C’è un momento in cui capisci che sei cresciuto. Non è un’epifania, te ne
accorgi dalle piccole cose, un lampione che si accende troppo tardi, una faccia
stanca riflessa in un vetro, un’ombra che si allunga senza che te ne renda
conto. Una lunghissima ombra – uno degli album italiani più interessanti fra
quegli usciti in questo 2025 – di Andrea Laszlo De Simone comincia da qui, da
quella consapevolezza che arriva quando il tempo non lo guardi più dall’alto ma
lo subisci, come una marea lenta.
Dopo sei anni lontano dalle scene, lo schivo musicista torinese è tornato (e qui
lo ribadiamo a chi gli fosse sfuggito) con un’opera che non si limita a essere
un disco: è un film, un racconto visivo, una sorta di confessione filmata in
differita. Ma più di tutto è una presa di coscienza sonora. Laszlo dà una forma
riconoscibile alle proprie crepe. “È un progetto audiovisivo – racconta – in cui
ho provato a portare alla luce i pensieri intrusivi, quelli che sono
costantemente presenti dentro di noi anche quando stiamo pensando ad altro e che
finiscono per proiettare lunghe ombre sulla nostra esistenza”. I testi parlano
da soli, e lo fanno sottovoce. Meglio. Laszlo scrive canzoni come si scrivono
lettere che non si spediranno mai.
Composto da 17 brani, dentro c’è la tradizione cantautorale italiana e francese,
ma anche lampi psichedelici, aperture sinfoniche, sussulti rock e anche un’eco
beat. Chi già lo conosce non può ritrovarci una mappa tracciata a ritroso nella
sua stessa discografia, da Le Règne animal fino a Ecce Homo. In Colpevole
ammette tutto, senza cercare perdono: “Come brucia la nostra coda di paglia”. In
Quando si ferma a guardare il cortocircuito dell’amore, quello che cura e
ferisce, che “parla, ride, piange” e ti guarisce solo a metà. Ogni brano è un
fotogramma di una vita normale vista al microscopio, dove le emozioni diventano
materia fisica, quasi tattile. C’è qualcosa di profondamente cinematografico in
questo disco, e non solo perché è anche un film. Ogni canzone sembra una scena,
ogni suono un’inquadratura. Neon è un corridoio vuoto illuminato male.
Diffrazione e Spiragli sono pause che respirano, finestre aperte sul rumore
della mente. Quando arriva Un momento migliore, con la sua confessione spogliata
(“Forse ho mentito sempre o forse son troppo sincero”), il tono si fa quasi
testamentario: è la voce di chi non sa se sta chiedendo scusa o soltanto dicendo
addio.
E poi ci sono i figli, la salvezza momentanea, l’unico motivo per restare. Per
te è una dichiarazione disarmante di semplicità: “Tu sei per me come la neve
bianca sulla cima”. Nessuna posa, nessun sentimentalismo, solo una resa
luminosa, come un padre che impara a respirare dentro la propria ombra. “Quando
viene sera, proietto una lunghissima ombra”, canta alla fine. Ed è proprio
quell’ombra – fragile, estesa, inevitabile – che rende quest’opera viva, col suo
dialogo imperfetto, più sincero di qualunque confessione, in cui ci riconosciamo
tutti.
Foto in evidenza tratta dalla pagina Instagram ufficiale
L'articolo L’album di Andrea Laszlo De Simone è uno dei più interessanti tra
quelli usciti nel 2025 proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Musica Italiana
Se n’è andato Sandro Giacobbe. Il popolare cantante di Signora mia e di Gli
occhi di tua madre è morto a 75 anni dopo una lunga malattia durata dieci anni e
cominciata con un tumore alla prostata che di recente lo aveva costretto su una
carrozzina. “Ogni giorno della mia vita è un giorno intenso, un giorno che passa
vicino alle persone che amo. L’unica cosa che mi spiace è doverli lasciare”,
aveva raccontato in una delle ultime interviste in tv, lo scorso maggio a
Verissimo, quando si era mostrato in sedia a rotelle e rivelato di indossare una
parrucca. “Ne parlo per mandare un messaggio di speranza e di incoraggiamento”,
aveva detto poco prima che la situazione precipitasse.
