Truppe internazionali potrebbero essere schierate nella Striscia di Gaza già dal
mese prossimo. Lo scrive il Times of Israel citando due funzionari Usa in
contatto con l’agenzia di stampa Reuters. Sotto l’egida dell’Onu, i contingenti
militari garantirebbero la stabilizzazione del territorio scoraggiando ulteriori
scontri armati. Tuttavia non è ancora chiaro come verranno disarmati i
guerriglieri palestinesi di Hamas.
Il tema sarà sul tavolo della conferenza statunitense con i Paesi partner,
prevista a Doha il 16 dicembre. I delegati di 25 paesi – riferisce Reuters –
discuteranno della pianificazione di una Forza internazionale di stabilizzazione
(Isf) per Gaza. Sono tanti i nodi da sciogliere, ma l’aspetto decisivo riguarda
la struttura di comando. I funzionari Usa – sotto anonimato – sostengono che lo
scopo non sarà combattere Hamas. Poi indicano le altre questioni: le dimensioni,
la composizione, l’alloggio, l’addestramento e le regole di ingaggio delle
truppe.
L'articolo Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio:
conferenza Usa a Doha il 16 dicembre proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il
nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società
israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità
internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per
diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per
essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace
Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni,
obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di
prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta
l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze
israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da
quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito
chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in
pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg.
Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender,
si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera
di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza,
l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata
un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di
ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il
trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai
cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in
detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti
umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni
per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare
di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido
Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo”
in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare
obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi.
Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono
fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia
etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui
l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio
militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot
saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla
proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario
Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega
Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma,
ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e
Luisa Morgantini.
Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in
Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della
militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i
soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una
sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che
sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di
sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende
esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei
caduti.
Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la
loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di
prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani
critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non
aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma
piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo
Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto
internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella.
“Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di
un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il
genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si
adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che
anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”.
L'articolo “Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito
accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Inondazioni, fango e freddo. La tempesta Byron si è abbattuta anche sui campi
degli sfollati di Gaza, che dopo due anni di distruzione e massacri si appresta
ad affrontare l’inverno in tende vecchie e logore e con abbigliamento
inadeguato. Mentre Israele continua a fermare gli aiuti al confine. A Khan
Younis, nel sud della Striscia l’agenzia palestinese Wafa e Al Jazeera hanno
denunciato la morte di una bambina di otto mesi a causa delle basse temperature.
“Continuava a piovere e il freddo stava peggiorando” ha raccontato la madre
all’emittente del Qatar. “Improvvisamente, ho trovato la mia bambina immobile,
morta”.
Secondo l’Onu sono 850mila le persone che dopo il cessate il fuoco hanno
ritrovato la propria casa in macerie e ora sono costrette a vivere in tende
distribuite negli oltre 760 campi improvvisati. Rifugi che in queste ore sono
stati flagellati dalla tempesta Byron. Le strade dei campi si sono trasformate
in fiumi di fango, l’aria è diventata gelida e carica di umidità, l’acqua ha
invaso le tende e inzuppato coperte e materassi. Le persone hanno cercato di far
fronte al disastro con i pochi strumenti a disposizione, creando barriere con
secchi di sabbia e provando a far defluire l’acqua. “A Gaza stanno cadendo
piogge invernali, portando con sé nuove difficoltà. Le strade allagate e le
tende bagnate rendono ancora più pericolose le condizioni di vita già difficili.
Il freddo, il sovraffollamento e le condizioni igieniche precarie aumentano il
rischio di malattie e infezioni”, ha scritto l’Unrwa, agenzia Onu per i
rifugiati palestinesi, sottolineando che “queste sofferenze potrebbero essere
evitate grazie ad aiuti umanitari senza ostacoli, compreso il supporto medico e
alloggi adeguati”. Oltre al rischio immediato per gli sfollati c’è quello legato
alle reti fognarie in gran parte distrutte: l’acqua delle inondazioni quindi con
tutta probabilità si è mescolata a quelle reflue, aumentando significativamente
il pericolo di diffusione di malattie come la dissenteria e il colera. Inoltre
il forte vento ha fatto crollare alcuni palazzi semidistrutti e ridotti ormai a
scheletri dai bombardamenti israeliani.
