In Italia la produzione annuale di libri sulla musica è esuberante, e non
scarseggiano le punte di eccellenza intellettuale e scientifica. Sono occasioni
offerte agli amanti di musica per arricchire il piacere dell’ascolto attraverso
la lettura di pagine che spieghino la storia, il senso, gli arcani di un’arte
così sfuggente e inafferrabile. Parlar di musica è in effetti difficile. E
spesso il frequentatore di concerti e teatri esita ad affrontare saggi di storia
e critica della musica, nel timore, paradossale, che essi ne possano appesantire
lo spontaneo godimento.
La rassegna Il Fior fiore dei libri di musica intende appunto valorizzare questo
settore editoriale e incentivarne la risonanza nell’opinione pubblica,
segnalando una selezione assai varia di titoli di qualità, che alimentino la
conoscenza e la comprensione dell’arte musicale. A tal fine l’associazione Il
Saggiatore musicale ha chiesto a otto editori attivi in questo campo di proporre
tre titoli dal loro catalogo del biennio 2023-2024. Gli editori invitati
quest’anno sono Carocci Editore (Roma), EDT (Torino), Libreria Musicale Italiana
(Lucca), NeoClassica (Roma), Leo S. Olschki (Firenze), Il Saggiatore (Milano),
Società editrice di Musicologia (Roma) e Zecchini Editore (Varese). Un’apposita
commissione di musicologi attivi nelle Università e nei Conservatori ha
selezionato gli otto libri che domani, 11 dicembre, verranno presentati e
discussi nel Museo della Musica di Bologna. Il Saggiatore musicale ha
individuato i presentatori dei volumi – autorevoli musicologi, critici musicali,
melomani di altre discipline – che ne illustreranno l’interesse e il pregio. Il
coordinamento è affidato a Simone Di Crescenzo e Eduardo Grumelli.
Ecco gli otto titoli
Carlida Steffan e Luca Zoppelli, Nei palchi e sulle sedie. Il teatro musicale
nella società italiana dell’Ottocento (Carocci Editore), presentato da Carlotta
Sorba (Università di Padova);
Alessandro Macchia, Benjamin Britten. L’uomo, il compositore, l’interprete
(Edt), presentato da Enrico Reggiani (Università Cattolica, Milano);
Daniele Palma, Recording Voices. Archeologia fonografica dell’opera (Libreria
Musicale Italiana), presentato da Pietro Zappalà (Università di Pavia);
Fabrizio Della Seta, Popolo famiglia individui. Confronti sottintesi e malintesi
sulla scena operistica (NeoClassica), presentato da Ilaria Narici (Fondazione
Gioachino Rossini, Pesaro);
Gabriella Biagi Ravenni e Francesco Cesari (a cura di), Giacomo Puccini.
Epistolario. IV, 1905-1906 (Leo S. Olschki), presentato da Paolo D’Achille
(Accademia della Crusca, Firenze);
Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità (Il Saggiatore),
presentato da Emanuele d’Angelo (Accademia di Belle Arti, Bari);
Giulia Giovani e Francesco Lora, Giacomo Antonio Perti: corrispondenze
dall’Europa (Società editrice di Musicologia), presentato da Raffaele Mellace
(Università di Genova);
Marina Moretti (a cura di), Pëtr Il’ič Čajkovskij: lettere dall’Italia 1874-1890
(Zecchini), presentato da Carla Moreni (Il Sole 24 Ore).
***
Info
Dove | Palazzo Aldini Sanguinetti, Sala Eventi – Bologna, Strada Maggiore 34
Quando | Giovedì 11 dicembre 2025
Orari | 10:30-13:30 – 14:30-18:00
Programma | Tutti gli interventi
Ingresso | Gratuito
L'articolo Leggere di musica? Aumenta il piacere dell’ascolto. A Bologna torna
la rassegna “Fior fiore dei libri” dedicati a classica e lirica proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Tag - Lirica
Un finale tragico per il cantante lirico statunitense Jubilant Sykes,
protagonista sui palchi più prestigiosi del mondo, che vantava anche una
nomination ai Grammy. Il baritono è stato ucciso a coltellate nella serata di
lunedì 8 dicembre nella sua abitazione di Santa Monica, in California. Aveva 71
anni. In custodia si trova il figlio, Micah Sykes, 31 anni, individuato sul
posto dagli agenti della polizia e arrestato come principale sospettato.
Secondo quanto comunicato dal Dipartimento di Polizia di Santa Monica, come
riportano i media Usa, gli agenti sono intervenuti intorno alle ore 21:20, dopo
una chiamata al 911 che segnalava un’aggressione in corso all’interno
dell’abitazione. “Gli agenti sono arrivati rapidamente e sono stati condotti dal
segnalante all’interno della casa”, recita la nota ufficiale.
“All’interno hanno trovato un uomo di 71 anni, identificato come Jubilant Sykes,
con ferite gravi compatibili con un accoltellamento”. Il figlio della vittima si
trovava ancora nell’abitazione ed è stato arrestato senza incidenti. Sykes è
stato dichiarato morto sul posto dal personale dei vigili del fuoco. Il figlio
sarà formalmente incriminato per omicidio, in attesa delle valutazioni della
Procura della Contea di Los Angeles.
Nato e cresciuto a Los Angeles, Jubilant Sykes aveva iniziato la carriera lirica
distinguendosi per una voce duttile che lo aveva portato in luoghi simbolo della
musica mondiale: il Metropolitan Opera, il Carnegie Hall, il Kennedy Center,
l’Apollo Theater e l’Hollywood Bowl. Nel corso della sua lunga carriera, il
tenore aveva collaborato con artisti di primo piano come Julie Andrews, Renée
Fleming, Josh Groban, Carlos Santana, Brian Wilson, Patrice Rushen e Terence
Blanchard, costruendo un repertorio che spaziava dalla musica classica al
gospel, dal jazz al contemporaneo.
La nomination ai Grammy Awards era arrivata nel 2010, grazie al suo contributo
nella registrazione di Mass di Leonard Bernstein. Sykes aveva inoltre esplorato
il mondo del cinema e della televisione, apparendo in produzioni come “Freedom”
(2014) di Peter Cousens e “The Descent” (2023) di Matt Green.
