Alla Scala di Milano, quel giovedì 7 dicembre del difficile 1995, andò in scena
il Die Zauberflöte, il Flauto magico di Mozart allestita da Roberto De Simone,
sul podio Riccardo Muti, nel palco reale Oscar Luigi Scalfaro, presidente della
Repubblica, eletto faticosamente dopo ventisei scrutini il 28 maggio 1992. La
capitale lombarda è ancora frastornata dallo tsunami di Mani Pulite, l’anno
prima era caduto il governo Berlusconi tradito dall’alleato leghista Umberto
Bossi, premier è Lamberto Dini, al governo c’è già un Salvini, ma è un Salvini
di ben altra pasta rispetto all’attuale vicepremier, è il grande fisico Giorgio
Salvini, un’autorità mondiale nel campo delle particelle, vanta un
impressionante curriculum scientifico, ed è ministro (assai competente)
dell’Università e ricerca scientifica e tecnologica.
Tre giorni dopo, nell’altra Scala meneghina, allo stadio San Siro, si giocò un
accanito Milan-Napoli, i rossoneri in testa alla serie A non andarono oltre un
ingiusto pareggio, 0-0, la squadra aveva trionfato sul tronfio Barcellona nella
finalissima di Coppa dei Campioni del 1994, ma quella sera Roberto Baggio
sbagliò un rigore (glielo parò Giuseppe Tagliatela, portiere bravissimo m
sottovalutato), il futuro presidente della Liberia, George Weah, non riuscì a
batterlo, nemmeno il magico fantasista Dejan Savicevic, il terzo straniero del
Milan – il numero massimo consentito – era il mediano di spinta Marcel Desailly,
a fianco di Paolo Maldini, Franco Baresi, Christian Panucci e Alessandro
Costacurta. In centrocampo, Demetrio Albertini, a far da sponde sulle ali
Roberto Donadoni, Paolo Di Canto e Marco Simone come partner di Weah.
Berlusconi scalpitava. Voleva aver mano libera per aumentare la qualità già
elevatissima della sua squadra, sapeva che da anni era in corso una gran
battaglia giuridica sul fronte del calcio per abbattere i vincoli delle
frontiere e i laccioli sugli ingaggi, propugnava la libertà di scambio e di
circolazione dei calciatori come già succedeva per i lavoratori della Comunità
Europea, in questo si sentiva profondamente europeista, se i valori comunitari
coincidevano con i suoi disegni di potere, sia politici, sia mediatici, sia
sportivi. Il calcio era la sua tribuna, il suo trampolino di uomo vincente,
l’imprenditore, anzi il Cavaliere che si identificava col successo, coi soldi,
con la retorica dell’uomo del destino. Il progetto Milan era quello di
trasformare la squadra in azienda capace di produrre, sfruttando l’integrazione
con la pubblicità e il commercio dei prodotti simboli (il cosiddetto
merchandising), soprattutto con le sue televisioni, profitti, non solo economici
e finanziari, ma d’immagine, e, di riflesso, capaci di penetrare e sedurre
l’opinione pubblica, cioè gli elettori. Meditava di trasformare, al pari con i
presidenti degli altri grandi club europei, il palcoscenico del calcio, e di
allargarlo, ma in senso elitario, per infittire gli incontri tra le squadre di
maggior prestigio, giacché le loro fortune economiche dipendevano sempre di più
dalle risorse commerciali e pubblicitarie.
Ed ecco che arriva venerdì 15 dicembre, a ridosso di Natale, con le cancellerie
mondiali in fibrillazione perché Arafat ha promesso di partecipar alla messa
nella chiesa della Natività di Betlemme, perché nei Balcani si profila una pace
difficile e in bilico, ma pur sempre una pace – la parola totem del discorso che
il presidente Scalfaro pronuncerà alla fine dell’anno. Le prime pagine dei
giornali di quel venerdì erano tutte occupate da un evento che veniva
addirittura definito “epocale”, ossia il Consiglio Europeo di Madrid con tutti i
leader dei vari Paesi a discutere sui temi più “caldi” e più lungimiranti, a
cominciare dalla delicata e dirompente istituzione della moneta unica che
avrebbe rivoluzionato il mercato finanziario e quello commerciale (con l’Italia
ancora sotto osservazione, non sicura di entrare a farvi parte sin da subito, il
16 settembre del 1992, infatti, la lira fu costretta ad uscire dal sistema
monetario europeo, svalutandosi fortemente). Sul tavolo delle trattative, poi,
c’erano le urgenti problematiche dell’occupazione e dell’integrazione per via
dei crescenti flussi migratori, e l’allargamento dell’Europa, con tanto di
Conferenza Intergovernativa per riformare le istituzioni europee in previsione
dei nuovi aderenti, dopo il crollo del Muro di Berlino, la repentina caduta
dell’Unione Sovietica e gli appelli dei Paesi ex Patto di Varsavia che
chiedevano a Bruxelles di aderire quanto prima possibile, affamati di libertà e
di Occidente.