L’associazione israeliana Btselem accusa Israele di continuare a bloccare gli
aiuti umanitari anche dopo il cessate il fuoco: “Ci sono 6500 camion attualmente
in attesa di essere fatti entrare a Gaza con materiale invernale di prima
necessità, tra cui tende, coperte, abbigliamento caldo e materiali per l’igiene.
Intanto i bambini vanno scalzi e indossano abiti estivi al freddo gelido”.
Denuncia fatta nelle scorse settimane da diverse organizzazioni internazionali,
che in vista dell’inverno avevano lanciato l’allarme sull’assenza di rifugi
adeguati.
L'articolo Gaza, la tempesta Byron si abbatte sui campi degli sfollati. Al
Jazeera: “Bambina di otto mesi morta di freddo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tony Blair rappresentava un ostacolo insormontabile nel tentativo degli Stati
Uniti di riallacciare i rapporti con i giganti arabi e portare avanti
l’espansione degli Accordi di Abramo. Così, secondo un’inchiesta esclusiva del
Financial Times, l’ex primo ministro britannico, tra i principali fautori
dell’invasione Nato dell’Iraq nel 2003, è stato escluso dalla lista dei
candidati a far parte del Consiglio di pace ideato da Donald Trump per Gaza.
Il presidente americano, che presiederà il board se e quando questo verrà
creato, aveva sponsorizzato la presenza di Blair, un “bravissimo uomo” che,
oltre all’oscuro precedente della guerra che ha devastato il Paese del Golfo
gettando le basi per la nascita dello Stato Islamico, presentava anche un altro
pesante conflitto d’interesse, dato che nella sua attività di consulente ha
costruito stretti rapporti, tra gli altri, anche con British Petroleum.
Interpellato sul suo possibile futuro ruolo, quando la discussione si
concentrava su chi avrebbe messo le mani sulla ricostruzione della Striscia di
Gaza, Blair descrisse il piano di Trump come “audace e intelligente” e dichiarò
che sarebbe stato felice di far parte del Consiglio.
Soluzione che, per tutto ciò che rappresenta e ha rappresentato per la storia
moderna dell’intero Medio Oriente, era stata subito respinta non solo da Hamas,
che l’aveva indicato come un elemento di ostacolo a un possibile accordo di
pace, ma anche dai Paesi arabi e musulmani, compresa l’Arabia Saudita, primo
obiettivo di Trump nel progetto di allargamento degli Accordi di Abramo.
Blair si è rifiutato di commentare le indiscrezioni raccolte dal Ft, ma soggetti
a lui vicini sostengono che non ci sia stata alcuna esclusione. L’ex premier
britannico, dicono, non aveva semplicemente i requisiti per far parte del board,
quindi la sua candidatura non sarebbe mai stata sul tavolo: il Consiglio “sarà
composto da leader mondiali in carica e ci sarà un consiglio esecutivo più
ristretto al suo interno”, ha affermato la fonte aggiungendo poi che Blair
siederà nel comitato esecutivo insieme al genero del tycoon, Jared Kushner, e al
consigliere Steve Witkoff insieme ad alti funzionari dei Paesi arabi e
occidentali.
Già a ottobre, Trump aveva compiuto un passo indietro rispetto alla possibile
candidatura dell’ex leader laburista, specialmente dopo le rimostranze
manifestate dai leader della regione: “Ho sempre apprezzato Tony, ma voglio
scoprire se è una scelta accettabile per tutti”, aveva dichiarato. Questo
nonostante l’ex primo ministro avesse lavorato per mesi alla stesura di un piano
per la ricostruzione dell’exclave palestinese, devastata da oltre due anni di
bombardamenti israeliani, attraverso il suo Tony Blair Institute.
