I leader di Pechino lo avevano detto tante volte: Taiwan è la “linea rossa” da
non oltrepassare. Sanae Takaichi quella linea l’ha scavalcata ampiamente quando
il 7 novembre è diventata il primo capo di governo del Giappone a ipotizzare
pubblicamente un intervento militare di Tokyo in caso di attacco armato contro
l’isola che Pechino rivendica come propria. Quell’affermazione, pronunciata con
troppa leggerezza, è diventata l’innesco della peggiore crisi diplomatica tra i
due Paesi asiatici degli ultimi tredici anni. Una crisi che il governo cinese
non è disposto a fermare senza prima ricevere scuse formali.
Cosa ha detto Takaichi?
Parlando davanti a una commissione parlamentare, la premier ha dichiarato che
un’aggressione manu militari di Pechino contro Taipei costituirebbe una
“situazione di minaccia alla sopravvivenza” del Giappone, che pertanto potrebbe
impegnarsi in un’azione militare a fianco di Washington nello Stretto. Uno
scenario consentito – nonostante la costituzione pacifista adottata dopo la
Seconda guerra mondiale – grazie a una legge introdotta nel 2015 dall’ex primo
ministro e mentore di Takaichi, Shinzo Abe. Mai prima d’ora un primo ministro
giapponese in carica aveva utilizzato un linguaggio tanto esplicito su un
possibile coinvolgimento a difesa di Taiwan. Nemmeno Abe, che prima di farlo
aspettò di rassegnare le dimissioni. Con la lady di ferro, Tokyo si allontana
così dalla tradizionale “ambiguità strategica”, postura che – nonostante le
gaffe di Joe Biden – gli Stati Uniti continuano ufficialmente a rispettare non
confermando né negando un eventuale supporto militare a Taipei. Inutili le
rassicurazioni sul rispetto del principio “una sola Cina”. Dire che “la
posizione del governo rimane coerente” – come spiegato dalla premier – non basta
ad alleggerire il significato simbolico di quelle parole.
La risposta di Pechino
“Le dichiarazioni palesemente errate del primo ministro Takaichi su Taiwan hanno
minato radicalmente le fondamenta politiche delle relazioni bilaterali,
danneggiando gravemente gli scambi economici e commerciali”, ha dichiarato
giovedì una portavoce del ministero degli Esteri cinese, preannunciando l’arrivo
di “misure necessarie”. Alcune di quelle misure sono già visibili: Pechino ha
sconsigliato ai cittadini cinesi di recarsi nel Paese per turismo e studio,
mentre ha lasciato intendere di voler introdurre un nuovo blocco sulle
importazioni di prodotti ittici giapponesi, imposto dopo il rilascio delle acque
reflue di Fukushima e rimosso solo di recente. Cancellati inoltre eventi
culturali e commerciali, rinviata l’uscita dei film giapponesi nei cinema. La
prossima mossa – avvertono analisti e media statali – potrebbe includere
restrizioni alle aziende giapponesi per motivi di sicurezza nazionale o persino
un’interdizione alle forniture di terre rare, come avvenuto intorno al 2012,
quando Tokyo nazionalizzò le isole Diaoyu/Senkaku contese con Pechino. Uno
strappo costato il congelamento dei rapporti diplomatici per diversi anni.
Di questo passo, Tokyo rischia danni economici molto pesanti. La Cina è il
secondo mercato per l’export del Giappone dopo gli Stati Uniti, con un volume di
acquisti che nel 2024 ha raggiunto circa 125 miliardi di dollari tra
attrezzature industriali, semiconduttori e automobili. Secondo il Nomura
Research Institute, solo nel settore turistico nipponico – che rappresenta il 7%
del pil nazionale – le perdite potrebbero raggiungere i 2mila miliardi di yen
l’anno (14,3 miliardi di dollari).