Già, Bruxelles. Quello stesso 15 dicembre, mentre a Madrid si discuteva dei
massimi sistemi politici internazionali, la Corte di Giustizia della Comunità
Europea del Lussemburgo, su sollecitazione del tribunale del Belgio, con una
clamorosa sentenza (causa C-415/93 Bosman, trovate il testo integrale cliccando
su Google, ndr) riconosceva le tormentate ragioni del centrocampista belga Jean
Marc Bosman che al momento della sentenza aveva ormai trentun anni, ma che aveva
cominciato la battaglia legale cinque anni prima, di fatto interrompendo la sua
carriera nella serie A del suo Paese. Era una sorta di bazooka giuridico contro
le norme restrittive delle associazioni sportive per quel che riguardava le
limitazioni ai trasferimenti di calciatori dei paesi comunitari da una squadra
all’altra. Era la fine delle “partite del cuore”, delle squadre nazionalmente
rappresentate. Si consolidò il “doppio registro”, come lo definiscono Antonio
Papa e Guido Panico nel bel saggio Storia sociale del calcio in Italia (Il
Mulino, 2000), “quello delle oligarchie, distratte dominatrici del campionato, e
quelle delle squadre del ceto medio”. Solo che la dicotomia si è sviluppata in
modo estremo, e sempre più divergente. Due mondi diversi ed opposti
concettualmente. Il primo sempre più dotato di grandi risorse. Il secondo,
costretto a rincorrere sponsor e a ricercare giocatori che non costano troppo,
per sopravvivere in serie A e in serie B.
Personalmente, concordo con Oliviero Beha, mio compianto collega che scrisse un
polemico saggio assieme ad Andrea Di Caro, Indagine sul calcio (Rizzoli Bur,
2006). I due titolarono un capitolo “il casino Bosman”, e non “il caso Bosman”.
Infatti la sentenza non solo riscriveva d’un botto (e che botto!) le regole del
calcio europeo. Le rivoluzionava. Come scrissero in prima pagina tutti i
quotidiani del giorno dopo, e gli articoli, lo documentarono i dati editoriali,
furono i più letti, altro che Madrid… La Gazzetta dello Sport, per esempio, fece
a lettere cubitali un titolo perentorio: “Il calcio grida no!”, nell’occhiello
si riassumeva: “Bosman vince: via vincolo, parametri e frontiere”, spiegando
sinteticamente le reazioni a caldo nel sommarione: “La sentenza dell’Alta Corte
rivoluzionerebbe 18 federazioni e la vita dei club. L’Uefa contrattacca: ‘Un
attentato al calcio: andiamo avanti così, con un patto d’onore’. Coni,
Matarrese. Lega e Campana sono d’accordo: si cercherà la strada per parare il
colpo”.
Antonio Matarrese, presidente della Figc. Sergio Campana, oltre che attaccante
del mitico Lanerossi Vicenza, si era laureato in Legge ed era diventato un
agguerrito avvocato, tant’è che il 3 luglio del 1968 – sull’onda del
Sessantotto… – fondò l’Associazione Italiana Calciatori, di cui rimase
presidente sino al 28 aprile del 201. Il suo scopo era difendere i diritti più
che gli interessi dei grandi campioni, quelli degli atleti meno noti e
fortunati, specialmente quelli che militavano nelle serie inferiori dove
capitava di tutto e dove i diritti più elementari spesso erano ignorati.
Beha e Di Caro scrissero con arguzia che la sentenza Bosman ebbe “l’effetto di
un elefante in un negozio se non di porcellane almeno di elettrodomestici” (cfr.
