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La denuncia: “Epidemia di scabbia al Cpr di via Corelli a Milano, 10 contagi ma nessuna cura”
Nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di via Corelli a Milano è in corso un’epidemia di scabbia. Lo denuncia la rete No Ai Cpr, in contatto con le persone trattenute nella struttura, secondo la quale ad oggi sarebbero almeno 10 i detenuti contagiati ai quali non è stata garantita nessuna cura. Il Cpr milanese nel 2023 finì sotto accusa per le condizioni “disumane e infernali” in cui si trovano le persone con tanto di sequestro e procedimento a carico dell’allora gestore, La Martinina, che è iniziato la scorsa primavera. Secondo quanto verificato dagli attivisti, però, continua a essere “un luogo invivibile”. “Il focolaio di scabbia dimostra il degrado igienico-sanitario di questo ‘lager’, ma è solo la punta dell’iceberg”, spiega a Ilfattoquotidiano.it l’infettivologo e attivista della rete Nicola Cocco. “È una sentinella di un’emergenza sanitaria più ampia che caratterizza il Cpr, un luogo di per sé patogeno”. Le prime segnalazioni al centralino della Rete risalgono a circa dieci giorni fa. Due persone, dopo una valutazione clinica che ha confermato la diagnosi, sono state rilasciate. “Per parlare di focolaio in un luogo di restrizione servono più di due casi. Dopo i rilasci, non è stata garantita nessuna visita agli altri ristretti che presentavano gli stessi sintomi”, denuncia Cocco. “Se non viene fatta una disinfestazione e le persone rimangono in condizioni di detenzione la scabbia continuerà a diffondersi, causando pruriti insopportabili e disagio a persone innocenti”. Una situazione che No Ai Cpr ha segnalato alle agenzie di tutela della salute, al Garante Nazionale, alla Prefettura e ovviamente al CPR stesso, “senza ricevere però nessuna risposta”. Ilfattoquotidiano.it ha a sua volta provato senza successo a contattare la struttura, l’Ats e la Prefettura per un commento. Al momento, secondo quanto riferisce a Ilfattoquotidiano.it Teresa Florio, operatrice legale del centralino Sos Cpr, in un settore di 24 persone già in 10 presentano sintomi compatibili con la malattia. “I materassi e le coperte rimangono gli stessi, mentre i lenzuolini, che sono di carta e si strappano facilmente, non sono un filtro efficace”, racconta Florio. Una situazione di “abbandono e negligenza” analoga, spiega, a quanto accaduto l’estate scorsa nel Cpr di Gradisca d’Isonzo: “Anche lì c’è stato un focolaio di scabbia. Per non ammetterlo ed evitare che la Asl dovesse prendere provvedimenti dopo un primo caso conclamato, le altre persone contagiate sono state rilasciate con una diagnosi psichiatrica”. Chi ha la scabbia parla di pruriti insopportabili, che peggiorano nella notte, e di lesioni diffuse in tutto il corpo. Sintomi gravi ma facilmente curabili, se solo venisse garantita un’adeguata assistenza sanitaria: “È stata data loro – riferisce Florio – una pomata antistaminica, assolutamente inutile in questi casi. Nelle docce poi c’è solo acqua bollente: non hanno sollievo nemmeno quando si lavano”. Così nell’abbandono generale la disperazione ha il sopravvento e al centralino della Rete ogni giorno arrivano segnalazioni di tentati suicidi: “Provano a impiccarsi, si tagliano, la loro vita è rovinata: il Cpr nel migliore dei casi ti porta ad avere la scabbia, nel peggiore ti uccide”, denuncia Cocco. La Rete chiede innanzitutto che vengano garantite le cure ospedaliere e che siano verificate le condizioni igienico-sanitarie della struttura. E ricorda che nulla, in ciò che sta accadendo, è eccezionale: “Purtroppo la mancata tutela dei diritti umani è la quotidianità in questi luoghi”. Una realtà già emersa nelle indagini di due anni fa, in cui gli atti parlano di sporcizia, cibo scaduto e, ancora una volta, visite mediche negate. E che trova conferma nelle foto e nelle chiamate che arrivano al centralino dai migranti trattenuti. Materiale che, osserva Cocco, dimostra come “la detenzione amministrativa sia intrinsecamente patogena”. Per questo, ribadisce la Rete, “l’unica vera soluzione è chiudere il Cpr”. L'articolo La denuncia: “Epidemia di scabbia al Cpr di via Corelli a Milano, 10 contagi ma nessuna cura” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il giudice libera la nave di Mediterranea, il governo ne ferma un’altra. Chi sta vincendo la guerra alle ong?