Il pressing militare
Senza contare che le ritorsioni potrebbero debordare in una risposta militare,
anche oltre ai consueti pattugliamenti nel mar Cinese orientale intorno alle
Diaoyu/Senkaku. Solo nell’ultima settimana la marina di Pechino ha condotto
esercitazioni nel mar Giallo, mentre il Giappone ha dichiarato di aver alzato in
volo i propri aerei dopo aver individuato un sospetto drone cinese nei pressi
dell’isola meridionale di Yonaguni, a soli 100 chilometri da Taiwan. E proprio
ieri l’ambasciata cinese in Giappone ha citato su X una clausola contenuta nella
Carta delle Nazioni Unite, secondo la quale “se uno qualsiasi dei Paesi fascisti
o militaristi, come Germania, Italia e Giappone, adotta misure per attuare
nuovamente politiche aggressive, i membri fondatori delle Nazioni Unite” – tra
cui la Cina – “hanno il diritto di intraprendere direttamente azioni militari
contro di loro senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza”.
L’ira di Xi Jinping
La reazione di Pechino – particolarmente aggressiva anche per gli standard
cinesi – trova spiegazione nel contesto delle più ampie tensioni storiche con il
Giappone: quest’anno ricorre l’80° anniversario della fine dell’occupazione
nipponica in Cina, celebrata da Xi Jinping con la parata militare del 3
settembre. Ma quella pagina della storia, che nella Repubblica Popolare è
associata al massacro di Nanchino, in passato Takaichi ha cercato più volte di
riscriverla. Non solo visitando il Santuario di Yasukuni in memoria dei
criminali di guerra. Da parlamentare ha persino chiesto di ritrattare le scuse
avanzate da Tomiichi Murayama, il primo leader giapponese ad aver ammesso nel
1995 la responsabilità per le atrocità commesse dall’esercito durante la Seconda
guerra mondiale.
Dal passato al presente: dando sfoggio delle note credenziali nazionaliste,
appena eletta il mese scorso, Takaichi ha confermato di voler portare la spesa
militare del Giappone al 2% del pil entro il 2027, spingendosi anche a
ritrattare il principio di “non introduzione” di armamenti atomici nel Paese nel
quadro dell’alleanza con gli Stati Uniti che tanto preoccupa la Cina. E poi
Pechino l’ha detto innumerevoli volte: Taiwan è una “questione interna”. Vale
per Washington ma anche e soprattutto per il Giappone, che colonizzò l’isola nel
1895 prima di restituirla alla Cina cinquant’anni dopo.
Lo aveva ribadito a fine ottobre lo stesso Xi durante il primo incontro con
Takaichi a margine dell’APEC in Corea del Sud. Al leader cinese deve essere
parso un vero affronto personale vedere ignorare il suo avvertimento nemmeno una
settimana dopo il meeting. Tanto più che l’oltraggio proviene da una donna. Come
avvenuto con Nancy Pelosi, prima speaker della Camera Usa a visitare l’isola in
25 anni, le autorità cinesi hanno dimostrato una certa propensione all’ingiuria
nei confronti di figure femminili ritenute ostili. Riferendosi a Takaichi in un
post su X, il console cinese a Osaka, Xue Jian, ha scritto di non avere “altra
scelta che tagliare senza esitazione quella testa sporca che si è intromessa”.
L’ex direttore del Global Times l’ha chiamata addirittura “strega malvagia”.
