di Paolo Ghion
Atreju non è che l’ennesimo trono che il potere costruisce per sé. Non serve al
paese, ai cittadini e a risolvere nessun problema reale. E’ un enorme spazio
negativo: colma un vuoto con una voce fuori campo e narra una storia che non
combacia con la Storia. Quindi la manfrina sull’opportunità di parteciparvi e
l’epilogo lascia il tempo che trova.
Poniamo di fare un passo indietro, quel tanto che basta per osservare questa
variopinta fauna politica, il cui purgatorio è una curiosa piramide alimentare
che ha due apici e nessuna base. Nel 2020 l’allora Governo Conte 2, organizzò
gli Stati Generali a Villa Pamphili. Si trattava di un tavolo di confronto, a
cui parteciparono associazioni di categoria, sindacati, cittadini. Alla luce del
Recovery Fund, l’idea era discutere sul come utilizzare quel denaro, che avrebbe
potuto materializzare le proposte pervenute, attraverso i provvedimenti.
Naturalmente vennero invitate le opposizioni di allora (Fratelli d’Italia e Lega
in primis), le cui reazioni furono abbastanza scomposte. Ci si impigliò sulla
scelta del luogo e la Lega si disse disponibile a patto che la seda fosse
istituzionale. Giorgia Meloni si arroccò tra condizioni di disponibilità e
aperture a dibattere emendamenti nel proprio steccato. Si concluse con un
rifiuto, con la futura presidente del Consiglio in tv a decantare la corposità
del proprio piano, il che è tutto molto bello, ma è per l’appunto scavare una
fossa per coccodrilli, intorno al recinto elettrificato e tutto per aver
adocchiato l’angolo di un invito, sbucare dalla cassetta delle lettere, neanche
fosse un matrimonio a luglio.
Conte (presidente del Consiglio dell’epoca) disse: “C’è un po’ di difficoltà a
concordare con l’opposizione un luogo e un tempo in cui confrontarsi. Mi ricorda
un po’ il Nanni Moretti di Ecce Bombo: ‘Mi si nota più se si fa in un modo o in
quell’altro'”. Osservando l’habitat a cinque anni di distanza, è quasi
tragicomico commentare gli atteggiamenti a parti inverse di governo ed
opposizione.
La nostra Presidente del Consiglio attuale, soddisfatta di aver colpito al cuore
una ciambella col buco che i bontemponi chiamano opposizione, non ricorda di
aver disertato un evento di rilancio economico del paese in mezzo ad una
pandemia, soprattutto sbirciando i fotogrammi del proprio atteggiamento prima e
durante i terribili giorni che abbiamo vissuto; il che è un pochino più
importante della solita festa della parrocchia che dinnanzi a crisi economica,
sanitaria ed occupazionale, porta in dote l’ora del selfie irrevocabile in una
notte di fuochi d’artificio che fa felice solo l’industria delle armi.
Per una questione meccanica, mi riesce ostico stendere una lasagna di veli
pietosi sulle forze di opposizione, la cui definizione cela due domande: “Dove e
quando?”. Posto che una cintura di sicurezza floscia chiusa nella portiera
dell’auto ha maggior vigore di questo gruppo di bimbi sperduti, qualcuno
dovrebbe spiegare come si può definire trappola, una caduta dovuta ad una corsa
a lacci sciolti. E’ un mistero che si consideri “occasione persa” dire di no
all’invito a cotale parterre de roi.
Luigi di Maio e Giuseppe Conte ancora insieme sulla breccia, il primo ex
politico del Movimento Cinquestelle, un bel giorno fece una giravolta tale (per
i distratti), che si trovò i bottoni della camicia sulla schiena, poi cominciò a
lanciare moniti verso il secondo che avrebbe disallineato l’Italia dalla Nato.
Il tutto per difendere il proprio consulente per la ricollocazione
professionale, nonché ex PdC, Mario Draghi.
In questa metamorfosi kafkiana da Stati generali a generali prostrati, le forze
“d’apposizione” non sanno come sparar medaglie di stagnola in direzione del
fronte nemico. C’è una gran parte di paese a cui l’opposizione non parla e se si
vuol incalzare Giorgia Meloni, è il caso di farlo al polo opposto del governo e
non dal suo palco. Un semplice consiglio: ad invito ormai accettato, è tanto
disdicevole portare con sé chi non riesce più a curarsi?