L'articolo Jubilant Sykes ammazzato a coltellate, arrestato il figlio del
baritono. La polizia: “È il principale sospettato. Si trovava dentro casa e non
ha opposto resistenza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un camion che sfonda a sorpresa una vetrata, due personaggi che vanno a fuoco
sul palco, una autentica aggressione sessuale sul posto di lavoro vestita da
quella ambiguità – così moderna – del presunto equivoco, del gioco, del dissenso
“non espresso chiaramente”. Vasily Barkhatov supera con applausi e qualche
ovazione l’esame di maturità della Scala a 43 anni portando un’opera di quasi
cent’anni fa dentro il paesaggio linguistico e visivo di oggi. Non gli servono
superflui “costumi moderni”, a volte contrastati da una parte del pubblico
scaligero della Prima, perché l’idea e il lavoro è tutto nel pensiero
drammaturgico con cui ha portato in scena Una Lady Macbeth del distretto di
Mcensk di Dmitri Shostakovich. Un’opera di cui si dice che è difficile trovarne
un significato univoco. Barkhatov scavalca il quesito e rende la storia
credibile e avvincente, calcando il segno su alcune chiare volontà del
compositore (che non a caso dà alla protagonista Katerina le arie più forti) e
riempiendo di dinamismo ogni scena, anche e soprattutto quelle strumentali (che
non mancano) o dei cori, quando la scena di solito rischia di essere un po’
ingessata.
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Barkhatov ambienta la sua Lady Macbeth negli anni Cinquanta, ironicamente (o
forse no) nel periodo che porterà alla morte di Stalin, il censore di
Shostakovich. La scenografia ha uno sviluppo orizzontale, diviso a metà. In una
scena ci sono sopra le cucine (sono molto i personaggi secondari anche tra la
servitù della famiglia di Katerina che compaiono via via), sotto la camera da
letto della protagonista e del marito Zinovij e l’ufficio di quest’ultimo. In
una seconda scena sotto si trova un grande salone da pranzo e sopra un balcone.
Il regista sfrutta questi molti spazi tutti a vista per spingere l’opera con
ritmo cinematografico, per non dire da thriller a puntate: una serie tv,
insomma, e ci scuseranno subito gli esperti di lirica per questa metafora ormai
un po’ logora. E però è vero che la cura registica per i dettagli fa sì che ogni
attore, anche all’opposto del movimento della scena, anche nei momenti solo
musicali e senza interventi dei protagonisti, riempie l’occhio e l’attenzione
dello spettatore.
Con questa abilità che affonda le radici nella freschezza tutta giovanile – con
quale avvenire – Barkhatov disegna una storia di libertà e di liberazione, che
non si compie fino in fondo ma che resta come icona e messaggio. Katerina vive
una vita soggiogata dai comandi impartiti dal marito e dal suocero (anzi il
primo sembra un fantoccio nelle mani del secondo). La accusano di non generare
eredi e lei ribalta l’accusa contro il poco amorevole consorte. In cucina si
consuma un’aggressione sessuale nei confronti di una cameriera, una violenza che
Barkhatov “veste” con gli ingredienti alimentari: la poverina viene ricoperta di
farina, di sugo, viene “lavorata” col mattarello, sculacciata. Le molestie
vengono interrotte proprio dalla moglie del padrone, Katerina, che già sente
crescere l’odio per il maschio che si sente tale soverchiando la donna. “Ho
bisogno di affetto” canterà poco dopo “soltanto io non ho nessun che mi
desideri”. Conosce Sergej, che lavora nell’azienda del marito e tutto cambia:
nella sua mente vede aprirsi, quando ormai non lo sperava nemmeno più, spazi
sconfinati nonostante resti poco più che reclusa. Il suocero Boris la sorprende
con lui e lo frusta. Lei non ne può più e quando il suocero le ordina un piatto
di funghi lei lo avvelena. Torna il marito Zinovij e Katerina e Sergej sono
sorpresi a letto e seminudi. Qui il ritmo si fa quasi a perdifiato. Lui si
nasconde nell’armadio, l’amante dissimula. Zinovij comincia a fare domande, lei
risponde vaga. Il marito la aggredisce, tenta di violentarla, lei chiama aiuto,
chiama Sergej che esce dall’armadio. Zinovij è sorpreso e di questo approfitta
Katerina che lo immobilizza a letto, con uno straccio comincia a strangolarlo.
Arriva anche Sergej, blocca braccia e gambe di Zinovij, Katerina prende un
cuscino e soffoca definitivamente il marito. Il quale stordito chiama un prete e
Sergej a quel punto lo finisce: “Eccoti il prete”. Gli preme il cuscino sulla
faccia finché Zinovji non smette di respirare. I due amanti restano come
scioccati ma il loro futuro insieme ora sembra assicurato.
Katerina e Sergej si sposano davanti a numerosi invitati ma nel frattempo – dopo
che finora è rimasto nascosto dentro un frigo – viene scoperto il cadavere di
Zinovij, il marito ammazzato. Qui arriva una prima trovata scenica di Barkhatov
che può assomigliare pure a una citazione. Durante la festa nuziale i morti
(suocero e marito della sposina killer) ricompaiono sottoforma di ombre e
visioni: come fantasma, diafano, Boris (e ricorda un po’ il Convitato di pietra
del Don Giovanni), Zinovji addirittura spuntando dalla torta nuziale (e la scena
reale della festa con gli invitati si “congela”). Ad ogni modo la notizia del
cadavere arriva alla polizia. “È finita” dice Katerina. “Fuggiamo” dice Sergej.
I due vengono arrestati e il cambio di scena – altra idea vincente di Barkhatov
– avviene con la dirompente entrata in scena di un camion militare.
Letteralmente dirompente: sfonda il portone di quella che sarebbe la casa di
Katerina e improvvisamente ci si ritrova nel campo di prigionia.