La Cina chiude le porte al dialogo
Insomma, non sembrano proprio esserci le premesse per una tregua. Il primo
tentativo di dialogo tra il capo del Dipartimento per gli Affari Asiatici, Liu
Jinsong, e l’omologo giapponese, Masaaki Kanai, è stato definito dalla parte
cinesi “molto insoddisfacente”. Escluso anche un possibile chiarimento tra
Takaichi e il premier cinese Li Qiang a margine del G20 in corso a Johannesburg,
in Sudafrica. Per Pechino, una risoluzione della crisi è contemplabile solo se
la lady di ferro ritirerà quanto affermato, eventualità al momento estremamente
remota. Takaichi deve la sua vittoria elettorale alla capacità di rappresentare
le istanze più conservatrici del Partito Liberal Democratico, al governo quasi
ininterrottamente dal dopoguerra ma che oggi fronteggia l’ascesa di una nuova
destra radicale. E ha l’approvazione dei giapponesi. Secondo un sondaggio
pubblicato domenica da Kyodo News, il 48,8% degli intervistati sostiene la
posizione di Takaichi su Taiwan, mentre il 44,2% si dice contrario.
Il pericolo del nazionalismo
Come in altre circostanze, si affaccia il rischio che il vecchio rancore tra i
due Paesi sfoci in episodi di nazionalismo violento, con atti vandalici contro
aziende giapponesi e aggressioni fisiche. Nel 2012, fu il governo a riportare
faticosamente la calma vedendosi sfuggire il controllo sul sentimento
revanscista nutrito da una parte della popolazione. Ma oggi, nonostante il
rallentamento dell’economia, la Cina si sente più forte, più sicura di sé. Una
potenza alla pari degli Stati Uniti, come implicitamente ammesso da Donald Trump
con il recente riferimento alla nascita di un G2. “La Repubblica popolare non è
più il Paese povero e vulnerabile di un secolo fa, che poteva essere intimidito
e calpestato a piacimento”, avverte un editoriale del China Military Online,
sito collegato all’Esercito popolare di liberazione.
Sul web circola da giorni una foto di Liu Jinsong mentre sembra redarguire Kanai
con indosso giacca e pantaloni del 4 maggio 1919, il movimento antimperialista
di critica contro le richieste avanzate a Versailles dalle potenze vincitrici
nella prima guerra mondiale. Tra queste la più spinosa prevedeva una consegna
della provincia cinese dello Shandong dalla Germania al Giappone. Il post,
diffuso da Yuyuan Tantian, un account social media gestito dall’emittente
statale cinese CCTV, è stato cancellato poco dopo la pubblicazione.
L'articolo Alta tensione tra Giappone e Cina su Taiwan: Pechino pronta a
reagire. Dalle misure commerciali allo scontro armato: le opzioni proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Tag - Taiwan
“Dormo dalle due, alle quattro ore per notte”aveva affermato giorni fa la prima
ministra giapponese Takaichi Sanae. “Non fa certo bene alla mia pelle” aveva
anche aggiunto, mostrando le occhiaie visibili sul suo viso. Rivelazione che ha
confermato l’intento espresso dalla stessa, non appena nominata alla guida del
governo, quando aveva promesso di: “Lavorare, lavorare, lavorare, lavorare e
lavorare”. Sarà la fatica, la mancanza cronica di riposo, o semplicemente la
coerenza e una certa postura radicale in linea con le idee da sempre espresse
dalla leader ultra conservatrice, ad avere causato il più grande impasse degli
ultimi anni con la Cina?
Si è spesso rimproverato ai leader giapponesi di non prendere posizioni risolute
nei confronti dei grandi temi di politica internazionale, specialmente nei
confronti della “Terra di Mezzo” il vicino più scomodo e potente. Sembrava anche
che i rapporti tra le due potenze avessero intrapreso un sentiero aperto al
dialogo, nel primo significativo incontro di fine ottobre in Corea del Sud, a
margine del vertice APEC tra la premier nipponica e il presidente cinese Xi
Jinping.
Invece sono bastate alcune affermazioni – nette e prive di ambiguità – da parte
Takaichi Sanae a scatenare l’ira funesta cinese. Il 7 novembre Takaichi ha rotto
con anni di forte cautela sull’argomento, suggerendo in parlamento che il
Giappone potrebbe fornire sostegno militare a Taiwan se si verificassero scenari
“catastrofici” come un blocco navale cinese delle rotte marittime cruciali
vicino all’isola. E che il Giappone potrebbe quindi intervenire militarmente a
scopo difensivo del proprio territorio che sarebbe posto in quella evenienza, in
grave pericolo. Mai i leader giapponesi erano stati così diretti riguardo alla
risposta di Tokyo in caso di una “emergenza Taiwan”.