Chi sta vincendo la guerra che il governo Meloni, e in particolare il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ha dichiarato al soccorso civile in mare? Risultati, conseguenze? Domandarselo è d’obbligo visti i 36 fermi amministrativi imposti alle navi umanitarie da inizio 2023, quando il decreto Piantedosi aprì la strada ai blocchi motivati da un salvataggio di troppo, dalla disobbedienza alla guardia costiera libica o dallo sbarcato delle persone soccorse in un porto diverso da quello assegnato. Come nel caso della ong Mediterranea Saving Humans, la cui nave è rimasta bloccata dal 6 novembre a Porto Empedocle per non aver diretto verso Livorno. Al contrario, Nave Mediterranea aveva sbarcato 92 persone di cui 31 minori non accompagnati. Da qui i previsti 60 giorni di detenzione amministrativa e la sanzione di 10 mila euro per comandante e armatore, “nonostante il Medico di bordo e lo stesso CIRM Telemedicina, incaricato dalle Autorità marittime, abbiano certificato che tutte le persone soccorse non erano in grado di affrontare altri tre giorni di navigazione” e il Tribunale dei Minorenni di Palermo avesse chiesto ai ministeri dell’Interno e dei Trasporti “di far sbarcare i minori a Porto Empedocle”, aveva denunciato la ong. Come già in altri casi, il fermo è stato sospeso, stavolta dal Tribunale di Agrigento. “Decreto Piantedosi illegittimo”, commenta la ong. “C’è una strategia illegale del governo che mira a confiscare la nostra nave di soccorso. Ma ancora una volta viene sconfitta davanti a un giudice”. Sconfitta? Fuori una, dentro l’altra – Meloni e Piantedosi non demordono. “La nave di soccorso Humanity 1 è stata sequestrata dalle autorità italiane per essersi rifiutata di comunicare con il centro di coordinamento dei soccorsi libici”, ha appena comunicato Justice Fleet, la coalizione di 13 ong annunciata il 5 novembre 2025 per coordinare i soccorsi e opporsi alla collaborazione con il centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli che il decreto Piantedosi impone. A un mese dall’iniziativa, ecco la risposta del governo, un altro sequestro. Nonostante “tre volte, nelle ultime settimane, le milizie della cosiddetta guardia costiera libica hanno sparato contro le navi di soccorso”, ricorda la coalizione. In base al decreto, le navi sono costrette a comunicare le loro posizioni operative alle milizie. “Non ci faremo costringere a rivelare le nostre posizioni operative a milizie armate finanziate dall’UE che sparano contro persone in cerca di protezione e contro i nostri team di soccorso”, è quanto ribatte Justice Fleet in un comunicato. Chi sta vincendo la guerra alle ong? – Dichiarazioni a parte, dal varo del decreto Piantedosi i fermi sono a quota 36 – il conto è del direttore del DataLab dell’Ispi, Matteo Villa –, e corrispondono a oltre 800 giorni, per una media di 24 giorni a nave. Giorni in cui il soccorso civile non è dove vorrebbe essere. Questiona finite anche davanti alla Corte costituzionale, che pur rinviando le decisioni ai giudici di merito, ha stabilito che “nessuna sanzione, in definitiva, si può irrogare quando l’osservanza del precetto si ponga in contrasto con i principi sovraordinati”, coerentemente con quanto già detto quattro volte dalla Cassazione, e cioè che nessuno può essere sanzionato per non aver collaborato al rientro dei migranti in Libia, Paese che tra l’altro non può offrire alcun “luogo di sbarco sicuro”, elemento essenziale per completare un’operazione di soccorso. La Consulta ha infatti ribadito che “non è vincolante un ordine che conduca a violare il primario ordine di salvataggio della vita umana e che sia idoneo a metterla a repentaglio e non ne può essere sanzionata l’inosservanza”. Chissenefrega, dice l’ennesimo fermo. E poco importa se verrà sospeso o annullato, come nei 12 casi in cui un giudice è intervenuto prima della fine del provvedimento. E non perché siano stati raggiungi grandi risultati: le ong hanno infatti soccorso solo l’11% dei migranti sbarcati nel 2025, un dato che arrivava appena al 15% nell’anno precedente al decreto Piantedosi. Ciò che importa è la comunicazione politica, che il messaggio della guerra alle ong sia passato. Ed è passato. Chi sta perdendo la guerra alle ong? – C’è poi la pratica, altrettanto efficace, di assegnare porti lontani. Nel caso di Mediterranea, quello di Livorno significava quattro giorni di navigazione in più. Rafforzata dal decreto Piantedosi, la pratica ha infatti limitato ulteriormente la capacità di intervento delle ong. SOS Humanity ha calcolato 760 giorni di navigazione in più per raggiungere i porti assegnati dal governo. A conti fatti, le vittorie in tribunale non equivalgono certo ad aver vinto la guerra. Che invece fa proseliti, almeno a sentire Piantedosi. Dopo il Consiglio Ue dell’8 dicembre, il ministro ha fatto sapere che con la Germania “abbiamo condiviso un nuovo approccio verso le ONG, che abbiamo convenuto costituire spesso un fattore di pull factor per i flussi migratori irregolari”. Il “fattore di attrazione” è stato sempre smentito dalle analisi dei flussi ma, ancora una volta, a chi importa? Non alle 1.184 persone morte o disperse nel Mediterraneo centrale da inizio 2025. Nel 2024 la nave Geo Barents di Medici senza Frontiere aveva già dimezzato i salvataggi rispetto al 2023. Mentre ad aumentare sono state le persone intercettate e riportate indietro, soprattutto dai libici. Il diverso approccio nei soccorsi, quando non si tratta addirittura di disimpegno, l’assegnazione di porti lontani, i fermi e le limitazioni alla possibilità di salvataggi multipli ha oggettivamente limitato l’attività delle organizzazioni umanitarie, che considerano i dispersi o la maggior parte di questi, casi di mancati soccorsi. Basandosi su quelli effettuati in mare nel 2024, Sos Mediterranée ha calcolato di aver salvato una media di 30 persone al giorno. Non è statistica, solo un ordine di grandezza su cui ragionare a fronte dei 760 giorni di navigazione in più e degli oltre 800 di fermo imposti dal governo Meloni. Difficile dire quante siano le vittime dirette di queste scelte. Ma molto più difficile sarebbe negare che ce ne siano. L'articolo Il giudice libera la nave di Mediterranea, il governo ne ferma un’altra. Chi sta vincendo la guerra alle ong? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Migranti, la Germania pensa di portarli in Uganda e Kurdistan iracheno. Ma anche nella “sicura” Tunisia
