Alla Scala di Milano, quel giovedì 7 dicembre del difficile 1995, andò in scena
il Die Zauberflöte, il Flauto magico di Mozart allestita da Roberto De Simone,
sul podio Riccardo Muti, nel palco reale Oscar Luigi Scalfaro, presidente della
Repubblica, eletto faticosamente dopo ventisei scrutini il 28 maggio 1992. La
capitale lombarda è ancora frastornata dallo tsunami di Mani Pulite, l’anno
prima era caduto il governo Berlusconi tradito dall’alleato leghista Umberto
Bossi, premier è Lamberto Dini, al governo c’è già un Salvini, ma è un Salvini
di ben altra pasta rispetto all’attuale vicepremier, è il grande fisico Giorgio
Salvini, un’autorità mondiale nel campo delle particelle, vanta un
impressionante curriculum scientifico, ed è ministro (assai competente)
dell’Università e ricerca scientifica e tecnologica.
Tre giorni dopo, nell’altra Scala meneghina, allo stadio San Siro, si giocò un
accanito Milan-Napoli, i rossoneri in testa alla serie A non andarono oltre un
ingiusto pareggio, 0-0, la squadra aveva trionfato sul tronfio Barcellona nella
finalissima di Coppa dei Campioni del 1994, ma quella sera Roberto Baggio
sbagliò un rigore (glielo parò Giuseppe Tagliatela, portiere bravissimo m
sottovalutato), il futuro presidente della Liberia, George Weah, non riuscì a
batterlo, nemmeno il magico fantasista Dejan Savicevic, il terzo straniero del
Milan – il numero massimo consentito – era il mediano di spinta Marcel Desailly,
a fianco di Paolo Maldini, Franco Baresi, Christian Panucci e Alessandro
Costacurta. In centrocampo, Demetrio Albertini, a far da sponde sulle ali
Roberto Donadoni, Paolo Di Canto e Marco Simone come partner di Weah.
Berlusconi scalpitava. Voleva aver mano libera per aumentare la qualità già
elevatissima della sua squadra, sapeva che da anni era in corso una gran
battaglia giuridica sul fronte del calcio per abbattere i vincoli delle
frontiere e i laccioli sugli ingaggi, propugnava la libertà di scambio e di
circolazione dei calciatori come già succedeva per i lavoratori della Comunità
Europea, in questo si sentiva profondamente europeista, se i valori comunitari
coincidevano con i suoi disegni di potere, sia politici, sia mediatici, sia
sportivi. Il calcio era la sua tribuna, il suo trampolino di uomo vincente,
l’imprenditore, anzi il Cavaliere che si identificava col successo, coi soldi,
con la retorica dell’uomo del destino. Il progetto Milan era quello di
trasformare la squadra in azienda capace di produrre, sfruttando l’integrazione
con la pubblicità e il commercio dei prodotti simboli (il cosiddetto
merchandising), soprattutto con le sue televisioni, profitti, non solo economici
e finanziari, ma d’immagine, e, di riflesso, capaci di penetrare e sedurre
l’opinione pubblica, cioè gli elettori. Meditava di trasformare, al pari con i
presidenti degli altri grandi club europei, il palcoscenico del calcio, e di
allargarlo, ma in senso elitario, per infittire gli incontri tra le squadre di
maggior prestigio, giacché le loro fortune economiche dipendevano sempre di più
dalle risorse commerciali e pubblicitarie.
Ed ecco che arriva venerdì 15 dicembre, a ridosso di Natale, con le cancellerie
mondiali in fibrillazione perché Arafat ha promesso di partecipar alla messa
nella chiesa della Natività di Betlemme, perché nei Balcani si profila una pace
difficile e in bilico, ma pur sempre una pace – la parola totem del discorso che
il presidente Scalfaro pronuncerà alla fine dell’anno. Le prime pagine dei
giornali di quel venerdì erano tutte occupate da un evento che veniva
addirittura definito “epocale”, ossia il Consiglio Europeo di Madrid con tutti i
leader dei vari Paesi a discutere sui temi più “caldi” e più lungimiranti, a
cominciare dalla delicata e dirompente istituzione della moneta unica che
avrebbe rivoluzionato il mercato finanziario e quello commerciale (con l’Italia
ancora sotto osservazione, non sicura di entrare a farvi parte sin da subito, il
16 settembre del 1992, infatti, la lira fu costretta ad uscire dal sistema
monetario europeo, svalutandosi fortemente). Sul tavolo delle trattative, poi,
c’erano le urgenti problematiche dell’occupazione e dell’integrazione per via
dei crescenti flussi migratori, e l’allargamento dell’Europa, con tanto di
Conferenza Intergovernativa per riformare le istituzioni europee in previsione
dei nuovi aderenti, dopo il crollo del Muro di Berlino, la repentina caduta
dell’Unione Sovietica e gli appelli dei Paesi ex Patto di Varsavia che
chiedevano a Bruxelles di aderire quanto prima possibile, affamati di libertà e
di Occidente.