Anche un’altra fonte sentita dal quotidiano finanziario non ha comunque escluso
che l’ex politico possa avere un ruolo rilevante in una delle future strutture
di governance di Gaza. “Potrebbe ancora avere un ruolo in una veste diversa e
questo sembra probabile. Piace agli americani e piace agli israeliani“.
Secondo due persone a conoscenza dei preparativi, verrà creato un comitato
esecutivo che sarà presieduto dall’ex inviato delle Nazioni Unite e ministro
della Difesa bulgaro, Nickolay Mladenov, col compito di coordinare il Consiglio
per la pace e un comitato tecnico palestinese incaricato della gestione
quotidiana della Striscia. Il ruolo di Mladenov sembra simile alle funzioni
inizialmente ipotizzate per Blair, che prevedevano di agire come un “esecutivo
supremo” gestendo un organismo che avrebbe dovuto supervisionare la transizione
postbellica a Gaza. Ma, a parte le indiscrezioni, del piano di amministrazione
post-bellica di Gaza promesso da Trump non è emerso ancora niente di concreto.
L'articolo “Tony Blair fuori dal Consiglio di pace per Gaza voluto da Trump”:
determinante l’opposizione dei Paesi arabi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tregua sempre più a rischio in Libano a un anno dall’entrata in vigore. Nelle
ultime ore infatti l’esercito israeliano ha condotto raid aerei nel Libano
meridionale, dopo aver emesso un avviso di evacuazione. Attacchi che riaccendono
i timori per un’escalation nell’area. “Gli aerei da guerra israeliani hanno
lanciato un attacco sulla città di Mahrouna“, mentre un altro raid ha preso di
mira una casa a Jbaa, ha affermato l’agenzia di stampa libanese Nna. Israele ha
confermato di aver avviato un’ondata di attacchi contro obiettivi di Hezbollah
nel sud del Libano e in una nota ha specificato di aver colpito “diversi
depositi di armi di proprietà di Hezbollah nel Libano meridionale”, che si
trovavano “nel cuore” della zone abitate da civili. “Questo è l’ennesimo esempio
del cinico uso dei libanesi come scudi umani da parte di Hezbollah e delle sue
continue operazioni dall’interno di aree civili”. La presenza di depositi di
armi, si legge ancora nella nota diffusa dall’esercito, “costituiva una
violazione degli accordi tra Israele e Libano”.
Prima dell’avvio dell’operazione, il colonnello Avichay Adraee, portavoce in
lingua araba dell’esercito, aveva esortato gli abitanti a evacuare. “L’Idf
attaccherà le infrastrutture militari appartenenti all’organizzazione
terroristica Hezbollah in tutto il Libano meridionale, in risposta ai suoi
tentativi proibiti di ricostruire le proprie attività nella zona”, aveva
avvertito Adraee. Insieme all’annuncio, l’Idf aveva pubblicato mappe con
l’ubicazione dei siti presi di mira, nelle città di Jbaa e Mahrouna.
Da Gaza intanto arriva la notizia dell’uccisione di Yasser Abu Shabab, leader
della milizia palestinese anti-Hamas Forze popolari, che nei mesi scorsi aveva
collaborato con Israele. Lo ha reso noto la radio dell’esercito israeliano
spiegando che Abu Shabab è morto in un ospedale nel sud di Israele per le ferite
da armi da fuoco riportate in uno “scontro interno”. Non è ancora chiara la
dinamica ma secondo le stesse fonti, insieme a lui sono stati uccisi, in
un’imboscata tesa dai miliziani di Hamas, un gran numero di membri del suo
gruppo e il comandante Ghassan al Duhine. Hamas non ha ancora rilasciato
commenti in merito. Secondo Sky News la milizia beduina di Abu Shabab stava
introducendo clandestinamente veicoli nella Striscia di Gaza con l’aiuto
dell’esercito israeliano e di un concessionario di automobili arabo-israeliano.
Nonostante lui abbia sempre negato, Abu Shabab era stato accusato da più parti
di essere armato dal governo di Tel Aviv proprio in funzione anti-Hamas. E nella
primavera scorsa aveva lavorato con la Gaza Humanitarian Foundation per scortare
i camion carichi di aiuti in entrata nella Striscia.