Secondo quanto riportato da Bild, il governo tedesco sta prendendo in considerazione la possibilità di trasferire alcuni migranti irregolari in centri di accoglienza e rimpatrio situati fuori dall’Unione europea, dopo che lunedì i ministri dell’Interno dei Paesi membri hanno approvato la posizione del Consiglio Ue per il negoziato col Parlamento sui Paesi sicuri e sul nuovo regolamento rimpatri. L’iter è ancora lungo e parecchi sono i nodi da sciogliere, anche sui cosiddetti “return hub”, centri di transito dove trasferire gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nel loro paese d’origine. Ma proprio su questo punto alcuni si portano avanti. Berlino avrebbe già individuato i primi possibili Paesi partner, riferisce il quotidiano: Tunisia e Uganda. Una terza opzione considerata a livello esplorativo sarebbe un centro in Medio Oriente, ma al momento l’attenzione si concentrerebbe sull’Africa. Secondo Bild, la Germania starebbe valutando una collaborazione con l’Olanda nell’ambito del cosiddetto “modello Uganda”, dove Amsterdam pianifica una struttura destinata principalmente ai migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Per altre aree del mondo, riporta ancora Bild, il governo tedesco starebbe inoltre valutando ulteriori opzioni insieme ad altri Paesi Ue. Tra le ipotesi citate figurerebbe anche la regione curda nel nord dell’Iraq. Questo perché il Kurdistan iracheno sarebbe ritenuto un’area stabile sul piano politico ed economico e dunque potenziale destinazione per migranti provenienti da Iraq e Afghanistan. Una portavoce del ministero degli Interni tedesco, interpellata il 9 dicembre da LaPresse, ha sottolineato che “durante i colloqui i ministri Ue hanno rilevato un interesse comune nello sviluppo di soluzioni innovative per la cooperazione con Paesi terzi, al fine di ridurre la migrazione irregolare”, discutendo anche la possibilità di attuarle “in un gruppo di Stati membri”. Berlino, ha aggiunto, “sta attualmente lavorando insieme a livello europeo sulle basi giuridiche necessarie nell’ambito del nuovo regolamento sui rimpatri”. Basi giuridiche che saranno al centro del dibattito col Parlamento Ue, dove non mancano perplessità anche sul nuovo concetto di Paese terzo sicuro proposto dalla Commissione e accolto dal Consiglio. La novità consentirebbe infatti di dichiarare inammissibili le domande di richiedenti transitati da Paesi terzi designati come sicuri, ma basterebbe anche un accordo tra il Paese e uno Stato membro a far scattare i trasferimenti dei richiedenti e delle loro domande. A quanto risulta al Fatto, ad oggi il governo italiano non starebbe ancora lavorando a opzioni diverse dal progetto in Albania, certo che i regolamenti già approvati col nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, operativo il prossimo giugno, ma anche i dossier sui quali è in corso il negoziato Ue, sbloccheranno il protocollo azzoppato dalla normativa vigente, come sancito dalla Corte di giustizia europea lo scorso agosto nella sentenza che dà ragione ai giudici italiani. Ma non è detto che le iniziative degli altri Paesi Ue non potranno riguardarci in futuro, soprattutto se si parla di Tunisia. Che intanto, spiegano le fonti governative citate da Bild, rivestirebbe un ruolo chiave per Berlino. Il Paese è considerato il partner più affidabile del Maghreb e potrebbe accogliere migranti provenienti da Stati nordafricani come Algeria, Marocco e Tunisia stessa. Un interesse che, dicono le stesse fonti, ha a che fare coi tassi di criminalità. Secondo i dati dell’Ufficio federale di polizia criminale, nel 2024 quasi un terzo dei migranti sospettati di reati provenienti dal Maghreb risulta plurirecidivo, col reato principale rappresentato dai furti. Ma la Tunisia continua a dire di non volersi prestare. A novembre il ministro degli Esteri tunisino Mohamed Ali Nafti ha ribadito che la Tunisia ha “ribadito ai suoi partner europei che non diventerà una zona di transito, di insediamento o di sbarco per migranti”. Il 27 novembre 2025, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione urgente in cui esprime grave preoccupazione per il deterioramento dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali in Tunisia. Sempre a novembre, Amnesty International ha pubblicato un’indagine che rileva come negli ultimi tre anni le politiche migratorie tunisine hanno ignorato sicurezza, dignità e vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Tra espulsioni che violano il principio di non respingimento, torture, maltrattamenti e violenze sessuali, dice il rapporto, “la Tunisia non è quindi né un luogo sicuro per lo sbarco né un ‘paese terzo sicuro’ per il trasferimento dei richiedenti asilo”. Intanto però la Commissione di Ursula von der Leyen ha inserito la Tunisia nella proposta della sua lista di Paesi d’origine sicuri per applicare ai tunisini l’esame sommario delle domande d’asilo, le cosiddette procedure accelerate che rendono più facile respingere la richiesta di protezione. L'articolo Migranti, la Germania pensa di portarli in Uganda e Kurdistan iracheno. Ma anche nella “sicura” Tunisia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Migranti, il governo festeggia “la svolta Ue”. I tanti nodi da sciogliere e l’unica certezza: l’Albania non funzionerà