Il camion che distrugge la vetrata è anche una metafora efficace per
sottolineare che la vita di Katerina così come l’aveva sognata va in mille
pezzi. Nel campo di prigionia dove è stata portata con Sergej, la protagonista
vede crollare tutto. Dagli agi della villa col marito al freddo e alla miseria
del campo. In più Sergej ormai la detesta perché ha trascinato anche lui in
questa catastrofe. Non basta: lui si invaghisce di un’altra prigioniera. Di più:
l’ex amante si fa beffa di Katerina chiedendole soldi o capi di abbigliamento
che lui regala a un’altra prigioniera. Katerina ha capito tutto, e soprattutto
che tutto è perso, perfino l’amore che le aveva dato la spinta per il grande
salto nel buio, pur di raggiungere una libertà, una qualsiasi. Le guardie
gridano a tutti i prigionieri di alzarsi perché è ora di andare. Si tirano in
piedi tutti tranne Katerina che non dà segni di vita. In realtà finge. Poco
prima si è cosparsa di benzina. Dopo aver sentito la nuova amata di Sergej che
la canzona (“Guarda come mi stanno bene le tue calze”) ruba l’accendino a un
altro prigioniero poi fa in modo di mettersi vicino all’amante di Sergej e
accende il fuoco. Muoiono insieme bruciate vive. Sul palco brillano fiamme
reale, corrono impazzite due torce umane. Il pubblico della Scala è abbagliato e
conquistato.
Oltre alle ovazioni ripetute e insistite per il maestro Riccardo Chailly per la
prova d’orchestra, a ricevere gli applausi più convinti – a giusta ragione –
sono stati la protagonista, il soprano Sara Jakubiak, e Alexander Roslavets, il
basso che ha interpretato il suocero Boris.
L'articolo Prima della Scala 2025, camion che sfondano vetrate e “vere” torce
umane infuocate: la missione compiuta di Barkhatov con la Lady Macbeth di
Shostakovich proviene da Il Fatto Quotidiano.
Chi ha paura di Lady Macbeth, il terribile personaggio di Shakespeare? La
risposta è: tutti. Meglio non trovarsela sul cammino. Semina morte e
distruzione, rovina il consorte, finisce pazza. Personifica il male, assoluto,
totalizzante. Ma perché Šostakovič intitola Lady Macbeth la sua opera che il 7
dicembre apre la stagione lirica della Scala? Per lo stesso motivo: la
protagonista è malefica, distruttiva. Ma attenzione: se la Lady shakespeariana
non mostra sentimenti d’amore, quella di Šostakovič è divorata da una passione
erotica bruciante. Non fu il compositore a inventare il personaggio: ne stese il
libretto assieme ad Aleksandr Prejs, ma ne trasse il soggetto da una novella di
Nikolaj Leskov (1831-1895), Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, risalente
al 1865, una settantina d’anni prima. È però evidente che il titolo rimanda al
drammaturgo inglese. E nel contempo fa il verso a un racconto di Ivan Turgenev,
Un Amleto del distretto di Ščigry (1849), che ritrae la meschinità imperante
nella borghesia russa di provincia.
Non stupiamoci di questi scambi. Nell’Ottocento Shakespeare furoreggia in tutta
Europa: entusiasticamente riscoperto dai romantici, è per così dire un autore
del giorno. In francese o in tedesco, lo si legge anche in Russia. Negli anni
Venti un giovane letterato di origini tedesche, Vilʹgelʹm Kjuchelʹbeker,
tradusse in russo alcuni drammi, a cominciare proprio dal Macbeth. E su
Shakespeare un suo compagno di liceo, il grande Aleksandr Puškin, modellò il
Boris Godunov (1825), dramma storico che mezzo secolo più tardi, in mano a
Modest Musorgskij, cambiò la faccia dell’opera russa.
In Leskov e in Šostakovič la Lady Macbeth del titolo è Katerina L’vovna
Izmajlova, che, ci dice lo scrittore ad apertura, non “cessò mai di recitare un
dramma terribile, a causa del quale i signori della nostra nobiltà cominciarono
a chiamarla con il dolce nome di Lady Macbeth del distretto di Mcensk” – e già
qui s’intravede il rapporto fra classi sociali differenti: i nobili leggono, i
commercianti di provincia no. La bella Katerina, annoiata della vita senza
stimoli nella sterminata campagna della provincia di Orël (300 e più km a sud di
Mosca), oppressa dal controllo dei maschi di casa – il suocero tiranno Boris e
il frigido marito Zinovij – fa l’amore con un disinvolto lavorante dell’azienda,
Sergej: messasi d’impegno, si sbarazza del suocero avvelenandolo, del marito
strangolandolo, infine di un ragazzino, Fedja, spuntato dal nulla come co-erede
del patrimonio, soffocandolo. Scoperta, condannata ai lavori forzati col suo
spasimante, durante il trasferimento verso la Siberia butta infine nel Volga la
nuova fiamma di lui, Sonetka, gettandosi anche lei nelle onde. Solo Sergej viene
risparmiato. Questo lo sviluppo della truce novella.
Ma chi è questa donna? Di estrazione modesta, Katerina ha sposato un ricco
mercante, la sua vita trascorre senza luce né speranza, intrisa di tedio e
solitudine. Non ha figli: è colpa di lui, dice. La mancata maternità la
inasprisce, stimola fastidio e disprezzo per il coniuge. È donna passionale,
riccioli neri, seno prosperoso, occhi ardenti: quando, a un tratto, nella sua
vita irrompe Sergej, classe inferiore, piglio vigoroso, deflagra l’incendio dei
sensi. Non ci si può fermare: la strada del delitto è spalancata.
Eppure nella novella, checché se ne dica, non mancano le dolcezze, gli
abbandoni, le malinconie. Non è vero, almeno dapprincipio, che quella di
Katerina e Sergej sia solo una faccenda di sesso nudo e crudo, una tresca senza
sentimenti. Quando il marito sta per tornare da un viaggio, il giovane lavorante
pronuncia parole dolorose: “Dovrò vedere un altro uomo che ti prende per le
bianche braccia e ti porta in camera da letto, dovrà il mio cuore sopportare
tutto questo, e forse sentirmi per tutta la vita un uomo spregevole?“. E di
seguito: “Io non sono come gli altri, ai quali va bene tutto per ottenere dalla
donna soltanto il piacere. Io so che cos’è l’amore e in che modo succhia il
cuore come fa un nero serpente…”. Il problema di classe emerge a tratti, e
Sergej lo vive come un blocco insuperabile: “Se fossi un signore o un mercante
come voi, io non mi separerei da te e non rinuncerei a te per tutta la vita”. E
continua insinuante: “Io vorrei essere tuo marito davanti alla Santa Chiesa:
allora, anche se mi considererò sempre inferiore a te, potrei mostrare a tutti
quanto rispetto meriti da mia moglie”. Provvederà poi l’epilogo a rivelarci la
vera natura dell’ardente giovane, donnaiolo volubile e opportunista.