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L'articolo La sinistra fuori da Atreju ma Meloni disertò un evento ben più
importante proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Recovery Fund
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e i bonus edilizi hanno contribuito
in maniera decisiva a quello che può essere definito un boom di occupazione nel
Mezzogiorno negli ultimi quattro anni. A beneficiarne sono stati anche i
giovani, con 100mila nuovi occupati under 35 dalla ripresa post-Covid a oggi.
Eppure, questo non ha arrestato l’aumento dell’emigrazione, soprattutto di
giovani laureati. Così come, nell’ultimo anno, al Sud non si è fermata la
crescita del lavoro povero, spinto soprattutto dalla concentrazione di posti di
lavoro in settori a bassi salari come il turismo.
Il quadro è tracciato nel consueto rapporto annuale della Svimez, associazione
per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno. Il rapporto è stato illustrato
giovedì al Palazzo dei gruppi parlamentari dal direttore generale Luca Bianchi e
racconta le solite contraddizioni dell’economia meridionale, portando anche un
chiaro avvertimento: nel 2027, conclusi gli effetti del Pnrr, il Sud tornerà a
crescere più lentamente rispetto al Centro-Nord, ponendo fine alla positiva
anomalia di questi anni in cui è successo il contrario.
La grande occasione del Piano di ripresa è quindi stata sfruttata solo in parte.
A fronte di una crescita sostenuta, non sono stati risolti i problemi sociali
più sensibili, anzi in alcuni casi si sono persino aggravati. La crescita di
occupati nel Sud, tra il 2021 e il 2024, è stata dell’8%, contro il 5,4% nel
resto d’Italia. Tuttavia, dalle Regioni meridionali, sono emigrati nel triennio
ben 175.333 persone con età compresa tra i 25 e i 34 anni, in aumento rispetto
alle 167.693 andate via nei tre anni precedenti. Il Sud continua a perdere
laureati attraverso un meccanismo che favorisce il Nord: nel triennio, 23.446
persone con un titolo universitario sono emigrate dal Sud al Centro-Nord, che
quindi ha più che compensato la perdita di 10.847 laureati emigrati all’estero.
Secondo la Svimez, la perdita di queste competenze costa 7,9 miliardi di euro
all’anno al Sud.
Il boom di posti di lavoro al Sud nasconde quindi altri dettagli non positivi.
Il primo è che il principale settore che ha spinto la crescita è il turismo,
quindi un comparto a basso valore aggiunto e scarse retribuzioni, il quale
concentra un terzo dell’incremento. Più incoraggiante l’aumento del 13,6% nei
settori tecnologici (Ict) e l’8,8% nel pubblico impiego, circostanza
quest’ultima resa possibile dal potenziamento dei servizi pubblici. Al Sud, sei
su dieci dei nuovi occupati ha una laurea. Questi dati settoriali fanno pensare
che molti di loro hanno trovato opportunità che non sempre valorizzano il titolo
di studio conseguito. “Finché il principale canale di ingresso nel mercato del
lavoro continuerà a essere offerto dai settori a più basso valore aggiunto –
chiosa il sommario del rapporto – il Mezzogiorno non riuscirà a valorizzare
pienamente il proprio capitale umano”.
Ecco perché nell’ultimo anno si è verificato ancora una volta il paradosso solo
apparente dell’aumento di occupazione accompagnato da una crescita del lavoro
povero, passato dal 18,9% al 19,4%. La perdita di potere d’acquisto delle
retribuzioni ha colpito il Sud più del Centro-Nord: il calo nel Mezzogiorno è
del 10,2% rispetto all’8,8% nazionale. La performance peggiore è dovuta
soprattutto a due fattori: il primo sono le buste paga che crescono più
lentamente, il secondo è l’inflazione che ha un impatto maggiore sui bassi
redditi. Chi guadagna meno, infatti, destina una percentuale maggiore dei suoi
redditi ai beni di prima necessità. Quando i prezzi di questi prodotti crescono,
è quindi più colpito.
La spinta delle costruzioni, tra bonus e Pnrr, ha avuto effetti maggiori al Sud.