E mai le reazioni cinesi sono arrivate così velocemente condite da greve
aggressività, nonostante la premier abbia cercato di calmare le acque
sostenendo:”Le mie dichiarazioni non contraddicono la posizione dei governi
precedenti”. Niente da fare, il governo cinese sta ripetutamente chiedendo alla
prima ministra di ritirare le sue affermazioni, cosa che Takaichi Sanae rifiuta
di fare. Come riparare al danno? Martedì il Giappone ha tentato un chiarimento
inviando a Pechino Masaaki Kanai, direttore generale dell’Ufficio Affari
asiatici e oceanici del Ministero degli Affari Esteri giapponese, che ha
incontrato la controparte cinese Liu Jinsong. Il colloquio però non ha portato a
un chiarimento, anche se il funzionario giapponese ha cercato di rassicurare
dicendo: “La posizione del Giappone rimane invariata rispetto al comunicato
congiunto tra Giappone e Cina del 1972, che riconosceva la Cina come “l’unico
governo legittimo”, sostenendo inoltre che l’affermazione di Takaichi non
modifica quella posizione. Per Liu Jinsong la spiegazione non è bastata, e ha
reiterato:” La dichiarazione della premier va contro il principio dell’unica
Cina – secondo cui Taiwan fa parte della Cina – ed è causa di un danno
fondamentale per le relazioni tra i due paesi.”
Chiuso il sipario tra i due funzionari, non si intravedono incontri possibili
Takaichi- Xi. Gli attacchi verbali diretti contro Takaichi si sprecano: “La
testa sporca che si intromette deve essere tagliata” ha postato giorni fa su X
il console generale cinese a Osaka, Xue Jian, post che ha poi cancellato, sul
sito di Japan Today si legge anche che in Cina un noto commentatore nazionalista
ha definito la premier una “strega malvagia” (altro diplomatico che ricorre a
questa metafora nei confronti di una donna), e una vignetta pubblicata
sull’account X delle forze armate cinesi l’ha raffigurata mentre bruciava la
costituzione pacifista del Giappone.
Non mancano conseguenze pratiche dirette ai cittadini giapponesi. Le rivalse
cinesi mirano a bloccare il turismo in Giappone, con annullamenti di
prenotazioni di gruppo effettuate con mesi di anticipo, anche perché le
cancellazioni vengono facilitate dalle compagnie aeree cinesi che rinunciano
alle penali, mentre a Tokyo l’Imperial Hotel (uno degli alberghi più prestigiosi
della capitale) ha iniziato a ricevere notifiche di cancellazioni per eventi
aziendali e soggiorni. “Se l’attuale fase di stallo nelle relazioni dovesse
protrarsi, il danno economico per il Giappone sarebbe notevole”, ha affermato
Takahide Kiuchi, economista del Nomura Research Institute. Secondo le sue stime,
il solo boicottaggio dei viaggi potrebbe costare al Giappone oltre 14 miliardi
di dollari di perdite all’anno. Inoltre la Cina ha nuovamente sospeso
l’importazione dei prodotti ittici giapponesi. Se da un lato molti e molte
giapponesi – non coinvolte nel business del turismo – tireranno un sospiro di
sollievo dalla mancanza di turisti/e cinesi, dall’altra la tensione diplomatica
e politica è palpabile e di sicuro un “lungo inverno” sta per iniziare.