L’uccisione di Fedja, adolescente malaticcio, dà una svolta definitiva alla
storia. Detto en passant, anche questo episodio rimanda al Macbeth
shakesperiano, al tentato assassinio del figlio di Banco, Fleance, che però si
salva. Ormai coniugi, i due amanti della novella di Leskov vengono infine
scoperti, arrestati e condannati: lei abbandona senza lacrime il figlio
concepito con Sergej; continua ad amare l’uomo “più ardentemente di prima”; lui
si trastulla invece con Sonetka, galeotta compiacente. La situazione,
insostenibile, scatena l’epilogo funesto.
Il racconto di Leskov fu apprezzato e godette di una pacifica fortuna. Alla fin
fine era una tranche de vie alla maniera del coevo Émile Zola, intrisa di crudo
naturalismo: una brutta storia di amore, sesso e crimini, narrata con studiato
distacco. Anche nel Novecento, negli anni di Stalin e dei suoi piani
quinquennali, continuò tranquillamente ad essere letta, senza suscitare censure.
Non così la Lady Macbeth di Šostakovič, data in Prima a Leningrado il 22 gennaio
1934, e il 24 a Mosca, acclamata per due anni in Russia e nel resto
dell’Occidente, ma infine pesantemente attaccata e censurata dal regime. Nel
gennaio 1936 uscì sul quotidiano del partito, la Pravda, un articolo anonimo,
intitolato Caos anziché musica, a quanto pare ispirato e comunque approvato da
Stalin, che denunciava l’opera come “musica confusa, volutamente cacofonica”,
“antipopolare”, “estranea allo spirito sovietico”. Ce n’era abbastanza per
metterla a tacere nell’Urss, per quasi trent’anni. Di fatto, quell’articolo fu
il primo lancio pubblico del programma estetico-ideologico del cosiddetto
“realismo socialista”.
L'articolo Prima della Scala | Lady Macbeth criminale ed erotica: da dove nasce
l’opera di Shostakovich (e perché Shakespeare c’entra fino a un certo punto)
proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitri Šostakovič, data a Leningrado
e Mosca nel 1934 è composta di quattro atti densi e intensi, in nove quadri, con
cinque smaglianti entr’actes sinfonici. Il musicista ci lavorò un paio d’anni:
nel suo intendimento avrebbe dovuto inaugurare una trilogia di opere incentrate
su figure femminili russe memorabili. Ne stese il libretto assieme ad Aleksandr
Prejs: con lui aveva scritto Il naso, la meravigliosa opera satirica tratta da
Gogol’ (Leningrado 1930). Ma che rapporto ha Lady Macbeth con la novella di
Leskov? I due scapestrati giovanotti – non avevano cinquant’anni in due –
seguirono la linea narrativa del racconto, ma gli diedero un accento
drammaturgico assai diverso. Katerina è sì un personaggio immorale, avida e
crudele assassina, ma Šostakovič simpatizza per lei (lo dice in uno scritto del
1932). E ciò si spiega: i veri cattivi, i perfidi, appartengono alla classe dei
mercanti facoltosi e gretti, di cui Katerina è vittima. Da questo giogo cerca di
liberarsi.
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Le modifiche rispetto a Leskov non mancano, anzi. Eccone alcune. Primo: Fedja,
il giovinetto malaticcio che, in quanto co-erede, può attentare al patrimonio di
Katerina, nell’opera non c’è. L’omicidio in scena di un ragazzino, dice
Šostakovič, avrebbe urtato gli spettatori. Secondo: è potenziato l’episodio
della burla fatta dai lavoranti alla grassa cuoca, che ai due autori offre il
modo d’introdurre un primo sensuale “corpo a corpo” fisico fra Katerina e
Sergej. Terzo: viene aggiunta la figura grottesca e sguaiata del Pope, che
compare sia nel funerale del suocero Boris, sia nel pranzo di nozze dei due
occulti assassini. Quarto: nuovo è l’episodio del comando di polizia, nel quale
l’idiota del villaggio denuncia d’aver scoperto il cadavere di Zinovij, il
marito della protagonista. Quinto: ma è soprattutto l’impetuosa scena d’amore e
sesso dei due protagonisti, risolta da Leskov con una trasparente ellissi
(“‘Va’, va’ via!’ disse Katerina dopo una mezz’ora, ravviandosi i capelli
sciolti…”), a venir rappresentata in tutta la sua veemente flagranza. Il
tripudiante crescendo orchestrale che culmina nell’orgasmo, e l’osceno glissando
dei tromboni che sonoramente glorifica la detumescenza postcoitale, indussero un
critico statunitense a coniare il termine “pornofonia“. Difficile smentirlo.
Si può ben dire che, in linea generale, lo stile di Šostakovič non è velatamente
evocativo; anzi, è plateale e sfacciato, ostentatamente deformante. L’interludio
che introduce il quadro dei poliziotti, per esempio, è uno sfrenato galop, tipo
Folies Bergères. Il trattamento grottesco investe tutti i personaggi di
contorno, ad eccezione di Katerina e Sergej: soprano lirico spinto lei, tenore
lirico spinto lui, sono loro gli unici veri “eroi” dell’opera. Il programmatico
divario stilistico che li eleva sopra il livello carnevalesco di tutti gli altri
personaggi àltera alla radice il taglio naturalistico del racconto di Leskov. Da
un lato esalta i due amanti criminali, e dunque attira su di loro – su Katerina
soprattutto – l’empatia dello spettatore. Dall’altro, connota il sordido
ambiente circostante – il “popolo“, se vogliamo – in una caricatura ridicola e
disgustosa. Non meraviglia che questo voluto squilibrio abbia provocato il
violento rigetto ideologico del regime stalinista.
Il successo di Lady Macbeth fu da subito trionfale. Nei primi due anni registrò
quasi duecento recite tra Leningrado e Mosca, fu osannata a New York, Londra,
Stoccolma, Buenos Aires, Zurigo. La fortuna in patria fu troncata e la
diffusione all’estero frenata da un articolo anonimo pubblicato dalla Pravda,
intitolato Caos anziché musica, a quanto pare ispirato e comunque approvato da
Stalin, che denunciava l’opera come “musica confusa, volutamente cacofonica“,
“antipopolare“, “estranea allo spirito sovietico”. Nel 1963 – Stalin era morto
dieci anni prima – Šostakovič ritoccò la partitura, smussandone certe asperità.
