di Annalisa Rosiello *
Il Tribunale del Lavoro di Milano, nella sentenza n° 5214/2015, ha dichiarato
illegittimo il licenziamento per giusta causa di una maschera del Teatro alla
Scala, allontanata dal suo posto di lavoro dopo aver gridato “Palestina libera”
durante un concerto istituzionale alla presenza della Presidente del Consiglio.
La decisione del Giudice, pur riconoscendo l’infrazione disciplinare della
lavoratrice, ha “bocciato” la reazione della Fondazione, ritenendola eccessiva e
sproporzionata rispetto alla reale gravità del fatto.
La sentenza, con una motivazione – va detto – estremamente equilibrata, affronta
il tema del bilanciamento tra il diritto del lavoratore alla manifestazione del
pensiero e gli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà derivanti dal
rapporto di lavoro subordinato.
La vicenda risale al 4 maggio 2025. Una lavoratrice con contratto intermittente
a termine, in servizio come maschera durante il prestigioso evento musicale,
lascia la sua postazione pochi minuti prima dell’inizio del concerto. Si reca in
prima galleria e, mentre le più alte cariche dello Stato prendono posto, si
affaccia e grida “Palestina Libera” tentando di esporre un manifesto prima di
essere immediatamente fermata dalle forze dell’ordine e allontanata.
La reazione della Fondazione Teatro alla Scala è immediata e durissima:
contestazione disciplinare e, pochi giorni dopo, licenziamento per giusta causa.
Le motivazioni? Aver abbandonato il posto di lavoro, aver violato i doveri di
diligenza e obbedienza e, soprattutto, aver leso in modo “irrimediabile” il
vincolo di fiducia, creando “un momento di tensione” in un contesto di massima
rilevanza istituzionale.
Il Giudice del Lavoro ha dichiarato illegittimo il licenziamento per manifesta
sproporzione della sanzione espulsiva. Il fulcro della decisione risiede nel
giudizio di proporzionalità della sanzione. Il licenziamento per giusta causa,
definito dall’art. 2119 c.c. e ricalcato dall’art. 37 del “Contratto Scala”, è
la sanzione massima, applicabile solo per mancanze talmente gravi da non
consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Il giudice è
tenuto a una valutazione autonoma della gravità del fatto, considerando elementi
oggettivi e soggettivi.
La Fondazione aveva motivato la gravità della condotta sulla base di due
elementi: la rilevanza istituzionale dell’evento e il “momento di tensione” che
l’azione avrebbe generato in sala.
Il Tribunale ha smontato questa argomentazione, basando la propria valutazione
su “elementi concreti e oggettivi”. La sentenza qualifica il gesto come una
“plateale ma pacifica manifestazione del proprio pensiero” e ne sottolinea la
“assoluta inoffensività”. Il giudice osserva che nessun elemento concreto
suggeriva che la protesta potesse degenerare in atti violenti o pericolosi per
la sicurezza. Inoltre, la condotta si è esaurita in un lasso di tempo
brevissimo, prima dell’inizio dello spettacolo e senza causare alcuna
interruzione o modifica al programma.
Osserva il Giudice del lavoro di Milano come, “sulla falsariga di quanto
affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, la valutazione degli estremi
della condotta, anche in funzione del giudizio di congruità della sanzione
disciplinare comminata, debba essere operata sulla scorta di elementi concreti e
oggettivi, la cui analisi non può che condurre alla conclusione dell’assoluta
inoffensività del gesto della […] contraddistinto dalla plateale ma pacifica
manifestazione del proprio pensiero e dal tentativo di esposizione di un simbolo
ad esso pertinente, bloccato sul nascere dall’immediato intervento delle Forze
dell’Ordine”. Di conseguenza, il recesso in tronco viene giudicato
“manifestamente sproporzionato” ed “esorbitante”. Il Giudice ritiene che una
sanzione conservativa (come il rimprovero, la multa o la sospensione) sarebbe
stata più adeguata alla reale portata, oggettiva e soggettiva, del fatto.
Accertata l’illegittimità del licenziamento, il Tribunale ne determina le
conseguenze. Viene respinta la domanda di reintegrazione (o “ricostituzione” del
rapporto), poiché il contratto a tempo determinato era già giunto alla sua
naturale scadenza al momento della pronuncia.