Ecco perché da anni il tasso di crescita meridionale è migliore rispetto a
quello del resto del Paese. Svimez prevede che anche nel 2026 questa dinamica
proseguirà, con Pil in salita dello 0,9% al Sud, grazie al consolidamento degli
investimenti pubblici, e 0,6% al Centro-Nord. Già dal 2027, però, la stima dice
che si invertiranno i valori in maniera perfettamente speculare. Nel biennio
appena passato, il Pnrr ha contribuito con 1,1 punti alla crescita del Pil. Nel
2025-2026 raggiungerà 1,7 punti di contributo, quote sempre maggiori rispetto al
Centro-Nord. Questo anche se l’esecuzione del Piano al Sud risulta un po’ più
lenta, come testimonia il monitoraggio avviato da Svimez con l’associazione dei
costruttori Ance. Il 16,2% dei progetti al Sud è in fase finale, quella del
collaudo, mentre al Centro-Nord arriva al 25,1%.
Un altro motivo per cui il Sud ha avuto buoni dati di occupazione è legato
all’industria, che nel Mezzogiorno è meno esposta agli choc globali. Svimez
avverte però che servono interventi per non invertire la rotta tracciata dal
Pnrr. Ecco perché l’associazione suggerisce una serie di settori che potranno
consolidare la crescita: il social housing, che permetterebbe anche di
intervenire sul crescente problema dell’emergenza abitativa, il sostegno alle
grandi imprese, il ruolo cruciale del Sud nella transizione energetica.
L'articolo Al Sud 100mila nuovi occupati under 35 grazie a Pnrr e bonus edilizi.
Ma altri 175mila sono emigrati proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Commissione europea taglia ancora le stime sulla crescita italiana e
certifica che, una volta esaurita la spinta del Recovery plan, Roma tornerà
fanalino di coda in Europa. A dimostrazione del fatto che la scommessa su cui si
fondava il Pnrr – portare l’Italia fuori dal circolo vizioso dello “zero
virgola” e mettere in sicurezza la sostenibilità del debito – è stata persa.
Nelle previsioni economiche d’autunno Bruxelles rivede al ribasso il Pil di
quest’anno (+0,4%, contro lo 0,7% indicato in primavera) e del 2026, che
dovrebbe chiudersi a +0,8% dallo 0,9% precedente. Quella stima è lievemente
migliore di quella inserita dal governo nel Documento programmatico di finanza
pubblica, ma peggio farà solo l’Irlanda (+0,2%). E il valore atteso per il 2027,
primo anno post-Recovery, accende un allarme rosso: quell’ulteriore +0,8% è il
dato più basso dell’intera Ue che nel complesso viaggerà tra +1,4% (Eurozona) e
+1,5% (Ue a 27).
L’ITALIA RIENTRA NEL CIRCOLO VIZIOSO
Il commissario agli Affari economici Valdis Dombrovskis ha spiegato che la
dinamica “modesta” dell’Italia è oggi sostenuta soprattutto dai consumi delle
famiglie e dagli investimenti pubblici di cui il Recovery resta il “principale
motore“. Con i vincoli del nuovo Patto di stabilità che irreggimentano la
politica di bilancio del governo Meloni – che quel Patto l’ha sottoscritto – la
scadenza del Piano rimetterà a nudo l’atavico problema della bassa produttività
– e di conseguenza bassa crescita – che gli investimenti e le riforme del Pnrr
avrebbero dovuto risolvere.
Tentativo fallito, evidentemente, causa dispersione delle risorse, ritardi nello
spendere davvero i soldi, burocrazia e rendicontazioni che hanno finito per
contare più dei risultati. Così, nonostante l’attesa di “una ripresa dei
finanziamenti e degli investimenti per la coesione” anticipata dallo stesso
Dombrovskis e nonostante le facility che dovrebbero consentire di spendere fino
al 2029 le risorse residue del Pnrr, riecco il circolo vizioso. Alimentato anche
da consumi delle famiglie molto deboli, come ha spiegato il commissario, e “un
ulteriore aumento del risparmio precauzionale”. Senza i miliardi di prestiti e
sovvenzioni a fondo perduto in arrivo dalla Ue, quest’anno l’Italia sarebbe
finita in recessione. A valle del Pnrr tornerà in un equilibrio di bassi
stipendi e bassa produttività. A dirlo è il governo stesso: nel Documento
programmatico di finanza pubblica i tecnici del Mef stimano la crescita
potenziale media nel periodo 2026-2041 allo 0,6%, meno dello 0,8% previsto solo
un anno fa nel Piano strutturale di bilancio di medio termine previsto dalle
nuove regole europee.