L’opera, ribattezzata col nome della protagonista, Katerina Izmajlova, fu data a
Mosca, e in questa versione, per espressa richiesta dell’autore, l’anno dopo
approdò alla Scala di Milano. Morto Šostakovič, nel 1979 l’editore amburghese
Sikorski ha pubblicato la primissima versione della partitura. Ne deriva un
problema critico: dobbiamo considerare più autorevole la Urfassung, ossia il
primissimo originale, 1934, quello che scatenò la condanna di Stalin? Oppure la
Fassung letzter Hand, la “versione di ultima mano”, che, rifinita dall’autore
nel 1963, ne rappresenta l’ultima volontà? La Scala ha optato per la Urfassung.
L'articolo Prima della Scala 2025 | La storia di Lady Macbeth: la censura di
Stalin, lo stile “sfacciato” di Shostakovich, quella strana definizione di
“pornofonia” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cosa ci si deve aspettare dalla Lady Macbeth del distretto di Mcensk, l’opera
che risuonerà in milioni di televisori collegati con la Prima della Scala?
Beatrice Venezi merita il posto in cui è stata calata, alla Fenice di Venezia,
uno dei teatri più importanti del mondo? L’album spaccatutto di Rosalia – Lux –
può davvero bastare come ponte tra la musica pop e la musica classica? Teatri,
sale concerto, auditorium aspettano e sperano che le loro platee si colorino non
solo di teste canute ma anche dei colori sgargianti della gioventù. Qual è la
formula per distrarre occhi e orecchie dalla musica scelta non solo sull’onda
del trend ma perfino con le istruzioni di un algoritmo social? In un tempo –
questi giorni, questi mesi – in cui la musica cosiddetta colta bussa alla porta
anche di chi non ne conosce tutti i segreti c’è urgente bisogno di un po’ di
senso dell’orientamento. E lungo questa strada Ilfattoquotidiano.it ha scelto di
chiedere indicazioni alla direttrice – e fondatrice – di una rivista online
specializzata in informazione e cultura musicale. La rivista si chiama Music
Paper e la direttrice è Paola Molfino, giornalista che per più di trent’anni ha
lavorato ad Amadeus (che ha anche diretto) e ora da tre guida questo giornale
dinamico, vivace, fresco, capace di utilizzare tutto l’alfabeto nuovo della
comunicazione (podcast, playlist, reel) accanto a quello più tradizionale (le
grandi firme, le recensioni, la critica), di risultare sofisticato e nello
stesso tempo inclusivo nei linguaggi: “Musica da leggere” la chiama Paola
Molfino. Un lavoro formidabile in quella disciplina apparentemente impossibile
che è offrire ai lettori tanto il paesaggio familiare e confortevole di ciò che
conosce e riconosce quanto nuovi impulsi da mondi meno frequentati.
Direttrice Molfino, partiamo da lontano: Rosalia. Il suo album brucia i record,
è stato accolto come una rivoluzione, ribalta le regole pop, demolisce quelle
tiktok, esalta la contaminazione tra generi e mondi. Compresi quelli della
musica colta con riferimenti a Vivaldi, Mozart, la musica sacra. In questa
standing ovation generale voi siete stati più cauti.
A Music Paper nessun pregiudizio, però cerchiamo sempre di stimolare il giudizio
critico, di aprire riflessioni, confronti di idee anche attraverso i social. Di
non di appiattirci sul percepito dello scrolling o del like. Siamo stati subito
colpiti dal singolo di Rosalia Barghain e dal video. Dalla sua potenza e dai
riferimenti musicali, simbolici, visivi. E dall’impatto della strategia di
comunicazione, azzeccatissima, come si è visto. Prima ancora che tutto l’album
Lux uscisse abbiamo pubblicato un reel perché ci siamo detti che era giusto
registrare il fenomeno. E poi con un articolo di approfondimento abbiamo posto
una domanda che è giusto farci mentre ascoltiamo Rosalia e che provo a
sintetizzare così: “Siamo sicuri che basti usare degli archi e cantare in un
certo modo per dire che si tratta di musica classica?”
Non crede però che una popstar che rimanda alla musica barocca sia un’occasione
per aprire nuove finestre di fronte a generazioni meno abituate alla fruizione
della musica classica?
Assolutamente sì, quindi benvenuta Rosalia. Che si unisce a un elenco di
illustri predecessori: artisti del pop, del rock, della musica urban che da
sempre attingono a sonorità e arrangiamenti “classici”. Negli anni Duemila per
esempio lo ha fatto perfino Kanye West in Late Orchestration. O per venire a un
recente caso nostrano sfuggito forse ai più Caparezza in una traccia del suo
ultimo disco Orbit Orbit: Purification con un’orchestra di più di 70 elementi e
un coro. Però noi poi abbiamo il dovere – essendo una testata specializzata – di
approfondire di esercitare il pensiero critico. Ed è stata un’occasione per una
bella discussione in redazione: a Music Paper lavorano giovani storici della
musica e critici, che sono anche musicisti, curiosi e competenti. E uno spunto
per parlare a nuove generazioni e soprattutto a persone che come noi, amano la
musica ma quella bella, al di là dei generi.
Cosa consiglierebbe allora a un ventenne che volesse avvicinarsi a certi suoni a
cui non è abituato perché radio, tv, social non gliene danno occasione?
Di non avere paura e di abbandonare i preconcetti, come noi dobbiamo abbandonare
quelli che spesso abbiamo sui giovani: che non sono curiosi, che sono ignoranti
che non vogliono fare fatica. Sappiamo benissimo che la classica è considerata
musica per vecchi, che è vissuta come noiosa. E che in Italia non la si insegna
a scuola come succede per la storia, la letteratura, l’arte o la filosofia. E
paradossalmente è più facile che i ragazzi si appassionino all’opera con le sue
storie senza tempo, al rito del teatro del vestirsi bene piuttosto che alla
musica sinfonica o da camera. Oppure pensiamo al fenomeno dei candlelight
concerts musicalmente cheap ma esperienziali. Anche ascoltare i Notturni di Jonh
Field (compositore irlandese del primo Ottocento creatore del genere reso famoso
da Chopin) come sottofondo mentre si studia o si lavora va benissimo. I Notturni
di Field (non quelli di Chopin!) suonati al pianoforte da Alice Sara Otto sono
l’album più ascoltato in streaming su Apple Classical Music nel 2025.