L’8 dicembre il Consiglio Ue Giustizia e Affari Interni ha adottato la posizione che avvia il negoziato col Parlamento europeo sulle proposte della Commissione: dalla lista europea dei Paesi d’origine sicuri al nuovo concetto di Paese terzo sicuro e fino alla questione dei rimpatri, rimasta esclusa dai regolamenti già inseriti nel Patto Ue su migrazione e asilo. “La svolta che il Governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata”, ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha preso parte al Consiglio a Bruxelles dove, ha detto in una nota “ha prevalso l’approccio italiano”. In particolare, “gli Stati Membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera, così come previsto dal protocollo Italia-Albania”. Che, assicura il governo, funzionerà a pieno regime sia per le procedure accelerate stoppate dalla Corte di giustizia, sia come Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Alla prova dei fatti, però, le affermazioni del ministro sembrano quantomeno avventate. Intanto “la svolta” è per ora una bozza di svolta. In Consiglio la maggioranza è stata raggiunta, ma non sono mancati i voti contrari: Spagna, Grecia, Francia e Portogallo. Posizioni che si riproporranno nei negoziati col Parlamento. Il più fumoso tra i dossier è quello sui rimpatri e quando Piantedosi dice che “ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace”, dovrebbe aggiungere che il come non è ancora stato chiarito. A partire dai return hubs, i centri in paesi extra Ue che aggirerebbero i rimpatri nel paese d’origine e, secondo Piantedosi, avrebbero nel “modello Albania” il loro precursore. Modello che ad oggi non consente nemmeno di effettuare i rimpatri, che vanno fatti dall’Italia, almeno finché a Bruxelles non si troverà la quadra per abrogare l’attuale direttiva e ammettere l’espulsione da Paesi terzi. C’è poi la questione della extraterritorialità e della pretesa di equiparare il Cpr di Gjader a quelli italiani. Questione tuttora aperta e sollevata dalla Cassazione davanti alla Corte di giustizia. Come quella della legittimità dell’Italia a siglare accordi che intervengono su una materia di competenza dell’Unione come le procedure d’asilo, anch’essa pendente alla Corte Ue. C’è poi l’impossibilità di garantire in Albania le misure alternative al trattenimento che le norme Ue impongono e il protocollo esclude a priori. E così per l’accesso a diritti come quello a una difesa effettiva. Insuperabile sembra poi la questione dei richiedenti asilo. Per esaminare le loro domande, il protocollo prevede solo le procedure accelerate. Ma in base al diritto Ue vanno effettuate nel territorio degli Stati membri. Il Patto tanto atteso da Meloni e soci risolverà la questione? A differenza della precedente normativa, il Patto lo esplicita: “sul proprio territorio“, dice l’articolo 58 del nuovo regolamento procedure. Che si tratti di persone intercettate in mare o di irregolari trasferiti dall’Italia che hanno fatto richiesta di protezione, in Albania le procedure accelerate non si possono fare. E poco importa se “finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri”, come dice il ministro. Quando sarà definitivamente approvato, l’elenco proposto dalla Commissione sarà comunque soggetto al controllo giurisdizionale. Nonostante la riforma ammetta designazioni che escludono “parti di territorio o categorie di persone”, le garanzie generali non cambiano e il giudice è obbligato a verificarle. Piuttosto, l’eventuale disapplicazione della lista europea andrà affidata alla Corte di giustizia. Che ha tempi lunghi e migliaia di persone potrebbero attendere molti mesi. In territorio Ue, ovviamente. Altro? “La possibilità di effettuare rimpatri anche verso Paesi terzi diversi da quelli di origine”, che, dice Piantedosi, “aumenta la nostra capacità operativa”. La proposta permette di dichiarare inammissibili le domande d’asilo di chi avrebbe potuto o possa fare domanda in un Paese sicuro dal quale è transitato o col quale c’è un accordo. Di conseguenza, i richiedenti potranno essere trasferiti e così le loro domande di protezione. I critici temono si tratti di un illecito trasferimento di responsabilità verso Paesi che non sono in grado di offrire le garanzie necessarie e non hanno sistemi d’asilo stabili come quelli degli Stati Ue che pretendono di liberarsi dei richiedenti. Tanto che ad oggi la modifica rimane potenzialmente in contrasto con la Carta Ue dei diritti fondamentali e la convenzione di Ginevra sui rifugiati, e sembra destinata a un altro, inevitabile scontro nelle aule di tribunale. Insomma, l’elenco dei nodi da sciogliere è ancora lungo e supera l’iter legislativo tuttora in corso. Piuttosto, come ricorda la nota di Piantedosi, l’Italia ha dovuto concordare con la Germania “un azzeramento dei Dublinanti fino all’entrata in vigore del nuovo Patto Asilo e Migrazione”. Si tratta dei migranti il cui Paese di primo ingresso in Europa è l’Italia, e gli Stati dove queste persone si sono trasferite non vedono l’ora di restituircele ora che le norme lo impongono in modo netto. Ricapitolando, mentre l’Albania, ad andar bene, sarà solo un inutile e costosissimo Cpr, e il resto va ancora approvato e testato, abbiamo appena qualche mese prima che gli altri Stati inizino a rimandarci indietro i migranti “scappati” dall’Italia. Questa è una certezza. L'articolo Migranti, il governo festeggia “la svolta Ue”. I tanti nodi da sciogliere e l’unica certezza: l’Albania non funzionerà proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Migranti, il Consiglio Ue approva il nuovo regolamento sui Paesi terzi sicuri: “Potremo creare centri d’accoglienza con loro”
Il Consiglio Ue ha approvato il nuovo regolamento che rivede il concetto di Paese terzo sicuro e amplia le circostanze in cui una domanda di asilo può essere respinta perché considerata inammissibile. Contrari Spagna, Grecia, Francia e Portogallo, ma la maggioranza qualificata è stata comunque raggiunta. Allo stesso tempo, il Consiglio ha anche approvato il regolamento che istituisce un elenco di Paesi di origine sicuri a livello dell’Ue. Sul tema si era espressa, il 3 dicembre scorso, anche la commissione Libe del Parlamento Ue: in quel caso il voto è passato grazie all’asse tra Ppe e l’ultradestra. “Fanno a pezzi il sistema d’asilo in Europa. Stiamo validando la possibilità di spedire le persone in Paesi Terzi con cui non hanno alcun legame”, aveva dichiarato l’europarlamentare dem Cecilia Strada. Soddisfatto invece, il ministro socialdemocratico per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund: “Ora disponiamo del quadro giuridico affinché gli Stati membri possano creare centri di accoglienza e altre soluzioni di questo tipo con i Paesi terzi. Potremo spendere le risorse in modo molto migliore, perché saremo in grado di respingere le persone che non hanno motivo di chiedere asilo in Europa e di creare meccanismi e procedure che ci consentano di