DALLA GRANDE POPOLARITÀ ALLA NAZIONALE CANTANTI
Nato a Genova il 14 dicembre 1949, Sandro Giacobbe a sedici anni scopre la
passione per la musica e mentre studia ragioneria inizia ad esibirsi con un
gruppo di amici nei locali della Liguria. La sua carriera decolla negli anni ‘70
con brani come Signora mia poi con le partecipazioni a Sanremo. Colpisce tutti
con la sua voce ma anche con il suo fascino, tanto da essere considerato uno dei
belli della canzone pop italiana. La somiglianza fisica con Claudio Baglioni
innesca anche una presunta rivalità col collega: “Più che altro lo erano le case
discografiche, lui con la Rca, io con Messaggerie musicali. E tra noi all’inizio
non c’era grande simpatia”, ha ammesso. Tanti anni dopo si sono conosciuti
meglio, quando Baglioni cominciò a giocare con la Nazionale cantanti di cui
Giacobbe è stato uno dei fondatori con Mogol, Gianni Morandi e Umberto Tozzi,
portando avanti tante iniziative benefiche. “Ci ho passato una vita. Venti anni
da calciatore, una vera schiappa — con 4 gol all’attivo, pochi, ma ne vado
orgoglioso — e 25 da allenatore”, ha ironizzato.
LE ORIGINI UMILI E LE PRIME ESIBIZIONI
Quando di recente gli chiesero se fosse felice Giacobbe rispose di essere
sereno. La felicità vera? Quella vissuta da bambino, “all’alba, insieme ai
contadini sul cassone del camion: cantavano, prima di andare a faticare. E io
sì, ero felice”. Ricordava con grande emozione le origini umili, la famiglia
modesta e quando in estate andava a trovare i parenti di sua mamma a Genzano, in
Basilicata. “Erano mezzadri, alle 5 del mattino salivano sul cassone di un
camion per raggiungere i campi. E cantavano”. Genovese, cresciuto a
Sant’Eusebio, da giovanissimo mise su una band, Giacobbe e le Allucinazioni,
subito dopo essere andato a vedere i Beatles in concerto nel 1965: “Il mattino
dopo ho chiesto a mio zio una vecchia chitarra impolverata, me l’ha venduta per
5.000 lire”. Sognava la musica ma prima di sfondare ha fatto di tutto:
meccanico, operaio, muratore (“Con mio padre, muratore, salivo sui tetti a fare
le coperture in eternit”), barista. La domenica suonava nei locali: con lui
c’erano i Jet di Angelo Sotgiu e Franco Gatti, un altro gruppo dove cantava
Angela Brambati dei Ricchi e Poveri e i New Jet, progenitori dei Matia Bazar.
IL SUCCESSO CON SIGNORIA MIA, SANREMO, IL BOOM IN SPAGNA
Lavorava tanto per potersi pagare le trasferte a Milano, dove incontra il grande
paroliere Oscar Avogadro. Ma la sua vita cambia quando fa ascoltare alcuni pezzi
ad Alfredo Cerruti, discografico all’epoca compagno di Mina e voce degli
Squallor. “Non gli piaceva nulla, che disastro. Disperato, con la chitarra provo
a convincerlo con un ultimo brano appena composto. Niente testo, solo due
parole: ‘Signora mia…’. Mi guarda, folgorato: ‘Fammela sentire di nuovo’. Due,
tre, dieci volte. Chiama Daniele Pace, il compositore: ‘Voglio un disco.
Subito’”. Signora mia – che racconta una storia che Giacobbe ebbe quando aveva
19 anni, con una donna molto più grande di lui – esplode grazie ad Alto
gradimento, diventa un successo clamoroso e Lina Wertmuller la inserisce nella
colonna sonora di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare agosto. Due
anni dopo, nel ‘76, arriva il primo Sanremo e si classifica terzo con il brano
Gli occhi di tua madre (anche quella racconta la storia con una donna più
grande) e non si ferma più. Partecipa come autore allo Zecchino d’Oro con la
canzone Sette note, pubblica brani di grande successo come Sarà la nostalgia,
nell’‘83 torna di nuovo a Sanremo con Primavera. Ma va forte anche all’estero,
in particolare in Spagna, dov’è molto amata la sua Il Giardino Proibito. “Un
giorno raggiungo un teatro di Madrid e ad attendermi, fuori, trovo una folla di
ragazze. Mi chiudo nel taxi. Hanno letteralmente sradicato la portiera,
l’autista era furibondo”.
LA FAMA DI SEDUTTORE, L’AMORE E LA MALATTIA DEL FIGLIO
Alto, occhi azzurri, prestate. Sandro Giacobbe ha sempre avuto fama di gran
seduttore, piaceva alle donne e ricambiava. Poi mette la testa a posto, si sposa
e dal primo matrimonio nascono due figli, Andrea (ha seguito la carriera del
padre e scrive canzoni) e Alessandro (ha giocato a calcio e fa all’allenatore).