Il risarcimento del danno viene liquidato in via equitativa, ai sensi dell’art.
432 c.p.c., proiettando la media delle prestazioni mensili svolte dalla
lavoratrice (16 al mese) per il periodo dall’illegittima estromissione fino alla
scadenza originaria del contratto. Il giudice rigetta la tesi della Fondazione
di limitare il calcolo alle sole chiamate “garantite”, riconoscendo la prassi di
frequenti sostituzioni e variazioni.
La sentenza rappresenta un’importante applicazione del principio di
proporzionalità, riaffermando che la reazione datoriale a un inadempimento del
lavoratore deve essere commisurata all’effettiva lesione degli interessi
aziendali e alla gravità oggettiva della condotta, senza lasciarsi influenzare
da elementi di contesto (come la presenza di alte cariche istituzionali) che non
si traducono in un concreto e provato pregiudizio. In sostanza un gesto di
protesta, seppur in violazione delle norme aziendali, non può giustificare la
massima sanzione espulsiva se, nei fatti, si rivela innocuo e privo di
conseguenze concrete.
*L’autrice del post è anche curatrice di questo blog. Qui la sua biografia
L'articolo Perché è importante la sentenza sul licenziamento della maschera del
Teatro alla Scala che gridò ‘Palestina libera’ proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Licenziamento Illegittimo
Il Tribunale di Milano ha dichiarato illegittimo il licenziamento della giovane
maschera del Teatro alla Scala che il 4 maggio scorso, all’arrivo della premier
Giorgia Meloni per un concerto, aveva gridato dal foyer “Palestina libera“. La
lavoratrice, una studentessa che lavorava come maschera con contratto a termine
e non aveva mai avuto contestazioni disciplinari, era stata subito convocata dal
direttore del personale e allontanata con la contestazione di aver violato
l’ordine di servizio. Poco dopo ha fatto ricorso, con il sostegno della Cub
Informazione & Spettacolo secondo cui la reazione del teatro è stata
sproporzionata e punitiva.
In attesa del deposito delle motivazioni, la prossima settimana, la sentenza
attesta che non c’erano i presupposti per un licenziamento per giusta causa. La
Scala è stata quindi condannata a versare alla lavoratrice 809,60 euro per
ciascun mese tra l’estromissione e la scadenza del contratto, oltre a interessi
e rivalutazione monetaria. Dovrà inoltre pagare 3.500 euro di spese legali ai
difensori della maschera.
La vicenda era deflagrata a fine 29 maggio, quando i sindacati avevano
denunciato che la decisione della Scala aveva tutte le caratteristiche di “un
avvertimento a chi pensa di esprimere liberamente le proprie opinioni“. Anche
perché in passato il teatro avrebbe tollerato condotte ben più problematiche da
parte del personale. E anche in questo caso avrebbe potuto adottare misure meno
pesanti.
L'articolo Dichiarato illegittimo il licenziamento della maschera della Scala
che gridò “Palestina libera” all’ingresso di Meloni proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Sapete cos’è un ‘test del carrello’? Martedì scorso ho denunciato alla Camera
come altri due cassieri fossero stati licenziati dalla Pam di Livorno con la
tecnica del “cliente invisibile”. Dico altri due perché prima era scoppiato il
caso gravissimo di Siena: il licenziamento disumano e pretestuoso di un delegato
sindacale 62enne, che a quelle casse lavorava da 13 anni e tra cinque sarebbe
andato in pensione. Un lavoratore che, tra l’altro, era già stato sottoposto al
test, superandolo.
Il licenziamento in tronco di Fabio Giomi, delegato sindacale di 62 anni, a soli
cinque anni dalla pensione, con moglie invalida e figli a carico, ha fatto
finalmente clamore. Ha raccontato lui, Fabio Giomi, come sono andate le cose:
“Un giorno si è presentato in cassa un ispettore per farmi questo test del
carrello”; aveva nascosto diversi articoli minuscoli (lacci per capelli, matite
per gli occhi, maschere per il viso) dentro le casse di birra da quindici
bottiglie, sfruttando la fessura laterale. “Mi ha detto che avrei dovuto aprire
le scatole e controllare cosa c’era dentro. Mi disse che, volendo, lui con
questo sistema mi avrebbe ‘rubato l’anima’ e che questa cosa avrebbe avuto delle
conseguenze”.