Già, Bruxelles. Quello stesso 15 dicembre, mentre a Madrid si discuteva dei
massimi sistemi politici internazionali, la Corte di Giustizia della Comunità
Europea del Lussemburgo, su sollecitazione del tribunale del Belgio, con una
clamorosa sentenza (causa C-415/93 Bosman, trovate il testo integrale cliccando
su Google, ndr) riconosceva le tormentate ragioni del centrocampista belga Jean
Marc Bosman che al momento della sentenza aveva ormai trentun anni, ma che aveva
cominciato la battaglia legale cinque anni prima, di fatto interrompendo la sua
carriera nella serie A del suo Paese. Era una sorta di bazooka giuridico contro
le norme restrittive delle associazioni sportive per quel che riguardava le
limitazioni ai trasferimenti di calciatori dei paesi comunitari da una squadra
all’altra. Era la fine delle “partite del cuore”, delle squadre nazionalmente
rappresentate. Si consolidò il “doppio registro”, come lo definiscono Antonio
Papa e Guido Panico nel bel saggio Storia sociale del calcio in Italia (Il
Mulino, 2000), “quello delle oligarchie, distratte dominatrici del campionato, e
quelle delle squadre del ceto medio”. Solo che la dicotomia si è sviluppata in
modo estremo, e sempre più divergente. Due mondi diversi ed opposti
concettualmente. Il primo sempre più dotato di grandi risorse. Il secondo,
costretto a rincorrere sponsor e a ricercare giocatori che non costano troppo,
per sopravvivere in serie A e in serie B.
Personalmente, concordo con Oliviero Beha, mio compianto collega che scrisse un
polemico saggio assieme ad Andrea Di Caro, Indagine sul calcio (Rizzoli Bur,
2006). I due titolarono un capitolo “il casino Bosman”, e non “il caso Bosman”.
Infatti la sentenza non solo riscriveva d’un botto (e che botto!) le regole del
calcio europeo. Le rivoluzionava. Come scrissero in prima pagina tutti i
quotidiani del giorno dopo, e gli articoli, lo documentarono i dati editoriali,
furono i più letti, altro che Madrid… La Gazzetta dello Sport, per esempio, fece
a lettere cubitali un titolo perentorio: “Il calcio grida no!”, nell’occhiello
si riassumeva: “Bosman vince: via vincolo, parametri e frontiere”, spiegando
sinteticamente le reazioni a caldo nel sommarione: “La sentenza dell’Alta Corte
rivoluzionerebbe 18 federazioni e la vita dei club. L’Uefa contrattacca: ‘Un
attentato al calcio: andiamo avanti così, con un patto d’onore’. Coni,
Matarrese. Lega e Campana sono d’accordo: si cercherà la strada per parare il
colpo”.
Antonio Matarrese, presidente della Figc. Sergio Campana, oltre che attaccante
del mitico Lanerossi Vicenza, si era laureato in Legge ed era diventato un
agguerrito avvocato, tant’è che il 3 luglio del 1968 – sull’onda del
Sessantotto… – fondò l’Associazione Italiana Calciatori, di cui rimase
presidente sino al 28 aprile del 201. Il suo scopo era difendere i diritti più
che gli interessi dei grandi campioni, quelli degli atleti meno noti e
fortunati, specialmente quelli che militavano nelle serie inferiori dove
capitava di tutto e dove i diritti più elementari spesso erano ignorati.
Beha e Di Caro scrissero con arguzia che la sentenza Bosman ebbe “l’effetto di
un elefante in un negozio se non di porcellane almeno di elettrodomestici” (cfr.
I televisori): nell’Unione Europea, il trasferimento di giocatori in scadenza di
contratto da allora in poi sarebbe dovuto avvenire senza alcun indennizzo da
parte del club acquirente a favore di quello cedente. Anche qui, seguendo il più
generale indirizzo continentale sul modello di altri settori meno specifici del
pallone, era arrivata la liberalizzazione: una specie di ‘crollo del muro’ del
mercato calcistico tra i paesi comunitari, e la fine del ‘tetto’ agli stranieri
nelle squadre italiane.
Dopo dieci anni, gli effetti niente affatto collaterali erano evidenti: si era
allargata a dismisura la forbice tra squadre ricche e povere, “ha fatto perdere
l’identità nazionale alle squadre che hanno fatto incetta di stranieri”, disse
nel 2006 il segretario generale dell’Uefa, Lars-Christer Olsson, “l’abolizione
del tetto 3+2, tre giocatori comunitari e due extracomunitari per squadra, in
vigore sino ad allora, fu ancora più importante della regola sui trasferimenti.