Quando il suo primogenito compie 12 anni, scoprono che è malato di cancro: “Un
papà non dovrebbe mai sentire che suo figlio ha un tumore ed è in pericolo di
vita. Avrei voluto morire io al suo posto”, ha raccontato. “La cosa sembrava
risolta ma tre anni dopo c’è stata una recidiva e ho dovuto fare una scelta
difficilissima. Ho deciso di farlo operare e oggi è sanissimo”. In quel momento,
siamo nel 1997, il successo si affievolisce, fatica a ricominciare ma in diverse
occasioni ha raccontato di non essersi abbattuto per la perdita di popolarità:
“Faccio ancora concerti, anche all’estero. E sono felice di tutto ciò che sono
riuscito a realizzare nella vita”.
IL TUMORE, IL MATRIMONIO CON MARINA E LA TV
Ma quella del figlio Andrea non è l’unica malattia che ha colpito la famiglia
Giacobbe. Nel 2015 scoprì un tumore alla prostata che dopo l’operazione sembrava
essere stato sconfitto, mentre in realtà tra cure e metastasi varie lo ha
colpito per dieci anni. Nel 2016 fu operato d’urgenza per un meningioma, un
tumore che si sviluppa nelle meningi. Lo scorso ottobre la situazione è
precipitata: “Le metastasi hanno aggredito le ossa del bacino e del femore e mi
hanno obbligato a stare sulla mia Ferrari”, raccontò a Verissimo ironizzando sul
fatto di essere costretto a stare in carrozzina. Così come ironizzò da Mara
Venier, a Domenica In, togliendosi in diretta la parrucca (che aveva
ribattezzato Teresa). Al suo fianco, anche in tv, c’è sempre stata la sua
seconda moglie, Marina Pieroni, il grande amore della sua vita cui era legato
dal 2010 e che ha sposato nel 2022: “Nonostante le terapie, le cose si sono poi
complicate, e sono andata in cura dallo psicologo. Avevo paura di non riuscire
ad affrontare questo percorso, mi ha aiutato molto, l’abbiamo affrontato con
serenità anche scherzandoci su”, ha raccontato la donna.
L'articolo È morto Sandro Giacobbe, il popolare cantante di Signora mia e di Gli
occhi di tua madre è scomparso dopo una lunga malattia proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Musica e risate a Sorrento. In occasione della 48^ edizione delle Giornate
professionali del cinema, Elodie, Claudia Pandolfi ed Emanuela Fanelli si sono
esibite in un karaoke improvvisato sulle note di due tormentoni della musica
italiana dei Ricchi e Poveri: “Sarà perché ti amo” e “Mamma Maria”. Le tre
artiste hanno partecipato alla cena di gala organizzata dopo l’assegnazione dei
Biglietti d’oro. La cantante e attrice è stata insignita del premio
cinematografico per il film “Ti mangio il cuore” di Pippo Mezzapesa, mentre il
duo Pandolfi-Fanelli ha vinto con “Follemente” di Paolo Genovese. Ad assegnare
il riconoscimento è l’Anec, che premia i film che hanno fatto registrare i
maggiori incassi al botteghino.
LO SHOW POST GALA
Come festeggiare la vittoria del Biglietto d’oro? Con un bel karaoke. Elodie,
Claudia Pandolfi ed Emanuela Fanelli hanno dato prova delle loro abilità canore
– quelle della cantante romana sono note a tutti – sulle note delle hit dei
Ricchi e Poveri. Come si vede dal video, la Pandolfi non sembra del tutto
convinta di esibirsi davanti alla platea. Lo strattone amichevole di Elodie
convince l’attrice a unirsi alle amiche, guidate da una Fanelli scatenata.
> ah sì le assistite di gabriele di lillo e camilla zanon che cantano insieme
> (claudia pandolfi in cma quando???) pic.twitter.com/0jDO7TkOo8
>
> — alessia???? (@cvsmicalss) December 4, 2025
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Emanuela Fanelli cantano i Ricchi e Poveri, il video è virale proviene da Il
Fatto Quotidiano.
È morto Claudio Rispoli, più conosciuto come dj Mozart. Il produttore e
musicista tra i pionieri del clubbing italiano, aveva 67anni. Nato ad Ancona nel
1958, aveva intrapreso gli studi pianistici presso il Conservatorio Rossini di
Pesaro: il soprannome “Mozart” è stato preso come spunto proprio dal suo
percorso di formazione nella musica classica.