Gli scontri tra gruppi palestinesi rivali si sono acuiti dopo l’entrata in
vigore del cessate il fuoco e il ritiro dei soldati israeliani. A ottobre erano
state diffuse sui social immagini di esecuzioni pubbliche in cui venivano
freddati alcuni uomini accusati di essere collaborazionisti di Israele. Episodio
non isolato da inserire nella resa dei conti tra Hamas e le diverse fazioni
palestinesi che da sempre contendono il potere al movimento islamista, tra cui
il clan della famiglia Doghmush, attivo a Gaza City, e quello di Shabab radicato
invece nel sud.
L'articolo Raid di Israele sul Libano meridionale: “Colpiti obiettivi di
Hezbollah”. A Gaza ucciso Abu Shabab, leader della milizia anti-Hamas proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Almeno sei persone, tra quali due bambini, sono state uccise dai raid israeliani
di ieri sera a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, secondo quanto
riportato da media palestinesi. Poco prima Benjamin Netanyahu aveva detto che
Israele avrebbe risposto all’attacco lanciato contro l’Idf a Rafah, che ha
causato il ferimento di cinque soldati.
L'articolo Gaza, le tende degli sfollati in fiamme dopo i raid israeliani su
Khan Younis: sei morti, due sono bambini proviene da Il Fatto Quotidiano.
Dopo aver completato le operazioni di identificazione, Israele ha informato la
famiglia del cittadino tailandese Sudthisak Rinthalak che il suo corpo è stato
restituito allo Stato ebraico da miliziani palestinesi. Lo riportano i media
israeliani.
Israele afferma che Rinthalak, un bracciante agricolo thailandese di 42 anni,
era stato ucciso da miliziani di Hamas vicino al kibbutz Bèeri il 7 ottobre 2023
e il suo corpo era stato portato nella Striscia di Gaza. Il cadavere di
Rinthalak è stato ritrovato ieri mattina dal gruppo della Jihad Islamica nel
nord dell’enclave palestinese e consegnato nel pomeriggio alla Croce Rossa, che
lo ha a sua volta consegnato alle Forze di difesa israeliane (Idf). Nella
Striscia di Gaza rimane il corpo di un solo ostaggio ucciso: il sergente
maggiore Ran Gvili.
L'articolo Gaza, consegnato a Israele il corpo del penultimo ostaggio: è il
thailandese Rinthalak. Era stato ucciso il 7 ottobre 2023 proviene da Il Fatto
Quotidiano.
L’aviazione israeliana ha lanciato almeno quattro attacchi aerei sulla zona
occidentale di Khan Younis, città nel sud della Striscia di Gaza, uccidendo sei
persone tra cui due bambini. I raid erano stati annunciati dal premier di Tel
Aviv, Benjamin Netanyahu, come risposta a un attacco contro le Idf (le forze
armate israeliane) a Rafah, l’insediamento più meridionale della Striscia, che
ha ferito cinque soldati.
A quanto riferisce il giornale israeliano Haaretz citando fonti locali, quattro
missili delle Idf hanno bersagliato direttamente le tende degli sfollati a Khan
Younis. Un drone ha colpito una tenda rifugio nei pressi dell’ospedale
kuwaitiano, nella zona occidentale della città, mentre mezzi corazzati e mezzi
ingegneristici hanno aperto il fuoco nella parte orientale.
L'articolo Gaza, raid di Israele su Khan Younis: sei morti tra cui due bambini.
Netanyahu: “Risposta a un attacco ai nostri soldati” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La relatrice speciale dell’Onu sui Territori palestinesi occupati Francesca
Albanese, torna a Genova dopo il primo incontro con i portuali del Calp di
ottobre e a margine dello sciopero di ieri denuncia “l’ipocrisia delle potenze
occidentali” rispetto all’accordo raggiunto da Trump su Gaza.