“Il governo Meloni ci riporta fanalino di coda in Europa”, attacca
l’eurodeputato M5S Pasquale Tridico, parlando di “bocciatura senza appello delle
ricette economiche dell’esecutivo” compresa l’ultima “legge di bilancio da
ragioneria“. “Non serve a nulla uscire dalla procedura d’infrazione“, la chiosa,
“se si lascia il Paese in rovina”. La Commissione vede infatti il deficit
italiano al 3% nel 2025, al 2,8% nel 2026 e al 2,6% nel 2027, esattamente come
indicato dal governo nel Dpb. E in aprile, dati definitivi alla mano, Bruxelles
deciderà sull’eventuale chiusura della procedura per deficit. Propedeutica
all’attivazione della clausola di salvaguardia che consente di aumentare gli
investimenti in difesa senza impatto sul disavanzo rilevante agli occhi della
Commissione.
IL CONFRONTO EUROPEO
Tornando alla crescita, il confronto europeo è impietoso. Quest’anno Roma fa
meglio solo di Finlandia (+0,1%) e Germania (+0,2%). Nel 2026 sarà penultima,
davanti alla sola Irlanda. Nel 2027 chiuderà la classifica, dietro la Francia
(1,1%) e la Germania (1,2% come Austria e Finlandia). Berlino, dopo un
quinquennio di crescita debole, tornerà a muoversi più rapidamente dell’Italia.
A sostenere la ripresa tedesca saranno l’espansione della spesa pubblica, la
tenuta dei consumi e gli investimenti in edilizia e infrastrutture trainati da
una politica di bilancio vistosamente espansiva: deficit al 4% nel 2026 e debito
in crescita verso il 67% del Pil. Mentre le esportazioni continueranno a
soffrire per dazi, incertezze globali e domanda estera debole.
Sul fronte opposto della graduatoria si conferma la Spagna, che continua a
essere la grande economia dell’Eurozona con il passo più rapido. Bruxelles ha
rivisto al rialzo le stime: +2,9% nel 2025 e +2,3% nel 2026, con una crescita
sostenuta dalla domanda interna, dalla solidità del mercato del lavoro e dal
contributo degli investimenti. Il previsto aumento dell’occupazione, sottolinea
Bruxelles, è attribuibile principalmente al continuo afflusso di migranti, che
sta ampliando notevolmente la forza lavoro e accelerando il ritmo di creazione
di posti. Il tasso di disoccupazione continuerà quindi a scendere: 10,4% nel
2025, poi sotto il 10% nel 2026 e nel 2027. Livelli che la Spagna non vedeva da
oltre un decennio, anche se restano tra i più alti della Ue.
I RISCHI LEGATI A DAZI E “BOLLA DELL’AI”
Il quadro tracciato dalla Commissione resta come sempre esposto a rischi
significativi. Al netto della geopolitica, i principali sono legati a dinamiche
che hanno origine oltreoceano. “A livello globale, le barriere commerciali hanno
raggiunto massimi storici”, ha ricordato Dombrovskis. A pesare sono ovviamente i
dazi di Donald Trump, pur sub iudice da parte della Corte suprema, e “le
risposte da altri attori chiave come la Cina”. Gli esportatori europei
continuano a scontare condizioni penalizzanti: “L’aliquota tariffaria media
affrontata dagli esportatori Ue verso gli Usa si attesta intorno al 10%”, cioè
“significativamente sopra i dazi medi prima che l’amministrazione Trump entrasse
in carica”. Un contesto che pesa su un’economia “altamente aperta”,
“suscettibile alle continue restrizioni commerciali e all’incertezza”. Sul
fronte finanziario, un altro fattore di instabilità arriva da Wall Street. “La
correzione del prezzo dei rischi nei mercati azionari, specialmente nel settore
tecnologico statunitense, potrebbe impattare sulla fiducia degli investitori e
le condizioni di finanziamento”.
L'articolo L’Ue taglia le stime sulla crescita italiana: Roma tornerà fanalino
di coda. Fallita la scommessa del Pnrr proviene da Il Fatto Quotidiano.