“L’avvicinamento alla musica è sostanzialmente una responsabilità della mia
famiglia. – aveva raccontato Rispoli a Notte Italiana – I miei genitori si erano
accorti, fin da quand’ero piccolo, che avevo particolari propensioni verso la
musica. Così a cavallo tra le elementari e le medie inizio il conservatorio;
studi fatti con non poca fatica perché studiare non era una cosa che faceva per
me. Ero molto vispo come ragazzino“.
E ancora: “Tra l’altro avevo come maestro un personaggio abbastanza tosto che mi
spronava alla musica: il direttore d’orchestra Marcello Abbado, fratello del più
noto Claudio, che riconobbe in me una particolare dote per la musica in
generale, oltre che per suonare il piano. Mi chiamavano ‘Mozart’ per questo,
perché ero proprio piccolo di statura e perché suonavo sempre il piano, come il
compositore. Da quelle lezioni in poi ho visto e toccato determinate situazioni
dove la musica non era solo qualcosa che potevi imparare a scuola ma era ed è un
fattore di vita”.
Rispoli ha iniziato appena 16enne a lavorare e il “battesimo di fuoco” è stato
alla celebre discoteca Paradiso di Rimini. Poi via via è stato chiamato anche da
altri locali rinomati come il New Jimmy e soprattutto la Baia degli Angeli di
Gabicce. Negli Anni 90 la popolarità internazionale grazie alla hit “Found
Love”.
“Mai nome d’arte fu più azzeccato. – ha commentato Luca De Gennaro – Claudio
Rispoli era un dj che componeva musica attraverso le sue selezioni, usava i
dischi come strumenti di un’orchestra, e ogni dj set diventava una sinfonia.
Aveva un gusto, una conoscenza del suono, una raffinatezza unici. Mozart è stato
un iniziatore, un innovatore, ha inventato un linguaggio, ha rappresentato
l’epoca più gloriosa del clubbing, ha influenzato generazioni di dj ma nessuno
ha mai raggiunto le sue vette creative. Ha attraversato da protagonista i mondi
più sotterranei e notturni, sempre con quel sorriso sornione di chi ha capito, e
la gentilezza semplice di una persona per bene. Ora anche lui è lassù, con
Claudio Coccoluto, MarcoTrani e Frankie Knuckles”
L'articolo È morto dj Mozart, tra i pionieri del clubbing italiano e presenza
storica alla Baia degli Angeli di Gabicce proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Ornella era il mio mito da sempre. Domenica ho trovato una sua chiamata persa,
ho avuto come un sentore. Non l’ho salutata“. Benedetta Porcaroli ha parlato del
rapporto con Ornella Vanoni e del magone che prova per non aver salutato
un’ultima volta la cantante. Nell’intervista a F, l’attrice ha ricordato di aver
trovato una telefonata persa della Vanoni. Dato che, quella domenica, la star
della serie tv “Baby” si trovava a Milano ha pensato di andare a casa della
cantante per farle una sorpresa. “Ho provato a richiamarla dopo cinque minuti,
ma non ha più risposto” ha dichiarato la Porcaroli, che ha aggiunto: “Non l’ho
salutata. Mi rimane un magone tremendo“.
Benedetta ha ricordato l’esperienza condivisa con l’artista milanese sul set del
film “7 donne e un mistero”. L’attrice ha dichiarato di ritenersi fortunata per
aver lavorato con lei e ha confessato di aver avuto “un trasporto artistico per
lei, una stima profondissima. “. La compagna di Scamarcio ha raccontato delle
telefonate con la Vanoni, a volte brevissime, ricche di affetto. “Amore mio mi
manchi, quando ci vediamo?” chiedeva la cantante che, nel mezzo della risposta
della Porcaroli, salutava la ragazza con un “vabbè, ciao”.
Nell’intervista a F Benedetta Porcaroli ha risposto alla domanda sulla relazione
con Riccardo Scamarcio. L’attrice ha dichiarato di voler difendere la sua
privacy, soprattutto in ciò che succede “dentro e sotto il letto”. La 27enne ha
sottolineato che con l’attore stanno bene e si vogliono bene.