I televisori): nell’Unione Europea, il trasferimento di giocatori in scadenza di
contratto da allora in poi sarebbe dovuto avvenire senza alcun indennizzo da
parte del club acquirente a favore di quello cedente. Anche qui, seguendo il più
generale indirizzo continentale sul modello di altri settori meno specifici del
pallone, era arrivata la liberalizzazione: una specie di ‘crollo del muro’ del
mercato calcistico tra i paesi comunitari, e la fine del ‘tetto’ agli stranieri
nelle squadre italiane.
Dopo dieci anni, gli effetti niente affatto collaterali erano evidenti: si era
allargata a dismisura la forbice tra squadre ricche e povere, “ha fatto perdere
l’identità nazionale alle squadre che hanno fatto incetta di stranieri”, disse
nel 2006 il segretario generale dell’Uefa, Lars-Christer Olsson, “l’abolizione
del tetto 3+2, tre giocatori comunitari e due extracomunitari per squadra, in
vigore sino ad allora, fu ancora più importante della regola sui trasferimenti.
In questo modo sono stati persi i valori tradizionali, e un piccolo gruppo di
società prive di interesse per i vivai o per la dimensione sociale del nostro
sport, ma ricche dal punto di vista commerciale, ha guidato lo sviluppo del
calcio dei club. Vorremmo cambiare tutto questo”.
Invece, si è marciato a ranghi stretti dalla parte opposta. In serie A, per
esempio, è capitato che alcune partite si siano disputate senza giocatori
italiani titolari al fischio d’inizio. La percentuale dei giocatori stranieri è
elevatissima, supera il 70 per cento. E pensare che tutto è cominciato per una
serie incredibile di miopie e avarizie societarie (beh, i belgi sono famosi…).
Nel 1982 Jean Marc Bosman aveva 17 anni e pensava d’aver sfondato perché l’aveva
ingaggiato lo Standard Liegi, una delle squadre di punta della prima divisione
belga. Era un giovane promettente, lo schieravano nelle nazionali di categoria,
divenne il capitano di quella under 21, insomma, pareva destinato ad una bella
carriera. Nel 1988, ottiene il trasferimento all’Fc Liegi, squadra rivale dello
Standard, per 100mila dollari (allora equivalenti a 160 milioni di lire). Ma col
passare del tempo è scontento, gioca sempre di meno e scalpita per cambiare
squadra.
Nel giugno del 1990 il Dunkerque, che milita nella seconda divisione francese ed
è non lontano dal confine col Belgio, gli offre un posto in squadra. L’Fc Liegi
peraltro gli aveva rinnovato il contratto ma con una pesante decurtazione del 60
per cento che Bosman non accettò. Il Liegi, per ripicca, avanza una pretesa:
vuole 800mila dollari di indennizzo per il trasferimento ma il Dunkerque
risponde picche, o meglio non risponde, piglia tempo. Il club belga non ha
fiducia nelle casse della squadra francese, non lascia libero Bosman e lo
sospende. Il quale, ad agosto, si rivolge alla Corte di Giustizia e cita per
danni sia il club sia la Federazione belga. Tre mesi dopo, la Corte consente a
Bosman di andar via e giocare per il Saint Quentin, squadra della terza
divisione francese. Inizia il suo lungo esilio, che lo porterà per pochi soldi
sino all’isola della Réunion.
Intanto, la Corte d’Appello di Liegi conferma nel maggio del 1991 il verdetto
precedente, e fa di più: chiede alla Corte di Giustizia europea il parere su
come interpretare le leggi Ue sulla libera circolazione dei lavoratori nell’area
comunitaria. Secondo gli avvocati del giocatore, infatti, la disciplina
calcistica sui trasferimenti e le normative relative all’utilizzo degli
stranieri sono in contrasto con alcuni articoli della Costituzione europea che
sanciscono la libera circolazione di lavoratori tra i Paesi dell’Unione europea.
