle ultime ore infatti l’esercito israeliano ha condotto raid aerei nel Libano meridionale, dopo aver emesso un avviso di evacuazione. Attacchi che riaccendono i timori per un’escalation nell’area. “Gli aerei da guerra israeliani hanno lanciato un attacco sulla città di Mahrouna“, mentre un altro raid ha preso di mira una casa a Jbaa, ha affermato l’agenzia di stampa libanese Nna. Israele ha confermato di aver avviato un’ondata di attacchi contro obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano e in una nota ha specificato di aver colpito “diversi depositi di armi di proprietà di Hezbollah nel Libano meridionale”, che si trovavano “nel cuore” della zone abitate da civili. “Questo è l’ennesimo esempio del cinico uso dei libanesi come scudi umani da parte di Hezbollah e delle sue continue operazioni dall’interno di aree civili”. La presenza di depositi di armi, si legge ancora nella nota diffusa dall’esercito, “costituiva una violazione degli accordi tra Israele e Libano”. Prima dell’avvio dell’operazione, il colonnello Avichay Adraee, portavoce in lingua araba dell’esercito, aveva esortato gli abitanti a evacuare. “L’Idf attaccherà le infrastrutture militari appartenenti all’organizzazione terroristica Hezbollah in tutto il Libano meridionale, in risposta ai suoi tentativi proibiti di ricostruire le proprie attività nella zona”, aveva avvertito Adraee. Insieme all’annuncio, l’Idf aveva pubblicato mappe con l’ubicazione dei siti presi di mira, nelle città di Jbaa e Mahrouna. Da Gaza intanto arriva la notizia dell’uccisione di Yasser Abu Shabab, leader della milizia palestinese anti-Hamas Forze popolari, che nei mesi scorsi aveva collaborato con Israele. Lo ha reso noto la radio dell’esercito israeliano spiegando che Abu Shabab è morto in un ospedale nel sud di Israele per le ferite da armi da fuoco riportate in uno “scontro interno”. Non è ancora chiara la dinamica ma secondo le stesse fonti, insieme a lui sono stati uccisi, in un’imboscata tesa dai miliziani di Hamas, un gran numero di membri del suo gruppo e il comandante Ghassan al Duhine. Hamas non ha ancora rilasciato commenti in merito. Secondo Sky News la milizia beduina di Abu Shabab stava introducendo clandestinamente veicoli nella Striscia di Gaza con l’aiuto dell’esercito israeliano e di un concessionario di automobili arabo-israeliano. Nonostante lui abbia sempre negato, Abu Shabab era stato accusato da più parti di essere armato dal governo di Tel Aviv proprio in funzione anti-Hamas. E nella primavera scorsa aveva lavorato con la Gaza Humanitarian Foundation per scortare i camion carichi di aiuti in entrata nella Striscia. Gli scontri tra gruppi palestinesi rivali si sono acuiti dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco e il ritiro dei soldati israeliani. A ottobre erano state diffuse sui social immagini di esecuzioni pubbliche in cui venivano freddati alcuni uomini accusati di essere collaborazionisti di Israele. Episodio non isolato da inserire nella resa dei conti tra Hamas e le diverse fazioni palestinesi che da sempre contendono il potere al movimento islamista, tra cui il clan della famiglia Doghmush, attivo a Gaza City, e quello di Shabab radicato invece nel sud. L'articolo Raid di Israele sul Libano meridionale: “Colpiti obiettivi di Hezbollah”. A Gaza ucciso Abu Shabab, leader della milizia anti-Hamas proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Gaza, le tende degli sfollati in fiamme dopo i raid israeliani su Khan Younis: sei morti, due sono bambini
Almeno sei persone, tra quali due bambini, sono state uccise dai raid israeliani di ieri sera a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, secondo quanto riportato da media palestinesi. Poco prima Benjamin Netanyahu aveva detto che Israele avrebbe risposto all’attacco lanciato contro l’Idf a Rafah, che ha causato il ferimento di cinque soldati. L'articolo Gaza, le tende degli sfollati in fiamme dopo i raid israeliani su Khan Younis: sei morti, due sono bambini proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Gaza, consegnato a Israele il corpo del penultimo ostaggio: è il thailandese Rinthalak. Era stato ucciso il 7 ottobre 2023