Ma bisogna vedere il quadro grande: circa 60 lavoratori verranno messi alla
porta da Pam tra Siena, Livorno, Firenze e Roma. Perché, insieme all’abuso del
“test del cliente fantasma”, c’è la chiusura del supermercato di Campi Bisenzio
(45 posti di lavoro a rischio). Una “riorganizzazione” completa sulla pelle dei
lavoratori e delle lavoratrici.
E, a quanto pare, dopo i tre che hanno fatto rumore, ci sarebbero stati altri
licenziamenti e contestazioni a pioggia, sempre nei confronti di dipendenti a
tempo indeterminato e con una lunga anzianità, più “costosi” dei giovani
neoassunti con contratti più precari.
Nessun ripensamento, al momento, dell’azienda sui licenziamenti a Livorno e
Siena dopo l’incontro a Roma tra Pam e i sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e
Uiltucs, a cui l’azienda si è presentata con un “addetto alla sicurezza”.
Licenziamenti dall’intento vessatorio e intimidatorio, in un clima che le
lavoratrici e i lavoratori descrivono come sempre più teso. Eppure, la dirigenza
sostiene che il test rappresenti uno strumento legittimo per garantire
l’efficienza operativa e il controllo interno. Invece, è un atto in contrasto
con lo Statuto dei lavoratori, che sancisce che il controllo del corretto
adempimento della mansione debba essere esercitato dal datore o da collaboratori
chiaramente riconoscibili. In contrasto anche con la giurisprudenza consolidata,
orientata a riconoscere che i controlli possano essere effettuati soltanto se il
datore sospetta illeciti o comportamenti fraudolenti.
Di fronte a esplicita domanda, Pam Panorama non ha saputo dire quale sia
l’incidenza dei furti alle casse automatiche, dove una sola cassiera deve
sovrintendere fino a otto postazioni. Invece, ha mostrato la chiara volontà di
colpire dipendenti più anziani, magari con limitazioni su salute e sicurezza.
Intanto, assistiamo dappertutto a un preoccupante ritorno dei licenziamenti
ritorsivi nei confronti dei lavoratori sindacalizzati. A fine ottobre – solo per
citare un caso – un delegato sindacale Fiom-Cgil è stato convocato dalla
dirigenza, invitato a lasciare immediatamente i locali aziendali e raggiunto da
una lettera di licenziamento per soppressione della mansione. Un licenziamento
puramente ritorsivo dopo le tensioni seguite al mancato rinnovo del contratto
nazionale.
Al tavolo nazionale di confronto tra Pam e sindacati, l’azienda non ha fatto
nemmeno mezzo passo indietro, respingendo persino la proposta di trasformare i
licenziamenti in provvedimenti disciplinari. Le distanze sono risultate
incolmabili e l’azienda ha confermato tutti i licenziamenti nei vari punti
vendita della Toscana.
Siamo di fronte a licenziamenti dall’evidente intento vessatorio e
intimidatorio. Lo stesso Fabio Giomi, divenuto simbolo di questa vertenza, ha
dichiarato: “Se certe cose restano isolate, le aziende continueranno a fare ciò
che vogliono”.
Liberali e sovranisti hanno passato anni a dirci che l’articolo 18 era un
ferrovecchio di cui non c’era più bisogno, decenni a sostenere la “flexsecurity”
che ci avrebbe reso tutti più liberi, ma si sono offerti soltanto strumenti alle
aziende per sostituire il lavoro stabile con lavoro precario e liberarsi delle
figure scomode. E la realtà arretra sempre più al di qua delle conquiste del
movimento operaio e di tutti i lavoratori e le lavoratrici che hanno lottato
perché i propri diritti fossero difesi dalla legge.
Somministrati, fantasmi di tutto il mondo, uniamoci perché il nemico non sono i
clienti invisibili ma i padroni di sempre. Con i loro alleati di oggi e di
sempre.
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dall’intento intimidatorio proviene da Il Fatto Quotidiano.