La storia tra i due ha fatto scalpore. Scamarcio ha 19 anni in più della
compagna che, a riguardo, ha dichiarato: “Abbiamo età diverse ma siamo
allineati, c’è uno scambio alla pari“. E ancora “L’equilibrio deriva anche dal
fatto che condividiamo lo stesso mestiere”. La Porcaroli ha parlato anche di un
futuro da mamma. L’attrice ha raccontato di sentirne l’esigenza ma di non voler
fare piani a riguardo. Benedetta ha aggiunto che “fisicamente ed emotivamente,
la mia sarebbe l’età perfetta“.
L'articolo “Non ho risposto all’ultima telefonata di Ornella Vanoni. Avevo un
sentore, mi rimane un magone tremendo”: le parole di Benedetta Porcaroli
sull’artista scomparsa proviene da Il Fatto Quotidiano.
Vita e musica di Nino D’Angelo si fondono e conquistano il pubblico.
Dall’anteprima all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, “Nino.18 giorni” è
diventato il documentario musicale più visto della stagione. Il film è frutto
dello sguardo del figlio di Nino, Toni D’Angelo. Il pubblico è rimasto colpito
dal girato del regista che, nel suo documentario costruito come un dialogo
intimo tra padre e figlio, ha ripercorso le tappe del viaggio di Nino. Dal
successo alle battute d’arresto, dai premi alla partenza da Napoli, tutti
elementi che, combinati tra loro, hanno fatto sì che oltre 20.000 spettatori
(dati Cinetel) abbiano acquistato un biglietto per vedere “Nino.18 giorni”.
DALLA MUSICA AL CINEMA
Nino D’Angelo è uno dei cantanti più famosi del panorama neomelodico napoletano.
Tuttavia ridurre la sua carriera alla sola musica sarebbe riduttivo. L’artista
campano ha partecipato a tanti film con ruoli tanto da protagonista quando da
personaggio secondario. Tra i girati più famosi ci sono “Celebrità” (che segna
il suo esordio sul grande schermo), “Lo studente” e “Un jeans e una maglietta”.
Negli ultimi anni Nino D’Angelo ha preso parte anche a serie televisive come
“Vita da Carlo 3” di Carlo Verdone del 2024 e “Uonderbois”, diretto da Andrea De
Sica e Giorgio Romano.
L’INIMITABILE CASCHETTO
Nino D’Angelo è entrato nella cultura popolare anche per la sua immagine: il
caschetto biondo. Nei 7 anni caratterizzati dall’acconciatura iconica l’artista
sale alla ribalta tanto per la sua musica quanto per la sua presenza scenica.
Tra il 1981 e il 1988 il cantante e attore napoletano recita in 14 film. Tra una
produzione cinematografica e l’altra Nino D’Angelo continua a pubblicare canzoni
e partecipa per la prima volta anche a Sanremo, nel 1986, con la canzone “Vai”.
L'articolo “Nino.18 giorni”: è il documentario musicale della Mostra del Cinema
di Venezia più visto della stagione proviene da Il Fatto Quotidiano.
È stato uno dei direttori d’orchestra tv più popolari, grazie anche alla
popolarissima “Buona Domenica” e il “Maurizio Costanzo Show” con Maurizio
Costanzo, Demo Morselli è in pensione da sei anni. Un allontanamento dalla
televisione, ma non dalla musica attiva. Infatti il Maestro va in tour in Italia
con la Demo Big Band Orchestra.
L’addio alla tv dopo 25 anni di onorata carriera: “Perché sento la necessità di
rallentare perché tra televisione, musica, concerti, non riesco a stare dietro a
tutto. Penso che basti una piccola pausa per riordinare le idee, ma in realtà
poi, quando decido di riprendere, capisco che non c’è più spazio per personaggi
come me, ormai la tv è indirizzata verso i reality”.
“Percorro 100mila km l’anno. Dopo essere stato per anni in hotel e ristoranti, –
ha affermato a Libero – però, ogni volta preferisco tornare subito a casa qui a
Porto Santo Stefano. Guido sempre io, ma mia moglie Lucia Montella, che è anche
la mia manager, mi fa compagnia“. Il racconto poi si fa più intimo: “Abbiamo
perso un bimbo per un aborto spontaneo quando io avevo 38 anni. Poi abbiamo
provato due volte con la fecondazione artificiale, ma senza esito”.
Demo Morselli è diventato popolare anche per i suoi lunghi capelli tanto che i
fan che lo intercettano per strada lo mettono alla prova: “I capelli sono tuoi?.
E alcuni me li tirano per verificare oppure: ‘Mi fai il saltello?’. Da bambino i
miei genitori me li fanno tagliare sempre a spazzola, inizio a tenerli lunghi
negli Anni 80, quando conosco Fiorello e il suo codino. I baffetti sono merito
di Gino Paoli. Lo incontro a Napoli e mi chiede di andare in tour con lui. Un
giorno mi guarda: ‘Hai un viso greco interessante e il mento volitivo, mi
ricordi Chet Baker: i baffi ti starebbero bene'”.