L’importante per ascoltare e amare la classica non è avere il diploma di
conservatorio o la laurea in Musicologia ma orecchie, cuore e mente aperti. Ciò
detto, sono 50mila le ragazze e i ragazzi che studiano musica nei conservatori
italiani e migliaia ancora nelle università e sono esattamente come tutti i loro
coetanei. A loro affidiamo il futuro della musica che amiamo, confidando che
loro sappiano essere “virali”.
Con i nuovi canali social è più facile avvicinarli. Ci sono musicisti-influencer
che si fanno domande e danno risposte for dummies come si dice, raccontano le
sinfonie di Beethoven o analizzano i notturni di Chopin. Percepisce che può
esserci un momento di apertura nei confronti del resto del pubblico anche non
“forte”?
Sicuramente l’approccio conta, i media e i nuovi linguaggi sono fondamentali,
gli influencer dell’opera e della classica anche in Italia stanno diventando
sempre più numerosi, però ancora vige un po’ la regola del “fai da te” e i
risultati non sono sempre esaltanti. A Music Paper interessa molto esplorare
tutto quanto si può fare per comunicare e abbattere barriere. Ma il rischio che
noi non vogliamo correre è quello della banalizzazione e intendiamo mantenere
alta l’asta della qualità. Per esempio sta per partire una collaborazione social
con Eugenio Radin che su Instagram è Whitewhalecafe: Eugenio è un filosofo ma
anche musicista ed è un ottimo divulgatore e un content creator che ha una
visione della creazione di contenuti culturali molto affine alla nostra.
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La Prima della Scala sarà la “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di
Shostakovich, non proprio un titolo nazionalpopolare né un modo ammiccante per
aprirsi a un nuovo pubblico. Le chiedo però di contraddirmi, di farmi cambiare
idea.
La contraddico con piacere: Lady Macbeth di Mcensk è un’opera fortissima e ha
una musica tellurica, espressiva, esplicita. Un capolavoro, una storia di sesso
e morte potrebbe essere uno di quei casi di cronaca nera che oggi tanto
appassionano la tv e il web: adulterio, assassinio, c’è tutto. Parla di temi
attualissimi, con una figura femminile che si trasforma in un mostro, ma è una
vittima di violenza famigliare, di uomini che abusano di lei psicologicamente e
fisicamente. È ambientata in Russia, paese ora in guerra al centro della scena
internazionale, ma venne scritta nel 1934 nell’Unione Sovietica di Stalin da un
ragazzo con gli occhialini tondi di soli 28 anni, Dimitri Šostakovič, un genio.
Un’opera di successo che invece Stalin bollò come “caos anziché musica”.
Scattarono la censura e il terrore: era il 1963 quando Šostakovič la modificò e
la ripropose in teatro a Mosca. E poi chi l’ha detto che la Scala debba
inaugurare con opere “nazionalpopolari”? L’audience Rai? È quello che sembra
essere “consigliato” dal nuovo Codice dello Spettacolo la cui bozza strenuamente
difesa dal sottosegretario alla Cultura Mazzi, sta suscitando tanti “mal di
pancia”. Proprio un teatro importante come la Scala ha invece il dovere di
proporre a un pubblico più ampio possibile anche titoli belli e meno noti: non
solo Verdi e Puccini che pur adoriamo. Come ha detto il sovrintendente della
Scala Ortombina al nostro giornale: “Noi siamo un servizio pubblico come un
ospedale“.
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ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA
Preparativi alla Scala per la Prima
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Una esibizione di Beatrice Venezi a una convention di Fratelli d'Italia
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Una scena della Lady Macbeth di Shostakovich alla Scala
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ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA
Il regista della Prima Vasily Barkhatov (AP Photo/Antonio Calanni)
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LATIN GRAMMY AWARDS 2023 - LO SHOW
Rosalia ai Latin Grammy Awards: il suo album Lux ha bruciato tutti i record con
uno stile raffinato che mescola generi e atmosfere diverse
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ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA
Il teatro alla Scala (AP Photo/Antonio Calanni)
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Una giovane spettatrice a una Prima under 30 alla Scala
Da mesi la lirica finisce sui giornali generalisti – compreso questo – non con
le varie inaugurazioni di stagione bensì per la contestatissima nomina di
Beatrice Venezi alla Fenice, con proteste insistite e quasi quotidiane (mai
viste) da parte degli orchestrali. Vicende seguitissime dai lettori, anche
quelli che non vanno a teatro. Su un giornale specializzato come il vostro come
avete affrontato l’argomento?
Da tempi non sospetti ci occupiamo del “caso Venezi”, sin da quando siamo usciti
nel 2022 con una serie di articoli e retroscena molto approfonditi di Paola
Zonca. Io da giornalista mi occupo di classica da 35 anni e la carriera di
Beatrice Venezi è da tempo un’anomalia perché più che su argomenti musicali lei
sembra aver sempre puntato più sulla comunicazione, l’immagine, il marketing, la
questione di genere e la protezione politica con gli incarichi di consulente, le
nomine piovute dall’alto. E questo – noi lo abbiamo scritto anni fa – non le
avrebbe portato bene. Anche della cronaca della vicenda Fenice ci siamo occupati
e ci stiamo occupando ovviamente con retroscena e aggiornamenti. Ma la domanda
che mi sono posta al di là della cronaca è stata un’altra. Come quando nel
calcio gioca la Nazionale, nel caso Venezi tutti si sono sentiti autorizzati a
intervenire: ma sappiamo chi è un direttore d’orchestra, cosa fa, a cosa serve
il suo lavoro? E come lo si giudica, da quali parametri? Due grandi firme come
Michele dall’Ongaro e Giovanni Gavazzeni hanno dato delle spiegazioni molto
interessanti sul nostro giornale. Un approfondimento per chi vuole capire oltre
che informarsi.