Dopo aver completato le operazioni di identificazione, Israele ha informato la famiglia del cittadino tailandese Sudthisak Rinthalak che il suo corpo è stato restituito allo Stato ebraico da miliziani palestinesi. Lo riportano i media israeliani. Israele afferma che Rinthalak, un bracciante agricolo thailandese di 42 anni, era stato ucciso da miliziani di Hamas vicino al kibbutz Bèeri il 7 ottobre 2023 e il suo corpo era stato portato nella Striscia di Gaza. Il cadavere di Rinthalak è stato ritrovato ieri mattina dal gruppo della Jihad Islamica nel nord dell’enclave palestinese e consegnato nel pomeriggio alla Croce Rossa, che lo ha a sua volta consegnato alle Forze di difesa israeliane (Idf). Nella Striscia di Gaza rimane il corpo di un solo ostaggio ucciso: il sergente maggiore Ran Gvili. L'articolo Gaza, consegnato a Israele il corpo del penultimo ostaggio: è il thailandese Rinthalak. Era stato ucciso il 7 ottobre 2023 proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Gaza, raid di Israele su Khan Younis: sei morti tra cui due bambini. Netanyahu: “Risposta a un attacco ai nostri soldati”
L’aviazione israeliana ha lanciato almeno quattro attacchi aerei sulla zona occidentale di Khan Younis, città nel sud della Striscia di Gaza, uccidendo sei persone tra cui due bambini. I raid erano stati annunciati dal premier di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu, come risposta a un attacco contro le Idf (le forze armate israeliane) a Rafah, l’insediamento più meridionale della Striscia, che ha ferito cinque soldati. A quanto riferisce il giornale israeliano Haaretz citando fonti locali, quattro missili delle Idf hanno bersagliato direttamente le tende degli sfollati a Khan Younis. Un drone ha colpito una tenda rifugio nei pressi dell’ospedale kuwaitiano, nella zona occidentale della città, mentre mezzi corazzati e mezzi ingegneristici hanno aperto il fuoco nella parte orientale. L'articolo Gaza, raid di Israele su Khan Younis: sei morti tra cui due bambini. Netanyahu: “Risposta a un attacco ai nostri soldati” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Francesca Albanese a Genova dai portuali: “Dopo la ‘tregua’ a Gaza 300 morti. Mentre si tagliano i servizi si spende per i conflitti”
La relatrice speciale dell’Onu sui Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, torna a Genova dopo il primo incontro con i portuali del Calp di ottobre e a margine dello sciopero di ieri denuncia “l’ipocrisia delle potenze occidentali” rispetto all’accordo raggiunto da Trump su Gaza. “Ci hanno fatto credere che ci sia una tregua – dice – ma solo a Gaza, da quando è stato annunciato il cessate il fuoco, sono stati uccisi più di 300 palestinesi. Israele continua a bombardare e il 50 per cento della Striscia resta sotto occupazione militare. In Cisgiordania, intanto, i raid e le aggressioni sono in aumento. Il genocidio non si è mai fermato. Ma la politica occidentale, in questo momento, è più che servile verso gli Stati Uniti e la stampa mediamente gli striscia dietro”. In Cisgiordania, gli attacchi di coloni armati – spesso con copertura dell’esercito israeliano – sono più che raddoppiati rispetto al 2022. Ma il contesto che Albanese sottolinea riguarda anche l’Italia. “È fondamentale legare la solidarietà con la Palestina alla critica sociale dei lavoratori – spiega –. Non è solo un tema internazionale. È una questione che tocca la realtà della gente. I cittadini vedono che, mentre si tagliano i servizi essenziali, si continua a spendere per alimentare conflitti”. Per Francesca Albanese, la protesta dei portuali genovesi contro l’invio di armi verso paesi in guerra non è solo “simbolica”, ma può essere un esempio in grado di contagiare altri porti: “È una battaglia di principio, ma che arriva anche al cuore della società. Chi blocca il transito delle armi fa una scelta coerente, non solo per la Palestina. Lo ha fatto anche per la guerra in Yemen. Questa è la forma più pura di politica a favore della protezione dei cittadini”. Da mesi il Calp, insieme a sigle sindacali e reti internazionali, denuncia il passaggio di armamenti diretti verso lo Stato di Israele. In diverse occasioni, come quest’estate e a settembre, carichi sospetti sono stati fermati o ritirati. “Non si tratta di fare campagne elettorali – chiarisce Albanese –. Chi è qui oggi lo fa perché vuole fermare la cultura della guerra”. L'articolo Francesca Albanese a Genova dai portuali: “Dopo la ‘tregua’ a Gaza 300 morti. Mentre si tagliano i servizi si spende per i conflitti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“L’indifferenza è la nostra vergogna, Gaza è lo specchio della nostra ipocrisia”: l'”empatia selettiva” dell’Occidente spiegata nel nuovo libro del prof. De Vogli