Arriva anche Claudio Cecchetto: “Tenetevi pronti che tra un mese c’è da fare un
programma per Canale 5. È il ‘Fiorello Show’, che va in onda al Palaeur di Roma
il 29 gennaio 1995. Siamo tutti pischelli, ma Fiore è irraggiungibile: è
vulcanico, ha mille idee, fa battute e, soprattutto, improvvisa tutto. E si
inventa pure un mio soprannome: Ambro, perché mi vede a fianco di Ambra
Angiolini e abbiamo la stessa pettinatura. Fa 12 milioni di telespettatori. Da
quel momento mi cambia la vita e il giorno dopo, quando esco di casa, tutti mi
riconoscono e mi chiamano: Ambro”.
L’incontro con Maurizio Costanzo al matrimonio di Giorgio Gori e Cristina
Parodi: “Ci sono tutti, da Berlusconi a Confalonieri, e c’è pure Maurizio
Costanzo che mi sente suonare con l’orchestra. Poco tempo dopo mi rivede a ‘Un
disco per l’estate’, mi viene incontro e mi dà la mano dicendo: Io e te faremo
tanta strada insieme. È lui a insegnarmi come ci si muove nel mondo della tv.
Dopo tre puntate di ‘Buona domenica0 gli chiedo: Posso venire a vedere il
Costanzo Show che sono curioso? Mi consegnano i biglietti per la prima fila e,
appena si apre il sipario, Costanzo annuncia: Abbiamo il piacere di avere il
direttore d’orchestra Demo Morselli. Poi propone di andare al Costanzo Show con
la mia orchestra, composta da 24 elementi, ogni lunedì”.
L'articolo “I capelli sono i tuoi? E me li tirano per verificare oppure mi
chiedono di saltare. Con mia moglie abbiamo provato la fecondazione artificiale,
dopo un aborto. Nulla”: così Demo Morselli proviene da Il Fatto Quotidiano.
Garbo è uno dei pochi artisti italiani che possono davvero parlare di coerenza.
Cinquant’anni fa registrava i suoi primi demo; oggi continua a muoversi con la
stessa lucidità, senza deviazioni, senza compromessi. Giovedì 4 dicembre sarà al
Legend Club di Milano (info ticket qui) per presentare Sulle cose che cambiano,
il nuovo disco: una fotografia perfetta di un artista che ancora oggi non
accetta scorciatoie e continua a interrogare il presente con la stessa necessità
degli inizi.
Nei consueti nove punti di questo blog voglio raccontare cosa significa
attraversare mezzo secolo di carriera senza mai perdere la propria traiettoria.
Cominciamo.
1. L’origine: un bisogno fisico
Immaginatelo nel 1975, ancora senza un ruolo e senza un posto nella musica
italiana. Solo un giovane che avverte una pressione interiore che non sa
ignorare. “La musica unita alla parola era un bisogno, come alimentarsi e
dormire”, racconta oggi. Non cerca un pubblico, non cerca un genere: vuole
individuare un varco. E quei primi demo sono proprio questo — il punto in cui la
sua identità comincia a premere per uscire.
2. La new wave prima del nome
Quando gli chiedono se sia stato un artista new wave, lui risponde: “Io ho fatto
semplicemente musica”. Non perché rinneghi quella stagione, ma perché la
intercetta prima che abbia un nome. “Chi la faceva allora non ne era
consapevole”. Senza Internet, senza modelli pronti, quelle sonorità nascono in
modo simultaneo in Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Giappone. È una
sintonia generazionale più che un’estetica costruita. La coerenza comincia qui:
rifiutare l’etichetta per difendere la propria matrice.
3. Contro il racconto, a favore dell’immagine
La grammatica del cantautorato italiano non è mai stata il suo spazio naturale.
“Non ho mai raccontato storie. Mi muovevo con un’attitudine più vicina alla
fotografia o al cinema”, spiega oggi. Nei suoi brani non c’è una trama da
seguire, ma istantanee: gesti, attimi, tensioni. Nessuna narrazione lineare,
nessuna consolazione emotiva. In un panorama che cercava racconto e
riconoscibilità, la sua voce si muoveva per fotogrammi: un modo diverso di stare
nella canzone, e la prima incrinatura nel modello dominante.