In questo modo sono stati persi i valori tradizionali, e un piccolo gruppo di
società prive di interesse per i vivai o per la dimensione sociale del nostro
sport, ma ricche dal punto di vista commerciale, ha guidato lo sviluppo del
calcio dei club. Vorremmo cambiare tutto questo”.
Invece, si è marciato a ranghi stretti dalla parte opposta. In serie A, per
esempio, è capitato che alcune partite si siano disputate senza giocatori
italiani titolari al fischio d’inizio. La percentuale dei giocatori stranieri è
elevatissima, supera il 70 per cento. E pensare che tutto è cominciato per una
serie incredibile di miopie e avarizie societarie (beh, i belgi sono famosi…).
Nel 1982 Jean Marc Bosman aveva 17 anni e pensava d’aver sfondato perché l’aveva
ingaggiato lo Standard Liegi, una delle squadre di punta della prima divisione
belga. Era un giovane promettente, lo schieravano nelle nazionali di categoria,
divenne il capitano di quella under 21, insomma, pareva destinato ad una bella
carriera. Nel 1988, ottiene il trasferimento all’Fc Liegi, squadra rivale dello
Standard, per 100mila dollari (allora equivalenti a 160 milioni di lire). Ma col
passare del tempo è scontento, gioca sempre di meno e scalpita per cambiare
squadra.
Nel giugno del 1990 il Dunkerque, che milita nella seconda divisione francese ed
è non lontano dal confine col Belgio, gli offre un posto in squadra. L’Fc Liegi
peraltro gli aveva rinnovato il contratto ma con una pesante decurtazione del 60
per cento che Bosman non accettò. Il Liegi, per ripicca, avanza una pretesa:
vuole 800mila dollari di indennizzo per il trasferimento ma il Dunkerque
risponde picche, o meglio non risponde, piglia tempo. Il club belga non ha
fiducia nelle casse della squadra francese, non lascia libero Bosman e lo
sospende. Il quale, ad agosto, si rivolge alla Corte di Giustizia e cita per
danni sia il club sia la Federazione belga. Tre mesi dopo, la Corte consente a
Bosman di andar via e giocare per il Saint Quentin, squadra della terza
divisione francese. Inizia il suo lungo esilio, che lo porterà per pochi soldi
sino all’isola della Réunion.
Intanto, la Corte d’Appello di Liegi conferma nel maggio del 1991 il verdetto
precedente, e fa di più: chiede alla Corte di Giustizia europea il parere su
come interpretare le leggi Ue sulla libera circolazione dei lavoratori nell’area
comunitaria. Secondo gli avvocati del giocatore, infatti, la disciplina
calcistica sui trasferimenti e le normative relative all’utilizzo degli
stranieri sono in contrasto con alcuni articoli della Costituzione europea che
sanciscono la libera circolazione di lavoratori tra i Paesi dell’Unione europea.
Persino Bosman, nemmeno un mese dopo, si rese conto dell’impatto che aveva
provocato la sentenza a lui favorevole, come confessò al quotidiano belga La
Dernière/Les Sports (15/1/1996), “la Corte di Giustizia è intervenuta più
severamente di quanto io e i miei avvocati pensassimo”. Per lui, fu una
“decisione radicale”, e la colpa la attribuì all’Uefa, poiché per “troppi anni
aveva fatto orecchie da mercante” alle ingiunzioni della Corte europea: “Questa
mazzata l’Uefa se l’è in qualche modo cercata. Io comunque non ho voluto la
distruzione del calcio, ma il suo progresso”. E profetizzò: “La mia azione
renderà il mestiere dei calciatori più piacevole e gli permetterà di guadagnarsi
più facilmente da vivere”.
A Donnarumma, a Ronaldo, a M’bappé, ai vip del pallone è andata alla grande. A
lui proprio no, nonostante la cospicua cifra che il club dovette versargli a
titolo di riparazione. Quei soldi finirono in tasca agli avvocati, per coprire
le spese. Lui fu ostracizzato dalle squadre belghe. Smise di giocare. Finì in
depressione. Alcolismo. Divorzio. Guai con la giustizia per violenza in
famiglia. Oggi tira avanti coi sussidi che l’associazione internazionale dei
giocatori gli passa.