“Ci hanno fatto credere che ci sia una tregua – dice – ma solo a Gaza, da quando
è stato annunciato il cessate il fuoco, sono stati uccisi più di 300
palestinesi. Israele continua a bombardare e il 50 per cento della Striscia
resta sotto occupazione militare. In Cisgiordania, intanto, i raid e le
aggressioni sono in aumento. Il genocidio non si è mai fermato. Ma la politica
occidentale, in questo momento, è più che servile verso gli Stati Uniti e la
stampa mediamente gli striscia dietro”.
In Cisgiordania, gli attacchi di coloni armati – spesso con copertura
dell’esercito israeliano – sono più che raddoppiati rispetto al 2022. Ma il
contesto che Albanese sottolinea riguarda anche l’Italia. “È fondamentale legare
la solidarietà con la Palestina alla critica sociale dei lavoratori – spiega –.
Non è solo un tema internazionale. È una questione che tocca la realtà della
gente. I cittadini vedono che, mentre si tagliano i servizi essenziali, si
continua a spendere per alimentare conflitti”.
Per Francesca Albanese, la protesta dei portuali genovesi contro l’invio di armi
verso paesi in guerra non è solo “simbolica”, ma può essere un esempio in grado
di contagiare altri porti: “È una battaglia di principio, ma che arriva anche al
cuore della società. Chi blocca il transito delle armi fa una scelta coerente,
non solo per la Palestina. Lo ha fatto anche per la guerra in Yemen. Questa è la
forma più pura di politica a favore della protezione dei cittadini”.
Da mesi il Calp, insieme a sigle sindacali e reti internazionali, denuncia il
passaggio di armamenti diretti verso lo Stato di Israele. In diverse occasioni,
come quest’estate e a settembre, carichi sospetti sono stati fermati o ritirati.
“Non si tratta di fare campagne elettorali – chiarisce Albanese –. Chi è qui
oggi lo fa perché vuole fermare la cultura della guerra”.
L'articolo Francesca Albanese a Genova dai portuali: “Dopo la ‘tregua’ a Gaza
300 morti. Mentre si tagliano i servizi si spende per i conflitti” proviene da
Il Fatto Quotidiano.
La più grande crisi morale del nostro tempo – negli ultimi due anni, da quando
ha avuto inizio il genocidio in Palestina – si misura con i morti e
l’indifferenza. Perché la più grande assente nello sguardo dell’Occidente su
Gaza è, secondo Roberto De Vogli, Professore di Salute globale e Psicologia del
potere all’Università di Padova – già docente in Salute pubblica ed
Epidemiologia sociale presso l’Università del Michigan, l’Università della
California Davis e University College London –, l’empatia.
In “Empatia selettiva: perché l’Occidente è rimasto a lungo indifferente al
genocidio di Gaza”, in uscita il 26 novembre per Compagnia editoriale Aliberti,
De Vogli mette a nudo i doppi standard morali di leader, giornalisti e
intellettuali mainstream e svela una società che riserva compassione solo a
determinate vittime, ignorandone altre. “Un libro brillante, potente ed
essenziale. Presenta una sfida morale che siamo obbligati ad affrontare”,
secondo George Monbiot, giornalista di The Guardian, in uscita anche per i tipi
di De Gruyter Brill e Haymarket con il titolo “Selective Empathy: The West
through the Gaze of Gaza”.
L’autore, che ha pubblicato su prestigiose riviste scientifiche internazionali
come “Nature”, “The Lancet” e “British Medical Journal“, ha dato vita alla
lettera aperta e all’appello pubblico “Stop the Silence: Academic Associations
Must Recognize the Genocide in Gaza”, che ha raccolto oltre 15.000 firme, di cui
5.500 da parte di professori universitari, ricercatori, medici e professionisti
(fra cui Norman Finkelstein), e che ha spinto numerose associazioni accademiche
e professionali, con oltre 10 milioni di iscritti, a riconoscere ufficialmente
il genocidio di Gaza.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto del volume:
3 giugno 2024. Immaginate di ricevere questo messaggio dall’editore con il quale
avete già firmato un contratto per scrivere un libro su Gaza: «Caro Roberto,
siamo lieti che tu abbia accettato la nostra proposta contrattuale per il tuo
libro Empatia selettiva. Tuttavia, prevediamo dei problemi con la parola
“genocidio”. Trattandosi di un termine giuridico, con una definizione legale
rigorosa, il suo utilizzo comporterebbe oneri e conseguenze legali sia per te
che per noi editori. Per evitare questo terreno scivoloso, ti chiediamo di
sostituire la parola “genocidio” con un termine privo di definizione giuridica,
sia nel sottotitolo che nel corpo del testo. Un possibile esempio potrebbe
essere “atrocità di massa”. Va bene? Un saluto, (firma)».