4. L’ingresso in discografia e il limite del consenso
All’inizio degli anni ’80 le case discografiche sono organismi imponenti. Dentro
questo sistema, la sua musica entra senza scorciatoie: un nastro ascoltato da
qualcuno che riconosce un suono diverso dal solito. È un ingresso laterale,
quasi anomalo per l’epoca: “Ho capito da subito che non sarei stato
nazionalpopolare”. Non per posa: per incompatibilità naturale. Le richieste di
addolcire, smussare, rendere più docile arrivano subito. E altrettanto subito
arriva la consapevolezza che piegarsi significherebbe perdere proprio ciò che lo
rende necessario.
5. Battiato, il punto di svolta del suono
Il tour con Battiato è un crocevia: quello è il momento preciso in cui il pop
italiano cambia pelle. “Ho capito che non si sarebbe più tornati indietro”,
sostiene. Non è un caso se il 21 settembre 1981 escono La Voce del Padrone e A
Berlino… Va Bene. Battiato apre una strada nuova dentro il pop colto, portando
complessità e ironia in un linguaggio accessibile. Garbo, nello stesso giorno,
fa un passo diverso: un disco urbano, teso, spigoloso. Strade differenti ma che
si toccano sotto l’egida della bellezza. Battiato trova un equilibrio possibile;
Garbo sceglie di non cercarlo, orientandosi dove la sua musica gli chiede di
stare.
6. Una voce che non somiglia a nessun’altra
Il timbro è subito riconoscibile: asciutto, preciso, senza alcun bisogno di
compiacere. Non cede al vibrato, non rincorre la rotondità, non usa il calore
come rifugio. È una voce che resta esposta, quasi nuda, e proprio per questo
così netta. Negli anni Ottanta, dentro un panorama pieno di enfasi e di
recitazioni melodiche, suona come l’antitesi delle pose: dritta, verticale,
priva di ammiccamenti. Non chiede approvazione, non cerca rassicurazioni.
Inutile aggiungere altro: è perfetta per quell’epoca musicale.
7. L’estetica come frontiera personale
Vestirsi di nero: negli anni Ottanta, in Italia, significava collocarsi subito
fuori dal coro. Niente teatralità, niente eccessi, nessun bisogno di marcare la
scena con colori ridondanti. Uno stile che ha fatto proseliti: uno spolverino
lungo, rigoroso, che diventava un marchio riconoscibile. E poi quel dettaglio
che oggi scivola inosservato ma allora era una dichiarazione di intenti: un filo
di matita sotto gli occhi, gesto che apparteneva a pochissimi. Un’estetica che
non imitava nulla e non rincorreva nessuno: parlava già da sola.
8. Che cosa aspettarsi dal concerto
Garbo non sale sul palco per rimettere in scena un ricordo, ma per riaffermare
un linguaggio: un modo lucido e necessario per festeggiare cinquant’anni di
carriera inossidabile. Il suo sguardo sul presente è netto: un’epoca che
confonde il rumore con la novità e l’immagine con la sostanza. “Oggi gira
talmente poco di nuovo che la sincerità, da sola, basta a distinguerti”, dice.
Quella stessa sincerità la porterà sul palco del Legend insieme a Eugene (voce,
piano + machine), per una performance asciutta, concentrata, senza mediazioni.
L’opening act sarà affidato a Lele Battista. E notizia dell’ultima ora, “on
stage”, ci sarà anche Andy (Bluvertigo).
9. Il mio set nei meandri cangianti della new wave
Dopo il concerto non andate via. Avrò l’onore e il piacere di suonare i miei
dischi. Un DJ set rigorosamente orientato entro i meandri cangianti della new
wave: non una cartolina vintage, ma un continuum con il concerto, attraverso una
selezione costruita sul passo della serata, tra geometrie elettriche, linee
sintetiche e deviazioni improvvise. Ne sentirete delle belle. Ci si vede al
Legend.
Come sempre, chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata,
disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify (link qui sotto). Se vuoi dire
la tua, fallo nei commenti — o, meglio ancora, sulla mia pagina Facebook
pubblica, dove questo blog vive davvero. Lì il dibattito continua, si contorce,
deraglia…e a volte sorprende. E sì: se ne leggono di tutti i colori.
9 Canzoni 9 … Synthetiche
L'articolo Garbo, cinquant’anni di carriera senza deviazioni proviene da Il
Fatto Quotidiano.