Persino Bosman, nemmeno un mese dopo, si rese conto dell’impatto che aveva
provocato la sentenza a lui favorevole, come confessò al quotidiano belga La
Dernière/Les Sports (15/1/1996), “la Corte di Giustizia è intervenuta più
severamente di quanto io e i miei avvocati pensassimo”. Per lui, fu una
“decisione radicale”, e la colpa la attribuì all’Uefa, poiché per “troppi anni
aveva fatto orecchie da mercante” alle ingiunzioni della Corte europea: “Questa
mazzata l’Uefa se l’è in qualche modo cercata. Io comunque non ho voluto la
distruzione del calcio, ma il suo progresso”. E profetizzò: “La mia azione
renderà il mestiere dei calciatori più piacevole e gli permetterà di guadagnarsi
più facilmente da vivere”.
A Donnarumma, a Ronaldo, a M’bappé, ai vip del pallone è andata alla grande. A
lui proprio no, nonostante la cospicua cifra che il club dovette versargli a
titolo di riparazione. Quei soldi finirono in tasca agli avvocati, per coprire
le spese. Lui fu ostracizzato dalle squadre belghe. Smise di giocare. Finì in
depressione. Alcolismo. Divorzio. Guai con la giustizia per violenza in
famiglia. Oggi tira avanti coi sussidi che l’associazione internazionale dei
giocatori gli passa.
Non passano invece i guai del pallone, stritolato dall’avidità di Uefa e Fifa,
dagli investitori stranieri a briglia sciolta nei campionati più importanti e
anche in quelli meno prestigiosi, dalle troppe partite che ammazzano non solo il
calcio ma anche chi gioca, per via degli infortuni che si moltiplicano a
dismisura. L’intensa esasperata commercializzazione di quello che è stato
definito il “gioco più bello del mondo”, in cui si cerca di guadagnare quanto
più si può nel più breve tempo possibile, sta nuocendo a questo sport, per
eccesso – paradossalmente – di offerta calcistica e perché le squadre sono ormai
preda di uno shopping forsennato da parte di investitori e di fondi
extracomunitari, senza dimenticare gli sconcertanti casi di rastrellamenti con
capitali dubbi, o quelli in cui emergono le reali motivazioni legate
all’affarismo immobiliare (vedi Milan, Inter, Roma) sino allo sprofondo di
situazioni che hanno visto e subìto infiltrazioni criminali rendendo il calcio
una sorta di Far West.
Dunque, anagrammando il “caso” Bosman, abbiamo il “caos” figlio della sentenza
Bosman. Soccombono la cultura, la storia e la tradizione del calcio. Amen.
L'articolo Trent’anni fa il bazooka giuridico che rivoluzionò il calciomercato:
da Bosman in poi regnano caos e affarismo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Corte di Giustizia Europea
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Quello che è successo oggi al Parlamento europeo non è una semplificazione. È un
colpo di mano contro la sostenibilità e contro lo stato di diritto.
Hanno appena approvato l’Omnibus I: il pacchetto che “alleggerisce” (leggi:
smonta) regole su rendicontazione di sostenibilità (CSRD) e due diligence
(CSDDD). Tradotto: meno aziende obbligate a raccontare cosa fanno davvero su
clima e diritti umani, più spazio per chi inquina e chi chiude gli occhi lungo
la filiera.
Il Parlamento che doveva difendere il Green Deal oggi si è comportato come
un’assemblea di banditi climatici: si presentano come tutori della
competitività, ma l’unica cosa che stanno proteggendo sono le rendite delle
lobby che da decenni ci hanno portato dentro la crisi climatica.
La cosa più surreale? Non l’hanno fatto “a malincuore” perché costretti da
qualcuno. Hanno votato contro la visione, la missione, l’assunzione di
responsabilità che il precedente Parlamento e la precedente Commissione von der
Leyen – la stessa che ha partorito il Green Deal – avevano scelto. Oggi quella
stessa Commissione si regge su una nuova maggioranza PPE + conservatori +
patrioti/sovranisti, che guarda sempre meno al Green Deal e sempre più
all’estrema destra. È una capriola politica che ha dell’incredibile: prima
costruisci un’architettura ambiziosa su clima e diritti, poi ti presenti con un
Omnibus per svuotarla dall’interno.
E qui arriva il pezzo che passa sotto traccia ma che, per la mia formazione
giuridica e il mio passato da legislatore, mi fa ancora più arrabbiare. Oltre
100 esperti di diritto europeo hanno scritto alla commissione JURI del
Parlamento avvertendo che l’Omnibus I potrebbe violare il diritto dell’Unione e
la Carta dei diritti fondamentali, perché usa una scorciatoia procedurale, senza
valutazioni d’impatto complete né consultazioni adeguate.