Ovviamente, non andava bene. Ma questo significava che non avevo più un editore.
Mesi dopo, in occasione di una conferenza a Istanbul, lessi il messaggio a un
vasto pubblico di accademici, ricercatori e attivisti. Al termine della
sessione, un uomo alto, con la barba e gli occhiali rossi, si avvicino. Era il
mio futuro editore. Dopo essersi presentato brevemente, mi sorrise e disse:
«Pubblicheremo noi il tuo libro con la parola genocidio».
Perché un libro sull’empatia selettiva? E perché proprio Gaza? Ci sono così
tante altre guerre nel mondo…
L’empatia selettiva è un tema sorprendentemente poco esplorato nella letteratura
accademica, nonostante la sua profonda rilevanza per la comprensione della
psicologia, della geopolitica e degli interventi umanitari. La manifestazione di
questo doppio standard morale ed emotivo non è mai stata così evidente come
nella risposta della comunità internazionale alla crisi umanitaria di Gaza. Per
almeno due anni, i palestinesi hanno sopportato livelli straordinari di
violenza, senza ricevere alcuna protezione o soccorso internazionale. La
disparità tra il sostegno, gli aiuti e l’assistenza militare ricevuti
dall’Ucraina è sconcertante. Ogni vita conta più di quante se ne possano
contare, eppure, in quasi due anni di aggressione (dal 7 ottobre 2023 al 9
luglio 2025), si stima che a Gaza siano morti 17.121 bambini a causa
dell’attacco israeliano (UNRWA, 2025). Questo dato va messo a confronto con i
521 bambini uccisi dall’esercito russo in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 fino al
31 dicembre 2024 (OHCHR, 2025). Questi numeri non sminuiscono una tragedia a
favore di un’altra, ma impongono una riflessione sul perché l’empatia e l’azione
internazionale siano state così diseguali.
Nonostante alcuni politici e accademici occidentali abbiano tentato di negare o
sminuire l’impatto letale dell’attacco israeliano a Gaza, le più rispettate
organizzazioni per i diritti umani al mondo, come Amnesty International e Human
Rights Watch, non hanno dubbi: a Gaza è stato commesso il crimine dei crimini.
Un genocidio. Mentre scrivo, si contano oltre 67.000 morti (per lo più civili) e
quasi 170.000 feriti (OCHA, 2025).
Un’analisi pubblicata sul «British Medical Journal» che confronta la mortalità
infantile nei recenti conflitti urbani ha rilevato che «sebbene le vittime
civili siano state significative in tutti i casi studiati, non si è mai
registrato un numero di morti civili, in particolare tra i bambini, come a Gaza
dallo scorso ottobre» (Bhutta et al., 2024). Negare il loro genocidio è come
ucciderli una seconda volta.
Perché l’Occidente? Sebbene la comunità internazionale dovrebbe rappresentare
gli interessi e il benessere del mondo intero, sono le potenze occidentali gli
attori più influenti e significativi dal punto di vista geopolitico ed
economico. Influenzano la direzione degli affari mondiali e le decisioni delle
organizzazioni internazionali e delle agenzie umanitarie più di qualsiasi altra
regione del mondo. Inoltre, commentatori e politici spesso dipingono la civiltà
occidentale come promotrice di nobili ideali quali giustizia, democrazia e
diritti umani. In realtà, questi princìpi sono stati miseramente disattesi.