“Persona”, “Noi, loro, gli altri” e “È finita la pace”. La trilogia del rap
italiano è narrata all’interno del libro “Qualcosa in cui credere” (Rizzoli
Lizard) dallo stesso Marracash, insieme al giornalista Claudio Cabona. Tra
analisi dei testi, aneddoti e foto di backstage, viene offerta una panoramica
coerente e identitaria degli ultimi tre dischi dell’artista della Barona.
Intanto è partito ieri, 28 novembre, da Eboli Marra Palazzi25, la nuova tournée
nei principali palasport italiani. Dieci date, di cui otto già sold out.
Si parte in ordine cronologico, e quindi da “Persona”, uscito nel 2019. “In quel
periodo ho visto sgretolarsi tutto. Ragionavo: è impossibile credere alla
politica, si aprono i social e non si capisce dove sia finita la verità, – ha
raccontato Marracash. – tutto è messo in discussione, anche la sacralità di
certi valori. Io sono molto legato al mio quartiere, la Barona, ma vedo che ai
ragazzi queste radici non interessano più, non sono importanti come lo sono per
me. Pensavo a tutto questo. Inoltre, arrivavo da una relazione che mi aveva
distrutto fuori e dentro. Senza sapere chi o cosa combattere, in quel periodo mi
sono sentito come una sorta di ultimo samurai, isolato, senza più qualcosa in
cui credere e per cui battermi”.
E ancora: “’Persona’ è stato un disco in cui avevo le spalle al muro (…). Venivo
fuori da una relazione pesantissima che mi aveva fermato la carriera (…).
Nell’ambiente girava la voce che non avrei mai più pubblicato alcunché. C’era
già chi banchettava sul mio cadavere. L’atmosfera intorno a me era quella che si
crea intorno a un artista morto”, ha proseguito.
Poi: “Se fai lo sborone nei testi, a un certo punto arriva della gente che vuole
testare se quello che dici è vero. Io non ho mai pisciato fuori dal vaso. Anche
perché, alla Barona, se racconto che dormo con la pistola sotto il cuscino, qui
qualcuno viene a chiedere delle spiegazioni. Quello che mi difende oggi è il
rispetto naturale che mi sono conquistato raccontando chi sono per davvero”.
L'articolo “C’era chi banchettava sul mio cadavere. Elodie? Non volevamo
separarci, ma allo stesso tempo sapevamo che molte cose non andavano”: così
Marracash proviene da Il Fatto Quotidiano.
In occasione della promozione dell’ultimo album “Antologia della vita e della
morte”, Irama è stato ospite al podcast “Passa Dal BSMT” di Gianluca Gazzoli.
Tra i tanti temi toccati anche quello dei sentimenti e dell’aspetto del gossip:
“Ci sono finito dentro ma non l’ho vissuta bene”. Qualche anno fa il cantautore
ha frequentato Giulia De Lellis, finendo così, suo malgrado, sotto i flash dei
paparazzi.
“Non l’ho mai cercata questa cosa, anzi l’ho sofferta. – ha continuato – L’altra
persona era più in quel mondo lì e non è certo una colpa, ma avevo i paparazzi
attaccati, mi seguivano anche all’estero. Era una cosa folle (…) Per me, per
come sono cresciuto io, da dove arrivo io, non sono mai stato abituato a
raccontare le mie relazioni personali, ma non perché ci sia nulla da nascondere,
ma perché sono private. Non sono neanche dell’idea che, solo perché uno è un
personaggio pubblico, debba per forza parlare della propria vita privata”.
Poi l’aneddoto: “A Parigi io e un mio amico siamo saliti su un treno
incappucciati, abbiamo pensato: ‘Non ci troveranno mai’. E invece sono arrivato
all’albergo, e il giorno dopo c’erano tutte le foto fuori. Quella cosa dei
gossip non l’ho vissuta con fervore, sinceramente. Io non ce la faccio ad andare
al ristorante, preoccuparmi che non si veda. Cioè, voglio vivere normale”.
Infine: “Ho sempre cercato di scindere la mia vita privata dal resto. Non voglio
fare lo stronzo e neppure l’altezzoso ma mi vergogno di finire su riviste che
scrivono di cose di cui non mi frega niente. Io spero che nessuno mi ricordi per
quello ma per la musica. Se non dovessero ricordarmi per la musica vorrebbe dire
che ho fallito”.
L'articolo Irama: “Non voglio fare lo stro**o né l’altezzoso, ma mi vergogno di
finire su riviste gossip. Avevo i paparazzi attaccati, mi seguivano anche
all’estero. Folle” proviene da Il Fatto Quotidiano.