Tolte le eventuali tifoserie, resta la domanda: Venezi sa dirigere?
Beatrice Venezi ha studiato direzione, ha un diploma di Conservatorio, ha
diretto orchestre in concerti sinfonici e (poca) opera: quindi “sa” dirigere. Ma
non abbastanza da poter ambire alla direzione musicale, quindi alla guida, alla
formazione, alla costruzione del valore di una grande orchestra
lirico-sinfonica. Con la quale per di più non ha nessuna consuetudine del fare
musica insieme. L’orchestra della Fenice l’ha diretta solo una volta per un
concerto privato. È questione di talento, certo, di bravura, ma anche di
repertorio: bisogna saper affrontare autori di epoche e stili diversissimi tra
loro. Quello del direttore musicale è un incarico articolato, completo e
complesso. I professori di un’orchestra meritano rispetto per poter restituire
rispetto. Non ridere di loro mentre si guarda Prova d’Orchestra di Fellini, come
ha raccontato di recente il presidente di Biennale Buttafuoco, ormai veneziano
d’adozione e suo grande fan, come il ministro Giuli il quale come noto ha
sentenziato che lei “diventerà la principessa di Venezia e l’Orchestra si
innamorerà di lei”. L’aria è di normalizzazione. Colabianchi, il sovrintendente
sfiduciato dai lavoratori e Venezi non si toccano. Non so come andrà a finire.
Ma Claudio Abbado diceva: “Nella musica come nella vita bisogna sapersi
ascoltare”.
Questa storia ha avuto almeno il merito di suscitare maggiore curiosità nei
confronti della musica classica e lirica? C’è più o meno “fame” di informazioni
su questi mondi a volte percepiti come distanti?
C’è fame di informazione e di retroscena quando si tocca la politica e
l’attualità, meno di approfondimento. Gli articoli su Beatrice Venezi sono da
sempre tra i più cliccati di Music Paper. Con una dose niente male di haters e
fraintendimenti da mettere in conto sui social.
Come si fa a raccontare la musica colta solo sul web utilizzato più da lettori
giovani che da “maturi”? Che strumenti anche operativi e che linguaggio usate
per “farvi scegliere”?
Usiamo il web per gli approfondimenti, articoli di “storia e storie della
musica”, interviste, recensioni di spettacoli, libri, dischi, pezzi di
attualità, le rubriche degli editorialisti e parliamo di anche jazz, danza,
letteratura. La musica e il mondo che le gira intorno. E lo facciamo pure con i
podcast e con le nostre playlist Spotify create dalla redazione a corredo degli
articoli. Musica da leggere, da vedere, da ascoltare. Abbiamo grandi firme per
l’autorevolezza e giovani (anche giovanissimi) collaboratori per la freschezza.
Preparati, appassionati, curiosi. Music Paper è un giornale, un magazine che fa
informazione, divulgazione e opinione. E sui social decliniamo questa vocazione
con un altro linguaggio, più catchy e attento alle tendenze ma sempre profondo e
curato nel contenuto. Digitale ma non superficiale, insomma. E la cosa bella sa
qual è? Che questa comunicazione in continuo cambiamento, tanto complicata da
gestire perché richiede velocità e il continuo aggiornamento di nuove competenze
e nuove skills va colta come una grande opportunità per chi ancora crede
nell’intelligenza delle idee.
L'articolo “La Lady Macbeth della Prima della Scala? Sesso e morte, un crime
perfetto. La carriera di Beatrice Venezi anomalia da tempo, gli orchestrali
meritano rispetto” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il suono dei nomi di Hänsel e Gretel spaventa decine di generazioni di bambini
da oltre duecento anni grazie alla perfidia sottile di quei due mascalzoni dei
fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. Eppure la loro favola famosa in tutto il mondo e
nota, loro malgrado, a tutti i cuccioli di ogni ordine e grado continua a essere
un rito d’iniziazione irrinunciabile in quegli anni di passaggio indesiderati
per quasi chiunque, quelli che fanno diventare un po’ più grandi. Sulla trama di
Hänsel e Gretel il compositore tedesco Engelbert Humperdinck – tra le altre cose
collaboratore di Richard Wagner a Bayreuth – alla fine dell’Ottocento ha
costruito un’opera fatta e finita, con libretto scritto dalla sorella Adelheid
Wette (usava il cognome da sposata). Richard Strauss fu il primo a dirigerla nel
1893 e quasi con euforia: all’autore scrisse che si trattava di un “capolavoro
di prima categoria”. Su questo titolo – quindi su un’opera lirica – il Teatro
Regio di Torino ha scommesso per aprire la nuova stagione “In Famiglia”, un
cartellone che mette insieme spettacoli, opere e concerti pensati per bambini e
famiglie. E il successo non si scorge solo nel sold-out del Piccolo Regio,
doppiato sia al debutto sia nella replica di domenica, quanto nell’entusiasmo
con cui bambini e bambine, mamme e babbi hanno assistito a una rappresentazione
teatrale di una favola arcinota, sì, ma messa in musica e perfino in quello
strano modo di recitare cantando o cantare recitando.
Quella in scena a Torino è la versione ridotta e riscritta un po’ di tempo fa
dall’intellettuale Lorenzo Arruga, in questo caso è disegnata dalla regia di
Gianmaria Aliverta. Il risultato è che il liturgico silenzio in sala durante
l’atto unico è rotto non solo dagli applausi, ma soprattutto dall’incantevole
bisbiglio dei giovanissimi spettatori per commentare qualche scena o dei
genitori chiamati a doverosi chiarimenti di ciò che si vedeva e che si sentiva
sul palco. Aliverta, insomma, ha salvato la sua carriera: è noto che il pubblico
dei bambini il più esigente – e quindi più sincero.