rimpatriarle più rapidamente”. Nonostante questo accordo però, come analizzato da ilfattoquotidiano.it, lo scontro si sposterà nei tribunali. Il Consiglio ha inoltre completato un elemento chiave del patto sulla migrazione e l’asilo del 2024, concordando il primo elenco comune Ue di Paesi di origine sicuri, che consentirà agli Stati membri di trattare le domande di protezione internazionale presentate dai cittadini di questi Paesi in modo “accelerato”. Questi Paesi sono, oltre a quello candidati all’adesione all’Ue, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Il concetto di Paese terzo sicuro consente inoltre agli Stati membri dell’Ue di respingere una domanda di asilo come inammissibile (senza esaminarne il merito) quando i richiedenti asilo avrebbero potuto chiedere e ottenere protezione internazionale in un Paese extra-Ue considerato sicuro per loro. Secondo le norme aggiornate approvate dal Consiglio, gli Stati membri potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base delle seguenti tre opzioni: esiste un “legame” tra il richiedente asilo e il Paese terzo. Tuttavia, il collegamento non sarà più un criterio obbligatorio per l’utilizzo del concetto di Paese terzo sicuro; il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; esiste un accordo o un’intesa con un Paese terzo sicuro che garantisca che la richiesta di asilo di una persona venga esaminata nel Paese terzo in questione. L’applicazione del concetto di Paese terzo sicuro sulla base di un accordo o di un’intesa non è possibile nel caso di minori non accompagnati. Un richiedente che presenta ricorso contro una decisione di inammissibilità basata sul concetto di Paese terzo sicuro non avrà più il diritto automatico di rimanere nell’Ue per tutta la durata del procedimento di ricorso, mentre il diritto del richiedente di rivolgersi a un tribunale per ottenere il diritto di rimanere rimane in vigore. L'articolo Migranti, il Consiglio Ue approva il nuovo regolamento sui Paesi terzi sicuri: “Potremo creare centri d’accoglienza con loro” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ue, sui migranti il Ppe vota con l’ultradestra. Strada: “Totalmente allineati, sui Paesi sicuri norme tremende”
Via libera degli eurodeputati in commissione LIBE (Giustizia, Libertà Civili e Affari Interni) alla bozza sulla prima lista Ue dei Paesi di origine sicuri. Via libera anche al mandato negoziale sull’applicazione delle norme relative ai Paesi terzi sicuri. I due testi allegati al Patto su migrazione e asilo sono passati grazie ad una maggioranza tra il Ppe e le destre, sterzando nuovamente dalla “maggioranza Ursula”, la sempre più fragile base parlamentare che sostiene la Commissione europea della presidente tedesca von der Leyen. In minoranza sono rimasti i Socialisti, che hanno votato contro. “Oggi abbiamo approvato in Commissione LIBE il dossier sulla lista Ue dei Paesi di origine sicura, di cui sono relatore, confermando il lavoro che abbiamo svolto nelle ultime settimane e segnando il primo passo concreto del percorso parlamentare su un file di grande rilevanza politica”. Lo dichiara Alessandro Ciriani, eurodeputato di FdI-Ecr relatore della Modifica del regolamento Ue 2024/1348 per l’istituzione di un elenco di paesi di origine sicuri a livello dell’Unione. Ancora, sul dato politico: “Il voto odierno in LIBE certifica che il Parlamento è pronto a mettere in campo una posizione organica e responsabile. Confido che in plenaria si procederà con lo stesso senso di responsabilità, affinchè l’Europa possa dotarsi di un impianto normativo solido e credibile nella gestione dei flussi migratori”. “Grazie al sì di popolari ed estrema destra son passati dei testi che fanno a pezzi il sistema d’asilo in Europa. Stiamo validando la possibilità di spedire le persone in Paesi Terzi con cui non hanno alcun legame”, dichiara Cecilia Strada, eurodeputata Pd e relatrice ombra di entrambi i dossier, confermando quanto raccontato al Fatto alla vigilia del voto. “Tutto ciò è sbagliato e insostenibile, come lo è ritenere sicuri Paesi di origine tipo la Tunisia, dove la situazione dei diritti umani è drammatica come dimostra l’ok del Parlamento, la settimana scorsa, a una risoluzione d’urgenza, passata anche coi voti dei popolari. La Lega ha provato a inserire ulteriori Paesi di origine sicuri alla lista, cosa che siamo riusciti a impedire. Siamo davanti a un gioco profondamente cinico e incoerente, che si consuma sulla pelle dei più vulnerabili e in nome di un’urgenza che non è tale: stando ai più aggiornati dati Frontex e Eurostat, i flussi degli arrivi e le richieste di protezione continuano a diminuire. Stiamo solo facendo un regalo ai governi che con le loro cosiddette ‘soluzioni innovative’ erodono i diritti fondamentali”. L'articolo Ue, sui migranti il Ppe vota con l’ultradestra. Strada: “Totalmente allineati, sui Paesi sicuri norme tremende” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ong, 10 anni di lavoro nel Mediterraneo “per il diritto alla vita”: “Salvate 180mila persone, ma si continua a morire”
“La situazione è drammatica perché le persone in mare continuano a morire, continuano ad essere catturate e portate in Libia e nessuno dei governi si prende la responsabilità di salvare queste vite”, lo ha dichiarato Rossella Miccio, presidente di Emergency, a margine della conferenza stampa in Senato 10 anni di soccorso in mare nel Mediterraneo centrale, in cui sono stati presentati numeri e analisi dell’ultimo decennio. Dal 2015 a oggi, la flotta civile delle Organizzazioni umanitarie, impegnate in attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale sono state salvate oltre 180mila persone in pericolo di vita in mare. Dieci anni in cui le ong, di fronte al progressivo disimpegno dalle operazioni di soccorso in mare degli Stati costieri e dell’Unione Europea e alla loro decisa virata su politiche di esternalizzazione delle frontiere, hanno esercitato una funzione sussidiaria e sono diventate garanti dell’obbligo di prestare assistenza alle persone in pericolo di vita in mare sancito dal diritto internazionale marittimo. A oggi con 15 navi, 7 imbarcazioni a vela e 4 aerei, continuano a operare nel Mediterraneo centrale che si