La più grande crisi morale del nostro tempo – negli ultimi due anni, da quando ha avuto inizio il genocidio in Palestina – si misura con i morti e l’indifferenza. Perché la più grande assente nello sguardo dell’Occidente su Gaza è, secondo Roberto De Vogli, Professore di Salute globale e Psicologia del potere all’Università di Padova – già docente in Salute pubblica ed Epidemiologia sociale presso l’Università del Michigan, l’Università della California Davis e University College London –, l’empatia. In “Empatia selettiva: perché l’Occidente è rimasto a lungo indifferente al genocidio di Gaza”, in uscita il 26 novembre per Compagnia editoriale Aliberti, De Vogli mette a nudo i doppi standard morali di leader, giornalisti e intellettuali mainstream e svela una società che riserva compassione solo a determinate vittime, ignorandone altre. “Un libro brillante, potente ed essenziale. Presenta una sfida morale che siamo obbligati ad affrontare”, secondo George Monbiot, giornalista di The Guardian, in uscita anche per i tipi di De Gruyter Brill e Haymarket con il titolo “Selective Empathy: The West through the Gaze of Gaza”. L’autore, che ha pubblicato su prestigiose riviste scientifiche internazionali come “Nature”, “The Lancet” e “British Medical Journal“, ha dato vita alla lettera aperta e all’appello pubblico “Stop the Silence: Academic Associations Must Recognize the Genocide in Gaza”, che ha raccolto oltre 15.000 firme, di cui 5.500 da parte di professori universitari, ricercatori, medici e professionisti (fra cui Norman Finkelstein), e che ha spinto numerose associazioni accademiche e professionali, con oltre 10 milioni di iscritti, a riconoscere ufficialmente il genocidio di Gaza. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto del volume: 3 giugno 2024. Immaginate di ricevere questo messaggio dall’editore con il quale avete già firmato un contratto per scrivere un libro su Gaza: «Caro Roberto, siamo lieti che tu abbia accettato la nostra proposta contrattuale per il tuo libro Empatia selettiva. Tuttavia, prevediamo dei problemi con la parola “genocidio”. Trattandosi di un termine giuridico, con una definizione legale rigorosa, il suo utilizzo comporterebbe oneri e conseguenze legali sia per te che per noi editori. Per evitare questo terreno scivoloso, ti chiediamo di sostituire la parola “genocidio” con un termine privo di definizione giuridica, sia nel sottotitolo che nel corpo del testo. Un possibile esempio potrebbe essere “atrocità di massa”. Va bene? Un saluto, (firma)». Ovviamente, non andava bene. Ma questo significava che non avevo più un editore. Mesi dopo, in occasione di una conferenza a Istanbul, lessi il messaggio a un vasto pubblico di accademici, ricercatori e attivisti. Al termine della sessione, un uomo alto, con la barba e gli occhiali rossi, si avvicino. Era il mio futuro editore. Dopo essersi presentato brevemente, mi sorrise e disse: «Pubblicheremo noi il tuo libro con la parola genocidio». Perché un libro sull’empatia selettiva? E perché proprio Gaza? Ci sono così tante altre guerre nel mondo… L’empatia selettiva è un tema sorprendentemente poco esplorato nella letteratura accademica, nonostante la sua profonda rilevanza per la comprensione della psicologia, della geopolitica e degli interventi umanitari. La manifestazione di questo doppio standard morale ed emotivo non è mai stata così evidente come nella risposta della comunità internazionale alla crisi umanitaria di Gaza. Per almeno due anni, i palestinesi hanno sopportato livelli straordinari di violenza, senza ricevere alcuna protezione o soccorso internazionale. La disparità tra il sostegno, gli aiuti e l’assistenza militare ricevuti dall’Ucraina è sconcertante. Ogni vita conta più di quante se ne possano contare, eppure, in quasi due anni di aggressione (dal 7 ottobre 2023 al 9 luglio 2025), si stima che a Gaza siano morti 17.121 bambini a causa dell’attacco israeliano (UNRWA, 2025). Questo dato va messo a confronto con i 521 bambini uccisi dall’esercito russo in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 fino al 31 dicembre 2024 (OHCHR, 2025). Questi numeri non sminuiscono una tragedia a favore di un’altra, ma impongono una riflessione sul perché l’empatia e l’azione internazionale siano state così diseguali. Nonostante alcuni politici e accademici occidentali abbiano tentato di negare o sminuire l’impatto letale dell’attacco israeliano a Gaza, le più rispettate organizzazioni per i diritti umani al mondo, come Amnesty International e Human Rights Watch, non hanno dubbi: a Gaza è stato commesso il crimine dei crimini. Un genocidio. Mentre scrivo, si contano oltre 67.000 morti (per lo più civili) e quasi 170.000 feriti (OCHA, 2025). Un’analisi pubblicata sul «British Medical Journal» che confronta la mortalità infantile nei recenti conflitti urbani ha rilevato che «sebbene le vittime civili siano state significative in tutti i casi studiati, non si è mai registrato un numero di morti civili, in