L'articolo Giappone, la tensione con la Cina a causa di Taiwan ricade sul
settore turistico: si rischiano perdite fino a 14 miliardi di dollari proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Sedici persone, cinque pizze ordinate. Tanto è bastato a Patrizio Pazzini –
fratello del più noto Giampaolo, ex calciatore di Inter e Sampdoria tra le tante
– per scatenare la sua rabbia e insultare pubblicamente i “cinesi”. Gli ospiti
in questione presenti nel suo locale erano turisti di nazionalità taiwanese e il
padrone del locale “Pizzeria Dal Pazzo” – non solo li ha prima definiti “cinesi
di m*rda” perché avevano ordinato soltanto cinque pizze – ma si è preso anche
gioco di loro approfittando del fatto che non capissero l’italiano.
Il video in questione – in cui Patrizio Pazzini sbeffeggia i turisti fingendo
un’accoglienza cordiale e sorridente – è stato poi rimosso a causa delle
tantissime critiche ricevute. Critiche che hanno poi portato il proprietario del
locale a registrare un altro video di scuse, pubblicato sui social. Nel primo
video, diventato virale e arrivato fino alle testate giornalistiche e alle tv di
Taiwan, Pazzini prende in giro i clienti e li riprende con il proprio
smartphone: “Da dove venite? Dalla Cina?”. “Taiwan”, risponde uno dei turisti.
“Taiwan? Andatevene a fanc**o.” E poi di nuovo: “Cinesi di mer*a, quei maledetti
cinesi!”.
Successivamente – dopo aver ripreso i turisti – Pazzini fa vedere le cinque
pizze per sedici, riprende i propri dipendenti e ripete le offese ai clienti
taiwanesi. “Siamo alla follia, sedici cinesi hanno ordinato cinque pizze”.
Anziché chiedere spiegazioni o esplicitare le regole del proprio locale.
Dopo esser diventato virale anche in Taiwan, Patrizio Pazzini ha prima rimosso
il video in questione, poi ha pubblicato un secondo video, stavolta scusandosi:
“Chiedo scusa a tutto il popolo cinese per il video che ho fatto. Vi voglio
bene, chiedo scusa anche a tutto il popolo di Taiwan, noi italiani siamo gente
molto scherzosa. Forza Cina! Forza Taiwan!”. Ma non è bastato: dall’Oriente,
infatti, continuano ad arrivare numerosi commenti di critiche sotto al suo post.
L'articolo “Cinesi di mer*a, 5 pizze per 16 persone”: il video virale (poi
rimosso) del fratello di Pazzini proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’operazione è stata presentata da Taipei come “la prima” da parte “della nuova
amministrazione Trump”: il controvalore è di 330 milioni di dollari e nel
pacchetto ci sono “componenti, pezzi di ricambio e accessori non standard,
nonché supporto per la riparazione e la restituzione di aerei F-16, C-130 e
Indigenous Defense Fighter (Idf)”. Gli Stati Uniti hanno approvato la prima
vendita di armi a Taiwan da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. La
decisione di Washington ha suscitato la reazione della Cina, che ha espresso la
sua “ferma opposizione” alla vendita delle armi, che ritiene “violi gravemente
il principio della ‘Unica Cina’”. Per il Dragone infatti Taipei rappresenta una
“provincia ribelle” da “riunificare”, e anche un “affare interno”, una “linea
rossa”. Ed è considerata, con i suoi 23 milioni di abitanti, parte della Cina e
non un’isola di fatto indipendente e che rivendica la sua democrazia. Taiwan
aveva richiesto “componenti, pezzi di ricambio e accessori non standard, nonché
supporto per la riparazione e la restituzione di aerei F-16, C-130 e Indigenous
Defense Fighter (Idf)”, secondo una dichiarazione rilasciata dalla Us. Defense
Security Cooperation Agency. Il presidente taiwanese Lai Ching-te si è impegnato
ad aumentare la spesa militare. Ma sebbene Taiwan abbia una propria industria
della difesa, il suo esercito sarebbe ampiamente surclassato in un conflitto con
la Cina e continua a dipendere fortemente dalle armi statunitensi.