Inoltre, l’Occidente non è solo spettatore del genocidio di Gaza, ma vi
partecipa attivamente dal punto di vista militare, economico e politico. Ciò
rende ogni cittadino occidentale complice. Mentre dovremmo prenderci cura e
provare compassione per tutte le vittime di qualsiasi guerra, le nostre azioni e
la nostra attenzione dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui crimini di guerra
commessi dai nostri governi.
La maggior parte dei media occidentali ha descritto l’attacco a Gaza come un
“conflitto” israelo-palestinese, iniziato il 7 ottobre 2023, quando Israele ha
affrontato quello che è stato definito il giorno più buio della sua storia. Si è
trattato indubbiamente di un attacco orribile, quando oltre un migliaio di
combattenti di Hamas e uomini armati palestinesi hanno oltrepassato le barriere
che separano Israele da Gaza, assalendo con violenza sia obiettivi militari che
civili. Questi crimini hanno provocato circa 1.200 morti (tra cui 33 bambini),
5.400 feriti e il rapimento di 280 civili e soldati (OCHA, 2025). Queste
spaventose atrocità, ampiamente enfatizzate dai media occidentali, costituiscono
crimini contro l’umanità e sono state giustamente condannate dalla comunità
internazionale e dalle organizzazioni per i diritti umani.
In risposta, Israele ha lanciato un’operazione militare devastante e imposto
numerosi blocchi. I bombardamenti sono stati sistematici e incessanti. I blocchi
hanno privato Gaza di cibo, acqua, carburante, aiuti, forniture mediche di base
e altri beni essenziali, causando diffusa insicurezza alimentare, carestie,
malattie infettive e indicibili sofferenze. Tutto ciò, unito alla distruzione di
ospedali, panifici, impianti idrici e igienico-sanitari, ha provocato un
bilancio delle vittime superiore a quello causato dalla violenza stessa. Di
fronte a una catastrofe umanitaria di tale entità, i media occidentali hanno
reagito in modo molto diverso rispetto a quanto avevano fatto per le vittime
della guerra in Ucraina, spesso minimizzando, razionalizzando o persino
giustificando le atrocità.
Nel mondo ci sono tanti aggressori stranieri. Perché proprio Israele? Perché
Israele ha battuto ogni record d’orrore nella storia recente. Almeno due anni di
bombardamenti e blocchi hanno provocato una crisi sanitaria catastrofica. In un
solo anno, l’aspettativa di vita alla nascita è crollata di circa 35 anni,
passando da 75,5 a 40,5 (Guillot et al., 2025). Si tratta del crollo più
significativo mai registrato in un solo anno negli ultimi tempi, persino più
grave della diminuzione della longevità registrata durante il genocidio ruandese
del 1994, quando la speranza di vita si ridusse di 30 anni (De Vogli et al.,
2025).
Nei primi quattro mesi del prolungato assedio di Gaza, le azioni militari
israeliane hanno causato la morte di più bambini rispetto a quelli uccisi da
tutte le altre nazioni in guerra nel mondo sommate negli ultimi quattro anni.
Israele è responsabile del maggior numero di amputazioni infantili pro capite al
mondo, nonché della distruzione del maggior numero di ospedali, ambulanze e
scuole nei più recenti teatri di guerra globali. Inoltre, Israele ha ucciso il
maggior numero di medici e personale sanitario nelle zone di conflitto e il
maggior numero di operatori ONU e volontari nella storia delle Nazioni Unite.
Gaza è anche il più grande cimitero di giornalisti uccisi in guerra al mondo.
Nonostante questi orrori, la tragedia in Palestina non ha suscitato ampie
manifestazioni di solidarietà da parte dei governi occidentali. Perché
l’Occidente è rimasto indifferente di fronte al genocidio più filmato della
storia?
L'articolo “L’indifferenza è la nostra vergogna, Gaza è lo specchio della nostra
ipocrisia”: l'”empatia selettiva” dell’Occidente spiegata nel nuovo libro del
prof. De Vogli proviene da Il Fatto Quotidiano.