particolare tra i bambini, come a Gaza dallo scorso ottobre» (Bhutta et al., 2024). Negare il loro genocidio è come ucciderli una seconda volta. Perché l’Occidente? Sebbene la comunità internazionale dovrebbe rappresentare gli interessi e il benessere del mondo intero, sono le potenze occidentali gli attori più influenti e significativi dal punto di vista geopolitico ed economico. Influenzano la direzione degli affari mondiali e le decisioni delle organizzazioni internazionali e delle agenzie umanitarie più di qualsiasi altra regione del mondo. Inoltre, commentatori e politici spesso dipingono la civiltà occidentale come promotrice di nobili ideali quali giustizia, democrazia e diritti umani. In realtà, questi princìpi sono stati miseramente disattesi. Inoltre, l’Occidente non è solo spettatore del genocidio di Gaza, ma vi partecipa attivamente dal punto di vista militare, economico e politico. Ciò rende ogni cittadino occidentale complice. Mentre dovremmo prenderci cura e provare compassione per tutte le vittime di qualsiasi guerra, le nostre azioni e la nostra attenzione dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui crimini di guerra commessi dai nostri governi. La maggior parte dei media occidentali ha descritto l’attacco a Gaza come un “conflitto” israelo-palestinese, iniziato il 7 ottobre 2023, quando Israele ha affrontato quello che è stato definito il giorno più buio della sua storia. Si è trattato indubbiamente di un attacco orribile, quando oltre un migliaio di combattenti di Hamas e uomini armati palestinesi hanno oltrepassato le barriere che separano Israele da Gaza, assalendo con violenza sia obiettivi militari che civili. Questi crimini hanno provocato circa 1.200 morti (tra cui 33 bambini), 5.400 feriti e il rapimento di 280 civili e soldati (OCHA, 2025). Queste spaventose atrocità, ampiamente enfatizzate dai media occidentali, costituiscono crimini contro l’umanità e sono state giustamente condannate dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani. In risposta, Israele ha lanciato un’operazione militare devastante e imposto numerosi blocchi. I bombardamenti sono stati sistematici e incessanti. I blocchi hanno privato Gaza di cibo, acqua, carburante, aiuti, forniture mediche di base e altri beni essenziali, causando diffusa insicurezza alimentare, carestie, malattie infettive e indicibili sofferenze. Tutto ciò, unito alla distruzione di ospedali, panifici, impianti idrici e igienico-sanitari, ha provocato un bilancio delle vittime superiore a quello causato dalla violenza stessa. Di fronte a una catastrofe umanitaria di tale entità, i media occidentali hanno reagito in modo molto diverso rispetto a quanto avevano fatto per le vittime della guerra in Ucraina, spesso minimizzando, razionalizzando o persino giustificando le atrocità. Nel mondo ci sono tanti aggressori stranieri. Perché proprio Israele? Perché Israele ha battuto ogni record d’orrore nella storia recente. Almeno due anni di bombardamenti e blocchi hanno provocato una crisi sanitaria catastrofica. In un solo anno, l’aspettativa di vita alla nascita è crollata di circa 35 anni, passando da 75,5 a 40,5 (Guillot et al., 2025). Si tratta del crollo più significativo mai registrato in un solo anno negli ultimi tempi, persino più grave della diminuzione della longevità registrata durante il genocidio ruandese del 1994, quando la speranza di vita si ridusse di 30 anni (De Vogli et al., 2025). Nei primi quattro mesi del prolungato assedio di Gaza, le azioni militari israeliane hanno causato la morte di più bambini rispetto a quelli uccisi da tutte le altre nazioni in guerra nel mondo sommate negli ultimi quattro anni. Israele è responsabile del maggior numero di amputazioni infantili pro capite al mondo, nonché della distruzione del maggior numero di ospedali, ambulanze e scuole nei più recenti teatri di guerra globali. Inoltre, Israele ha ucciso il maggior numero di medici e personale sanitario nelle zone di conflitto e il maggior numero di operatori ONU e volontari nella storia delle Nazioni Unite. Gaza è anche il più grande cimitero di giornalisti uccisi in guerra al mondo. Nonostante questi orrori, la tragedia in Palestina non ha suscitato ampie manifestazioni di solidarietà da parte dei governi occidentali. Perché l’Occidente è rimasto indifferente di fronte al genocidio più filmato della storia? L'articolo “L’indifferenza è la nostra vergogna, Gaza è lo specchio della nostra ipocrisia”: l'”empatia selettiva” dell’Occidente spiegata nel nuovo libro del prof. De Vogli proviene da Il Fatto Quotidiano.
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