Non è solo una brutta legge sul clima. È un possibile precedente legale
pericolosissimo: se passa l’idea che puoi riaprire direttive complesse come CSRD
e CSDDD con un pacchetto omnibus “tecnico”, domani puoi ritoccare qualsiasi
cosa: privacy, AI Act, diritti dei lavoratori… Per questo spero sinceramente che
la Corte di Giustizia dell’Ue annulli l’Omnibus I. Non si scherza con il
diritto: se accettiamo che le regole del gioco vengano piegate così, non stiamo
solo indebolendo la sostenibilità. Stiamo aprendo la porta a un’Europa dove le
procedure valgono finché non danno fastidio alle lobby. E quando il diritto
diventa elastico a seconda di chi bussa alla porta, non è “modernizzazione”: è
il modo in cui si torna, lentamente ma inesorabilmente, a secoli bui.
Perché mi scaldo così? Perché mentre loro giocano con i cavilli, qui fuori ci
sono imprese che stanno investendo davvero in transizione ecologica, filiere
pulite, trasparenza. E un Parlamento che legittima i banditi climatici le mette
tutte sullo stesso piano: chi inquina e chi prova a cambiare. Se lasciamo
passare questo voto come un tecnicismo da addetti ai lavori, abbiamo già perso.
L'articolo Perché spero sinceramente che la Corte di Giustizia dell’Ue annulli
l’Omnibus I proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Corte d’Appello di Roma ha chiesto di nuovo alla Corte di giustizia
dell’Unione europea di esprimersi sul protocollo tra Italia e Albania. Stavolta
chiede di sapere se l’Italia avesse davvero il diritto di firmare quell’accordo
e creare i centri di trattenimento a Shëngjin e Gjader, visto che le regole
sull’asilo sono decise soprattutto a livello europeo. Un’altra tegola che si
abbatte sul fallimentare progetto del governo, che tuttavia Giorgia Meloni ha
rilanciato ieri durante il vertice intergovernativo Italia-Albania a Villa
Pamphilj, accanto al presidente albanese Edi Rama. Un “funzionerà bis” che si
aggrappa al Patto su migrazione e asilo, la riforma Ue operativa dal prossimo
giugno che rivedrà le norme sulla designazione dei Paesi sicuri, primo inciampo
dell’accordo con Tirana. Ma il nuovo rinvio alla Corte Ue mina proprio questa
certezza, l’ultima che rimane a Meloni.
“Certamente il protocollo funzionerà quando entrerà in campo il nuovo patto su
migrazione e asilo” ma “devo chiedere una riflessione: perché sono stati
bloccati dei trasferimenti di migranti ritenendo che paesi come Bangladesh e
Tunisia non fossero paesi sicuri, nel momento in cui la proposta della
Commissione europea di una lista di paesi sicuri annovera al suo interno
Bangladesh e Tunisia? Dove sta la ragione?” ha domandato Meloni. Ripetere aiuta:
la Corte Ue ha definitivamente chiarito che la normativa europea non ammette la
designazione di Paesi sicuri con eccezioni per categorie di persone, come nella
lista italiana alla base dei trasferimenti in Albania. Dunque non si possono
applicare procedure d’esame “accelerate” delle domande di protezione, sommarie e
con meno garanzie. La procedura applicabile è quella ordinaria e non prevede
trattenimento, né in Italia né in Albania. Non solo. Indipendentemente dalle
ragioni della designazione, ad agosto la Corte Ue ha ribadito che l’ultima
parola spetta al giudice. Non ai governi degli Stati Ue, né alla Commissione
europea, che è liberissima di proporre la sua lista dei Paesi sicuri ma questo
non solleva il giudice dall’obbligo di controllo giurisdizionale che la legge
gli impone. Recente, a proposito di Paesi sicuri, il riconoscimento della
protezione sussidiaria a una donna tunisina perché, ha scritto il Tribunale di
Messina, la Tunisia non è in grado o non voleva garantire una protezione
effettiva nei suoi confronti, dopo aver subito violenza sessuale, sfratto
forzato e minacce.