Non passano invece i guai del pallone, stritolato dall’avidità di Uefa e Fifa,
dagli investitori stranieri a briglia sciolta nei campionati più importanti e
anche in quelli meno prestigiosi, dalle troppe partite che ammazzano non solo il
calcio ma anche chi gioca, per via degli infortuni che si moltiplicano a
dismisura. L’intensa esasperata commercializzazione di quello che è stato
definito il “gioco più bello del mondo”, in cui si cerca di guadagnare quanto
più si può nel più breve tempo possibile, sta nuocendo a questo sport, per
eccesso – paradossalmente – di offerta calcistica e perché le squadre sono ormai
preda di uno shopping forsennato da parte di investitori e di fondi
extracomunitari, senza dimenticare gli sconcertanti casi di rastrellamenti con
capitali dubbi, o quelli in cui emergono le reali motivazioni legate
all’affarismo immobiliare (vedi Milan, Inter, Roma) sino allo sprofondo di
situazioni che hanno visto e subìto infiltrazioni criminali rendendo il calcio
una sorta di Far West.
Dunque, anagrammando il “caso” Bosman, abbiamo il “caos” figlio della sentenza
Bosman. Soccombono la cultura, la storia e la tradizione del calcio. Amen.
L'articolo Trent’anni fa il bazooka giuridico che rivoluzionò il calciomercato:
da Bosman in poi regnano caos e affarismo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Calciomercato
Dirlo a distanza di pochi giorni da una sconfitta particolarmente bruciante in
Champions League, sembra quasi un controsenso. Ma l’Inter è bella da vedere. O
perlomeno, ci prova a esserlo e sta costruendo, con Chivu in panchina, una sua
identità. Che, dati alla mano, è molto offensiva e poco difensiva. Ancora troppo
poco difensiva, anzi.
E stupisce, quasi, che a guidare la rosa sia un ex difensore, che proprio con
l’Inter aveva dimostrato quanto alla qualità dei piedi (e Chivu, da giocatore,
ne aveva davvero tanta) si potesse benissimo abbinare la quantità,
l’aggressività. Questa Inter ancora fatica: non è un caso che il tema della
difesa sia al centro del dibattito intorno ai nerazzurri. Che hanno giocatori
molto avanti con l’età (Acerbi, che si è appena infortunato e resterà fuori per
qualche settimana; o De Vrij): una questione che apre a un tema di mercato da
risolvere tra gennaio e giugno.
Bastoni e Bisseck, che ha convinto dopo qualche mese definitivamente il suo
allenatore, sono le certezze, ma anche a loro è richiesto un salto di qualità
per evitare che possano arrivare quei gol all’ultimo decisamente esiziali per le
ambizioni nerazzurri. Perché non è solo da risolvere esternamente, col mercato,
la questione: serve riflettere e concentrarsi anche su tutta la fase difensiva.
L’Inter, non è un mistero, è tra le squadre con il baricentro più alto di tutta
la Serie A. Lo dicono le heatmap, lo conferma il dato altissimo dei falli
tattici: con i giocatori che si trovano tanto in avanti, è necessario bloccare
il prima possibile le ripartenze avversarie. Con le buone o con le cattive. Ma
il problema è proprio questo: qual è la criticità della difesa? Si deve partire
dal dato dei gol subiti: 18 totali, di cui 13 in campionato. L’Inter è la
settima difesa della Serie A e per una squadra che punta allo scudetto è un
campanello d’allarme. Che diventa molto più squillante se si vedono i dati dei
gol subiti negli ultimi 15’ di gara: 2 contro la Juventus, 1 contro il Sassuolo,
1 contro la Cremonese (oltre a quelli contro Atletico Madrid e Liverpool). Non
può essere più una casualità.
Anzi, se si vede solo la Serie A, si tratta del 30,7% dei gol subiti. Un terzo.
Solo Verona (8 gol), Parma, Udinese e Cagliari (tutte a 5 gol) hanno fatto
peggio e non si parla di squadre con ambizioni particolarmente elevate. Anzi. Il
dato diventa anche più preoccupante se si guardano le percentuali: l’Inter è al
30,7%, il Verona al 38%. Nel mezzo, la Roma (37%), che ha subìto pochissime
reti, ma delle 8 prese, 3 sono arrivate proprio alla fine.
Un problema serio per Chivu, che dovrà capire quali corde toccare per sistemare
dal punto di vista tecnico, e anche mentale, la situazione. In attesa di quel
mercato che non prevede botti particolari, ma quella “giusta attenzione” per
citare il presidente Marotta, a cogliere le occasioni. La sensazione è che
qualcosa dovrà succedere. L’esame è un po’ per tutti: dirigenti, staff,
giocatori. Per continuare a piacere davvero, senza però mezzi termini.
L'articolo L’Inter piace, ma dietro soffre: i numeri difensivi preoccupano, dal
calciomercato serve urgentemente un centrale proviene da Il Fatto Quotidiano.