conferma una delle rotte migratorie più letali al mondo: il numero delle persone morte o disperse dal 2015 a oggi ha superato la drammatica soglia di 22mila, di cui 1184 solo nel 2025. Le persone tratte in salvo riferiscono con frequenza agli operatori umanitari di aver tentato senza successo di ottenere un visto regolare e di essere state costrette a partire per sfuggire a conflitti, violenze, persecuzioni, gravi violazioni dei diritti umani, insicurezza alimentare o calamità naturali. Molte di loro raccontano inoltre di aver subìto estorsioni, sfruttamento e diverse forme di violenza lungo tutto il percorso migratorio. A margine della conferenza stampa Rossella Miccio ha commentato anche la consegna alla Corte penale internazionale, da parte della Germania, di el-Hishri, braccio destro di Almasri: “Per fortuna c’è ancora qualcuno che rispetta il diritto internazionale in Europa, noi rimaniamo fiduciosi perché quello che noi facciamo è all’insegna del diritto internazionale”. Per Valentina Brinis di Open Arms: “L’Italia si assumerà le proprie responsabilità, quello che è certo è che la Libia non è un paese sicuro. Lui e’ uno dei protagonisti che ha reso quel paese insicuro gestendo tutti i traffici di persone e in molti casi intervenendo nelle violenze procurate alle persone migranti che transitavano”. Per contrastare la tratta “bisognerebbe prima di tutto salvare le vite umane in mare come paradigma della politica europea nel Mediterraneo e quindi investire in cooperazione, una missione Sar europea, creare vie legali per i migranti e supportare le Ong che sono di supporto alle persone migranti che attraversano il Mediterraneo”. L'articolo Ong, 10 anni di lavoro nel Mediterraneo “per il diritto alla vita”: “Salvate 180mila persone, ma si continua a morire” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Paesi sicuri, Strada: “Disastro del Ppe, è la fine del diritto d’asilo. Ma la sanatoria sull’Albania non c’è”
L’europarlamentare del Pd Cecilia Strada, relatrice ombra per i Socialisti e Democratici sui dossier “paesi terzi sicuri” e “paesi sicuri d’origine” in esame alla Commissione LIBE del Parlamento Ue, esprime profonda preoccupazione in vista del voto di mercoledì 3 dicembre. Definisce la situazione un “disastro politico” in cui i parlamentari del Partito popolare europeo (Ppe) si allineano all’estrema destra su testi che rappresentano “la fine del diritto d’asilo in Europa”. Un approccio che sta portando l’Unione Europea a “violare lo spirito della Convenzione di Ginevra sui rifugiati”. Strada, qual è il punto politico sui dossier al voto alla Commissione LIBE? Il punto in cui siamo è un disastro. Il Ppe sta lavorando totalmente insieme all’estrema destra su questi temi. Gli stessi popolari che teoricamente dovrebbero stare con il campo progressista e invece, sulla questione migratoria, guardano solo ed esclusivamente da quella parte. La negoziazione com’è andata? Nessuno dei tentativi di negoziare da parte del campo progressista è stato accettato. I relatori hanno ripreso sostanzialmente invariata la proposta della Commissione e hanno rifiutato qualunque tentativo di mediare con noi per cambiare il testo e renderlo vagamente più umano. Andiamo a votare testi che sono tremendi. La vera novità sta nel nuovo concetto di “paese terzo sicuro”. Mentre il concetto di Paese d’origine sicuro ha a che fare con l’esame della richiesta di protezione, col concetto di Paese terzo sicuro l’Ue non entra nemmeno nel merito della tua domanda d’asilo. Ti dice che potresti anche aver diritto alla protezione, essere un rifugiato, ma non qui. E se l’Europa decide che avresti potuto fare domanda altrove, anche dove sei semplicemente transitato, o che potresti presentarla in un Paese col quale ha preso accordi, verrai trasferito, punto. E’ la rinuncia al nostro obbligo di protezione, delegato a paesi terzi coi quali ci si mette d’accordo. E’ di fatto la fine del diritto d’asilo in Europa, e ci prendiamo anche dei rischi. Quali? Perché Paesi che hanno più problemi di noi dovrebbero accettare i richiedenti asilo che noi non vogliamo gestire, se non per soldi o altri vantaggi? Sicuramente non per spirito di fratellanza. Dunque? Dunque l‘Europa diventa ricattabile, tra l’altro senza prevedere alcuna specifica sul tipo di accordi, che possono essere i soliti memorandum informali e non vincolanti. Cosa succederà quando questi paesi terzi vorranno di più, vorranno rinegoziare, vorranno più soldi o più vantaggi? Situazioni già viste in Turchia ma anche in Tunisia. Oltre al fatto che in sostanza ci apprestiamo a spostare persone attraverso i confini in cambio di soldi, come sul confine tra la stessa Tunisia e la Libia, dove le persone vengono vendute e spostate. Non è ciò che che condanniamo come traffico di esseri umani? Le nuove norme risolveranno i problemi del Protocollo Italia-Albania come dice il governo? Né il testo sui Paesi d’origine, né quello sui Paesi terzi sicuri sanerà quell’accordo. Il governo è arrivato a considerare quelli in Albania come trasferimenti da un Cpr all’altro, come fossimo in Italia. Ma nonostante la giurisdizione italiana, l’extraterritorialità non ha permesso di garantire le tutele previste dalla normativa dell’Unione: le alternative al trattenimento, ma anche l’eccesso effettivo a diritti come quello alla salute, all’unità familiare, a una difesa effettiva. In Europa i flussi migratori non stanno aumentando, come mai resiste l’urgenza normativa? Non c’è nessuna urgenza, è la stessa agenzia europea Frontex che ci fa vedere come i flussi stanno diminuendo. Ma da almeno dieci anni le persone migranti sono lo strumento sul quale si è fatto propaganda per vincere le elezioni a qualunque costo, e distrarre le persone dalle garanzie sui propri diritti, da una sanità degna di questo nome al fatto che stiamo indebitando i nostri figli e i nostri nipoti per comprare armi. Le opposizioni sono pronte per proporre soluzioni alternative sui migranti? Secondo me siamo abbastanza pronti se smettiamo di aver paura di perdere le elezioni su questo tema e quindi se smettiamo di inseguire la destra. Non è mai una buona idea inseguire la destra sulla propria agenda: tra la copia e l’originale la gente vota l’originale o se ne sta a casa. L'articolo Paesi sicuri, Strada: “Disastro del Ppe, è la fine del diritto d’asilo. Ma la sanatoria sull’Albania non c’è” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Migranti, l’Ue vota sui Paesi terzi sicuri. Ma la “fortezza” immaginata da von der Leyen finirà nei tribunali, ecco perché