Ma i principi stabiliti ad agosto, la Corte di giustizia li aveva già scritti in
buona parte nella precedente sentenza dell’ottobre 2024, che il governo aveva
praticamente ignorato tirando dritto verso l’apertura dei centri in Albania, poi
puntualmente schiantati sulla normativa Ue. Ora Meloni punta tutto sul Patto
migrazione e asilo, certa che tra sette mesi si risolverà tutto. Invece non è
detto. Anzi, stavolta la posta è ancora più alta perché il 5 novembre 2025 la
giudice Antonella Marrone della Corte d’Appello di Roma ha firmato un’ordinanza
di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue ai sensi del Trattato
dell’Unione europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE). Il caso riguarda la convalida del trattenimento di un cittadino
marocchino richiedente asilo, inizialmente detenuto in Italia e poi trasferito a
Gjader. La Corte d’Appello esprime dubbi sulla competenza dell’Italia a
stipulare il Protocollo, chiedendo ai giudici di Lussemburgo se la materia
dell’accordo non ricada invece nella competenza esclusiva dell’Unione Europea,
“tenuto conto di quanto disposto dagli articoli 4, par. 3 TUE, 3 par. 2 TFUE e
216 par. 1 TFUE, secondo cui l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione
di accordi internazionali allorché tale conclusione può incidere su norme comuni
o modificarne la portata”, si legge nell’ordinanza che solleva il rinvio.
Secondo la Corte d’Appello, che non dimentica di citare precedenti sentenze Ue,
la materia è disciplinata in gran parte dalle norme europee: “Il sistema europeo
comune di asilo (CEAS, ndr), secondo quanto voluto dall’art. 78 TFUE come
riscritto con il Trattato di Lisbona, non detta più soltanto norme minime
cogenti per gli Stati ma costituisce una vera e propria politica comune in
materia di asilo”. Quando il diritto dell’Unione disciplina in modo così ampio
una materia, argomenta la Corte d’Appello, si pone il problema della competenza
esclusiva dell’Unione a concludere accordi internazionali ai sensi dell’art. 3,
par. 2, TFUE. “E’ opinione di questo giudicante – si legge nell’ordinanza – che
l’accordo stipulato dall’Italia con l’Albania sia idoneo a pregiudicare
l’applicazione uniforme e coerente delle norme dell’Unione e il buon
funzionamento del sistema che esse istituiscono sotto molteplici aspetti”. Col
“rischio che l’accordo incida su norme comuni dell’Unione o ne modifichi la
portata”, condizione che, ai sensi del TFUE, attribuirebbe competenza esclusiva
all’Unione per l’eventuale stipula di trattati.
“Tale ipotizzata illegittimità radicale non potrebbe essere superata in alcun
modo dall’attuazione delle nuove misure normative del Patto europeo sull’asilo
previste per giugno 2026″, ha spiegato sull’Unità Gianfranco Schiavone, esperto
di migrazioni internazionali e socio Asgi. Perché la questione non riguarda solo
l’eventuale contrasto con alcune norme europee, che pure viene sollevato anche
in questo rinvio, ma l’architettura stessa delle istituzioni europee. Tanto che
“la decisione della CGUE avrà incidenza anche su qualsiasi altro accordo
presente o futuro che segua l’impostazione del Protocollo tra Italia ed Albania
di esternalizzare la procedura di asilo”, ha spiegato Schiavone. Con buona pace
di governi e commissari europei e dell’interesse più volte espresso, pur senza
superare le tante ambiguità, per l’iniziativa italiana definitiva innovativa. Di
sicuro inedita, e infatti andava valutata prudentemente alla luce dell’impianto
normativo che regge l’Unione. Cosa che Meloni e soci si sono ben guardati dal
fare prima di mettere in moto un progetto da oltre 700 milioni di euro che ha
interessato poche decine di migranti, tutti portati in Italia. E così la
presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che non ha mai voluto
entrare nel merito di un simile accordo. Lo faranno, ancora una volta, i giudici
di Lussemburgo.
L'articolo Migranti in Albania, Meloni rilancia: “Il protocollo funzionerà”. Ma
c’è un nuovo rinvio alla Corte Ue: “Non poteva firmarlo” proviene da Il Fatto
Quotidiano.