Mentre cresce la tensione con Pechino e la pressione politico-militare cinese
sull’isola, a preoccupare la Cina ci sono anche le ultime prese di posizione del
Giappone, che hanno comportato la convocazione dell’ambasciatore. Nei giorni
scorsi Sanae Takaichi, prima premier donna del Paese del Sol Levante,
conservatrice, considerata un falco, ha affermato che un attacco militare a
Taiwan da parte della Cina potrebbe rappresentare una “situazione di minaccia
alla sopravvivenza” per il Giappone e potrebbe portare Tokyo a ricorrere al suo
diritto all’autodifesa. Da allora è stato un crescendo di tensioni. Il vice
ministro degli Esteri cinese, Sun Weidong, ha convocato l’ambasciatore
giapponese Kenji Kanasugi per una protesta formale sulle dichiarazioni
“provocatorie” e “sbagliate riguardo la Cina” di Takaichi, sotto accusa a
Pechino per quelle parole “contrarie al principio di un’unica Cina”, caro al
gigante asiatico. La Repubblica Popolare chiede Takaichi ritiri le sue
dichiarazioni. Da Tokyo, riporta la Kyodo, il portavoce del governo, Minoru
Kihara, ha insistito sul fatto che il Giappone auspica una “soluzione pacifica”
per le questioni relative a Taiwan.
La Cina accusa il Giappone di rilanciare “il suo militarismo bellico” – Il
Quotidiano del Popolo, la voce del Partito comunista cinese, in un durissimo
commento pubblicato con lo pseudonimo Zhong Sheng (la ‘voce della Cina’), usato
per esprimere opinioni sulla politica estera, ha affermato che le osservazioni
di Takaichi non erano affatto una “invettiva politica isolata”. La destra
giapponese ha cercato di liberarsi dai vincoli della sua costituzione
post-Seconda guerra mondiale, caratterizzata da solidi vincoli pacifisti, e di
perseguire lo status di potenza militare. Negli ultimi anni, Tokyo “ha imboccato
a testa bassa la strada del potenziamento militare – ha aggiunto il quotidiano
-. Dalle frequenti visite al santuario Yasukuni, alla negazione del massacro di
Nanchino, alla propaganda vigorosa della ‘teoria della minaccia cinese’, ogni
passo di Takaichi segue le vecchie orme della colpa storica, nel tentativo di
insabbiare una storia di aggressione e far rivivere il militarismo”, ha
rincarato il commento. Lo Yasukuni è motivo di scontri: vi sono onorati 2,5
milioni di caduti, inclusi 14 criminali di Classe A legati al Secondo conflitto
mondiale. Le visite dei politici nipponici irritano la Cina e altri Paesi, come
la Corea del Sud. Takaichi, lo scorso venerdì, ha detto in un’audizione
parlamentare che un attacco militare cinese a Taiwan potrebbe rappresentare una
“situazione di minaccia alla sopravvivenza” per il Giappone, il che farebbe
attivare l’esercizio del suo diritto all’autodifesa collettiva. Giudizi che
hanno scatenato l’ira di Pechino, con i media statali in campo con editoriali e
commenti al vetriolo. Il Quotidiano del Popolo ha rilevato che il militarismo di
Tokyo ha utilizzato le cosiddette “crisi di sopravvivenza” per le aggressioni
esterne, come l’Incidente di Mukden del 1931, alla base dell’invasione della
Manciuria cinese. “Ora che una simile retorica sta rivivendo, il Giappone
intende ripetere gli errori della storia?”, ha aggiunto il giornale. Pechino
rivendica Taiwan come parte “sacra” e “inalienabile” del suo territorio e non ha
escluso l’uso della forza per prenderne il controllo.
L'articolo Usa approva la vendita di armi a Taiwan. Tensione tra Cina e
Giappone: convocato l’ambasciatore di Tokyo proviene da Il Fatto Quotidiano.