Altro che sanare il Protocollo Italia-Albania: la proposta della Commissione Ue – sostenuta da popolari ed estrema destra – ha ben altri piani. Cambiando la definizione di “Paese terzo sicuro”, punta a rendere inammissibili le domande d’asilo e a trasferire i richiedenti, mettendo a rischio i diritti fondamentali e la stessa convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Una deriva “palesemente illegittima”, secondo l’esperto di migrazioni internazionali Gianfranco Schiavone, che mira a liberare l’Unione dai suoi obblighi giuridici violando le norme sul funzionamento dell’Ue, e destinata quindi a un inevitabile scontro nelle aule di tribunale e fino alla Corte di giustizia. L’esperimento italiano in Albania ha già mostrato i suoi limiti ai partner europei. Con la giurisdizione italiana resta in vigore il diritto Ue, ma il patto con Tirana non consente di garantire le tutele che, almeno sulla carta, si possono rivendicare in Italia. Nemmeno l’atteso Patto europeo sull’asilo, operativo da giugno, supera l’ostacolo. Per questo la proposta della Commissione guidata da Ursula von der Leyen vuole affidare i richiedenti direttamente a Paesi terzi. Basterà che, nel viaggio verso l’Europa, siano passati da un Paese considerato sicuro per dichiarare inammissibili le loro domande di asilo e trasferirli altrove, anche senza un reale legame con quello Stato. E se il transito non è dimostrabile, basterà un accordo – anche informale – con un Paese terzo. Al voto mercoledì 3 dicembre in Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (LIBE), la proposta ha i voti del Partito popolare europeo, dei conservatori di ECR, ma anche dei Patrioti e dei sovranisti dell’ESN. Difficile che le cose cambino in plenaria a Strasburgo. Lo scontro, prevedibilmente, si sposterà nei tribunali. Ma su quali basi? La convenzione del 1951 prevede la possibilità di collaborazione tra Stati quando si tratta di alleggerire un Paese da un onere che non può ragionevolmente sostenere in modo adeguato. Ma se lo scopo è liberarsi degli obblighi di protezione, si tratta di esternalizzazione ed è illecito. Col 73% dei rifugiati in Paesi a medio o basso reddito, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, ricorda che gli Stati europei sono spesso tra i Paesi col più alto Pil pro capite, hanno sistemi di asilo più solidi e un numero relativamente basso di rifugiati e richiedenti: “Difficile capire come il trasferimento dagli Stati europei in altri Paesi – soprattutto se questi non hanno le capacità di accoglienza e i mezzi di protezione necessari – non equivalga a un trasferimento di responsabilità”. Certo, i Paesi terzi riceveranno ingenti finanziamenti. Ma pagare non basta, come ha dimostrato la Corte Suprema britannica bocciando il memorandum tra Regno Unito e Ruanda. “Anche con investimenti pesanti nel sistema di asilo del Paese terzo, si tratterebbe di un’impresa complessa che richiederebbe molto tempo per produrre risultati sufficienti”, avverte il Commissario O’Flaherty. Anche l’Unhcr, l’Agenzia Onu custode della convenzione di Ginevra, ammette che, in condizioni specifiche, un trasferimento può essere legale, ma ribadisce che servono garanzie concrete e standard elevati. Senza tali garanzie – ha sempre precisato – “l’Unhcr rimane fermamente contrario agli accordi che mirano a trasferire rifugiati e richiedenti asilo”. Peggio ancora se si tratta di accordi informali: “Gli accordi di trasferimento dovrebbero essere accessibili al pubblico e incorporati nell’ordinamento giuridico degli Stati partecipanti”, ha scritto l’Unhcr ad agosto nella guida ‘Accordi internazionali per il trasferimento di rifugiati e richiedenti asilo’. Quanto a garanzie, il nuovo regolamento Ue sembra adottare una nozione piuttosto debole di “protezione effettiva“, considerandola valida anche in Stati che non hanno ratificato la convenzione o che non garantiscono uno status giuridico di protezione e l’accesso ai diritti, “ma solo la possibilità di essere temporaneamente tollerati”, spiega Schiavone. “Senza la garanzia di uno status giuridico le persone rischiano di finire in un limbo senza limiti di tempo”. Pericolo tanto più concreto se gli accordi non sono giuridicamente vincolanti e le persone vengono trasferite in Paesi coi quali non hanno alcun legame. Nel commentare la proposta della Commissione, l’Unhcr ha chiesto accordi vincolanti, procedure rigorose, tutele legali come la sospensione automatica del trasferimento in caso di ricorso giuridico e protezioni specifiche per i soggetti vulnerabili, tutte condizioni oggi assenti. Ma le destre non hanno sentito ragioni e il testo è rimasto praticamente invariato. Inascoltata in Parlamento, che ruolo potrà avere l’Agenzia quando si tratterà di controllare? Se Donald Trump le ha tagliato i fondi, l’Ue finanzia l’Unhcr solo per progetti coerenti con le proprie politiche migratorie, per lo più in Nord Africa. E mentre la capacità dell’Agenzia di vigilare si riduce, i governi la usano spesso come una foglia di fico. Così non resta che il controllo giurisdizionale. Senza modifiche, avverte Schiavone, “le nuove norme non potranno non essere impugnate davanti ai tribunali nazionali”. I possibili rilievi vanno dalla violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che garantisce, tra gli altri, il diritto d’asilo “nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra”, al contrasto col Trattato sul funzionamento dell’Unione, che impone piena conformità alla convenzione. Toccherà ai giudici, ancora una volta, decidere se fermare i trasferimenti e rinviare tutto alla Corte di giustizia europea. 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Migranti, centri in Albania denunciati alla Corte dei conti per danno erariale: “Fino a 18 volte i costi sostenuti in Italia”