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Altro che gioco da ragazzi. Per quanto la musica di Humperdinck trascini il
racconto (è sufficiente come sample l’inquietudine che suscita il brano del
cuculo), la prima difficoltà di mettere in scena una favola – che fa
dell’immaginazione e della fantasia le provviste principali – può essere rendere
l’aspetto magico: l’asticella rischia di essere alta davanti agli occhi attenti
di bambini sempre più abituati a spettacoli mirabolanti ancorché digitalizzati
al punto che ormai rischiano di vedere Harry Potter come si guarda agli effetti
speciali del quasi centenne Mago di Oz di Judy Garland. Il secondo gradino da
salire è rendere “credibili” i protagonisti che restano comunque due bambini e
per ovvi motivi sono incarnati da quasi-trentenni, in questo caso la canadese
Martina Myskohlid (mezzosoprano, Hänsel) e la bielorussa Albina Tonkikh
(soprano, Gretel). Aliverta, anche grazie alle sue fidatissime Sara Marcucci
(costumi) e Francesca Donati (scene), riesce in questa doppia operazione. Il
regista novarese d’altra parte è abituato a sfidare se stesso portando i sacri
testi della lirica in territori – diciamo così – “stranieri”: la sua
evangelizzazione è orizzontale e verticale, porta l’opera fino in periferia, la
fa pagare poco, la mette in scena con due lire, organizza un concorso per dare
prime chance ai più giovani e seconde chance ai meno giovani. Questa volta il
pubblico pagante è fatto di genitori, ma gli spettatori in platea sono i
bambini.
La trama dell’opera segue pedissequa la favola per come si conosce. La matrigna,
qui anche più igna del solito, è obnubilata dalla paura di essere povera in
canna, come d’altra parte la famiglia è. Quando per sbaglio i figli rovesciano
quel poco di latte rimasto, lei – imbestialita – manda Hänsel e Gretel nel bosco
a raccogliere le fragole perché da mangiare in casa non c’è più niente. Quando
lo viene a sapere, al ritorno dal lavoro, il marito sbianca e dice: ma come, nel
bosco, c’è la strega che mangia i bambini al forno. “Cuoca delle tregende” viene
chiamata nel libretto italianizzato, “bambini biscotti” insiste il testo
riprendendo qui quasi letteralmente un’espressione della favola dei Grimm. Qui
iniziano le avventure dei due fratelli. La paura, tanto per cominciare:
attraversano il bosco dove naturalmente perdono l’orientamento: sono soli, è
buio, sentono voci che sono l’eco delle loro grida, vedono “donne senza volto”.
Questo vortice di spavento è sciolto dall’apparizione di Sandmann, l’uomo della
sabbia, che rassicura i due piccoli e li fa addormentare sulla preghiera degli
angeli custodi (quattordici angeli guardano il mio letto,
due la testolina, due i piedi, due a destra, due a sinistra). Qui, nel passaggio
che porta al risveglio, Aliverta traccia una scena onirica, un’estetica quasi
felliniana con i movimenti ovattati al rallentatore. I due fratelli, avviliti
dalla fame, sognano o si immaginano una tavola imbandita portata dal mago
Rugiadino che ha le sembianze del padre: al rallenti Rugiadino dalle quinte
porta in scena il ben di dio (tutto è bianco, anche il suo abito, le candele
accese sul tavolo), il risveglio dei ragazzini, il loro stupore e l’esultanza
esplosiva di Hänsel. Tutto questo, al rallenti, provoca un effetto melanconico,
quasi commovente, che ricorda da lontano la gioia irrefrenabile, stupita,
ingenua del bambino della Vita è bella quando crede di aver “vinto un carrarmato
vero”.
Ecco finalmente la casa di marzapane con le statuine che in scena sono
rappresentante da bambini – questa volta veri! E bravissimi – che camminano col
passo da zombie perché sotto incantesimo e perché “impastati” col marzapane.
Fanno da umpalumpa della strega (Natalia Gavrilan), la Knusperhexe come da testo
originale, la strega che fa “crunch”, all’anagrafe Rosina Leckermaul che da
tradotto significa qualcosa come Rosina Bongustaia. E, nella regia di Aliverta,
altri non è che la matrigna di Hänsel e Gretel, che loro non riconoscono,
camuffata come una vamp, una speci edi Jessica Rabbit – i guanti rosso fuoco che
arrivano fino al gomito – con i capelli rosa shocking. Ne viene fuori il senso
dell’opera così come pensata dal regista: è lei, la matrigna, ad aver gettato
Hänsel e Gretel nell’angoscia, nella paura del futuro, nel senso di
inadeguatezza. I due fratelli possono liberarsene – in modo figurato – solo
“gettandola” nel forno, lo stesso fuoco dove lei voleva infilarli per
papparseli. Una visione quasi psicanalitica che è – può essere – uno dei diversi
livelli di comprensione dell’opera, come accade a tutte le favole e in generale
a tutte le storie destinate ai bambini. All’acme della trama – la strega che
“condisce” Hänsel in vista dell’infornata – esalta le doti di regia, scene,
costumi, protagonisti: Gavrilan rende l’aria ferina della Leckermaul soprattutto
quando si toglie la parrucca rosa e rivela una crapa spelacchiata come da
iconografia tra racconti di magia nera e Rocky Horror Picture Show; Myskohlid
caratterizza il suo Hänsel con una sacrosanta leggerezza da preadolescente un
po’ tontarello; la Gretel di Tonkikh esce come la prestazione più dinamica,
fresca, autentica di una ragazzina genuina ma astuta, che all’inizio della
storia veniva rassicurata dal fratello ma alla fine è quello che gli salva la
vita. Nella casa di marzapane, sorpresa, era nascosto il segreto di crescere e
magari crescere insieme incontro alla vita che viene.
***
Info
Hänsel e Gretel | Engelbert Humperdinck
Versione italiana | Lorenzo Arruga
Produzione | Teatro Regio in collaborazione con il Conservatorio A. Vivaldi di
Alessandria
Dove | Piccolo Regio di Torino
Repliche | venerdì 28 ore 20 – domenica 30 ore 16
Regia | Gianmaria Aliverta
Scene | Francesca Donati
Costumi | Sara Marcucci
Luci | Andrea Rizzitelli
Trascrizione per orchestra ridotta | Luca Tessadrelli
Direzione | Simon Krečič
Direzione coro voci bianche | Claudio Fenoglio
Cast
Hänsel | Martina Myskholid
Gretel |Albina Tonkikh
Peter | Eduardo Martínez
Madre/strega | Natalia Gavrilan (Madre/Strega)
Sandmann | Flavia Pedilarco
Web | www.teatroregio.torino.it
L'articolo Quella paura necessaria di Hänsel e Gretel: la favola in lirica
incanta il pubblico di bambini al Piccolo Regio proviene da Il Fatto Quotidiano.