Il flop dei centri in Albania si è trasformato in un potenziale danno erariale al vaglio dei magistrati contabili. ActionAid ha consegnato alla Corte dei Conti un esposto di sessanta pagine indirizzato alla procura regionale del Lazio, per denunciare quello che definisce “uno sperpero ingiustificabile di denaro pubblico” e che, dati alla mano, si sarebbe potuto limitare se non addirittura prevedere. L’obiettivo è far accertare se esistano i presupposti per un’azione erariale rispetto alle violazioni contestate nella gestione dei centri. Parallelamente, un’altra segnalazione è stata inviata all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) per presunte irregolarità nell’affidamento dell’appalto di gestione. La richiesta di intervento alla Corte dei Conti e all’ANAC è ritenuta “cruciale nel caso di persone formalmente in custodia dello Stato, ma concretamente in mano a società private e cooperative”. I dati inediti sono pubblicati in un focus all’interno del progetto “Trattenuti” di ActionAid e Università di Bari. Che denuncino un quadro di spese fuori scala e organizzazione caotica fin dall’iniziale allestimento dei centri, partito con uno stanziamento di 39,2 milioni di euro, poi lievitati rapidamente a 65 milioni con il “Decreto PNRR 2”, trasferendo la competenza dai ministeri dell’Interno e della Giustizia alla Difesa. Per un impegno complessivo che è così salito a 73,48 milioni di euro. A fronte degli stanziamenti, la Farnesina ha pubblicato bandi per 82 milioni, firmato contratti per oltre 74 milioni – quasi tutti tramite affidamenti diretti – ed erogato più di 61 milioni per i soli allestimenti. Con una capienza reale di 400 posti a fine marzo 2025, il costo per singolo posto supera i 153.000 euro. Costo che ActionAid giudica del tutto ingiustificabile: “Oltre undici volte” il costo dell’allestimento di un posto nel Ctra di Modica (inaugurato nel 2023) a pieno regime, dove la spesa superava di poco ai 6.400 euro. Il quadro peggiora guardando poi ai costi giornalieri. Nel Cpr di Gjader la spesa per detenuto è quasi tripla rispetto a un Cpr in Italia. Se a Macomer, in Sardegna, vitto e alloggio per il personale di polizia costano 5.884,80 euro al giorno, in Albania – per appena 120 ore di effettiva operatività tra ottobre e dicembre 2024 – la spesa è stata di 105.616 euro al giorno, quasi diciotto volte di più. Tutto questo mentre, alla fine del 2024, un quinto dei posti disponibili nei Cpr italiani risultava comunque vuoto. Non solo. Le stesse procedure che si voleva trasferire in Albania avevano già evidenziato ostacoli giuridici nazionali ed europei e risultati operativi fallimentari nei centri italiani: nessuna convalida per i trattenuti a Modica nel 2023, e appena 5 rimpatri su 166 persone transitate tra Modica e Porto Empedocle nel 2024, circa il 3%. Insomma, come sarebbe finita era ampiamente prevedibile. Come non bastasse, le risorse risultano sottratte ad altri capitoli fondamentali: 15,8 milioni arrivano dal Fondo per esigenze indifferibili, previsto per le emergenze; 10 milioni dal Fondo straordinario della Difesa; 47,7 milioni da tagli ai bilanci di dodici ministeri. L’avvocato Antonello Ciervo, coordinatore del team legale di ActionAid, parla di “soldi pubblici sottratti alla salute, alla giustizia, al welfare e ai servizi, ma anche ai fondi per la gestione delle emergenze”, sottolineando come la distorsione nell’uso delle risorse sia aggravata dall’illegittimità del modello dei centri albanesi. Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid, aggiunge che “l’ostinazione nel tenere in vita un progetto inumano, inefficace e giuridicamente inconsistente”, attraverso continui nuovi stanziamenti, spostamenti di competenze e cambi di regole, ha prodotto una perdita per l’erario che non può essere liquidata come un semplice errore tecnico. A confermare l’impatto del “passaggio aggiuntivo” rappresentato dalla detenzione off-shore è il dettaglio delle spese accessorie: il ministero della Difesa ha sostenuto oltre 2,6 milioni di euro tra manutenzione della nave Libra, trasferte e indennità di missione per Carabinieri e personale della Marina. Il ministero della Giustizia ha firmato contratti per quasi 2 milioni ed erogato 1,2 milioni, fino a maggio 2025, per il penitenziario di Gjader, una struttura mai utilizzata e mai completata. Anche il ministero della Salute ha autorizzato spese per quasi 4,8 milioni ed effettuato pagamenti per 1,2 milioni, nonostante gli uffici dell’Usmaf in Albania siano vuoti da marzo. C’è poi la questione della trasparenza. “Scarsa”, secondo ActionAid, quella per l’affidamento dell’appalto di gestione da 133 milioni di euro. La cooperativa Medihospes si è aggiudicata la procedura – negoziata senza bando – dopo una manifestazione di interesse, risultando l’unica tra le tre cooperative selezionate dalla Prefettura di Roma a presentare un’offerta. La segnalazione ad ANAC rileva che non sarebbe stata neppure verificata la rilevanza internazionale dell’appalto, che al contrario avrebbe imposto una procedura più aperta. A oltre un anno e mezzo dall’aggiudicazione, poi, non è stato ancora stipulato alcun contratto, e gli unici documenti emessi per consentire la partenza dei lavori sono i due verbali di esecuzione anticipata in urgenza. Il report “Trattenuti” avverte anche del rischio di “cattura istituzionale”, “cioè che le scelte pubbliche finiscano per dipendere troppo da un solo operatore, che risulta quindi necessario coinvolgere”, si legge. Secondo il rapporto, la Prefettura di Roma ha finito per dipendere in modo strutturale da Medihospes, che ha concentrato quote altissime della gestione dei centri di accoglienza straordinaria (Cas) di Roma e mantenuto la posizione dominante “nonostante sanzioni e infrazioni documentate” e continuando a ottenere incarichi e ad ampliarsi, fino a risultare l’unica partecipante alla gara per l’operazione albanese. Dinamica che, si legge, ha ridotto quasi a zero la concorrenza, espellendo di fatto le piccole cooperative sociali incapaci di reggere i volumi e i ribassi economici richiesti. L'articolo Migranti, centri in Albania denunciati alla Corte dei conti per danno erariale: “Fino a 18 volte i costi sostenuti in Italia” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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