Cinquemila operai in marcia chiedendo di tutelare il lavoro. Una prefettura
blindata, isolata, protetta con venti blindati e con le grate per impedire ai
lavoratori di avvicinarsi al Palazzo del Governo, dopo giorni di sciopero e
proteste per lo stallo nella vertenza Ilva. E alla fine, la tensione. Iniziata
con un simbolico lancio di uova e fumogeni dei metalmeccanici di Genova e
seguita dalla risposta della polizia che ha sparato lacrimogeni verso i
manifestanti, alcuni anche ad altezza d’uomo. Mentre a Taranto gli operai
dell’acciaieria hanno terminato lo sciopero ad oltranza che andava avanti da 48
ore con blocchi stradali su due statali, il capoluogo ligure non molla di un
centimetro.
Lo sciopero di oggi, al quale hanno aderito tutti i metalmeccanici in
solidarietà con gli operai di Ilva, era stato giudicato a rischio. La tensione è
palpabile da giorni, perché i sindacati chiedono a Giorgia Meloni di prendere
tra le mani il dossier legato al rischio di chiusura del siderurgico dopo il
“piano corto” presentato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso. Ma la
presidente del Consiglio tace e la situazione è in stallo. Un silenzio al quale
gli operai hanno risposto compatti.
I 5.000 in marcia sono partiti da Cornigliano, presente anche il segretario
generale della Fiom Michele De Palma e la sindaca Silvia Salis, e si sono
diretti verso il centro. Arrivati davanti alla Prefettura è partito il lancio di
uova e di qualche fumogeno. Al quale la polizia ha risposto con i lacrimogeni.
Non si sono registrati contatti, anche perché erano state predisposte le grate
dai reparti mobili. Simbolicamente, dopo il lancio dei lacrimogeni, gli operai
hanno fatto avanzare i mezzi da lavoro che hanno sfilato in corteo e ne hanno
agganciato uno alle barriere in metallo, sradicandola. Ma pur avendo un varco
per superare lo sbarramento non hanno comunque proceduto oltre. Anzi, hanno
deciso di cambiare obiettivo, dirigendosi verso la stazione di Brignole con
l’obiettivo di occupare i binari dopo aver sollecitato la sindaca Salis,
intervenuta per provare a calmare le acque, a sospendere il Consiglio comunale
fino a quando non arriveranno risposte da Roma.
L'articolo Ilva, tensione al corteo di Genova: la polizia spara lacrimogeni
sugli operai proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Taranto
Lorenzo De Tommaso, 25 anni, originario di Pulsano in provincia di Taranto,
studiava Matematica e Fisica alla Sapienza. Da tempo viveva fuori sede, in una
stanza in affitto in un appartamento di via Vigevano, nella zona di piazzale
delle Provincie a Roma. Il giovane – come riporta il Corriere della Sera – è
stato trovato senza vita il 27 novembre scorso dalla sua coinquilina, un’altra
studentessa, che ha forzato la porta della stanza dopo essersi accorta che
Lorenzo non rispondeva. La ragazza ha raccontato alla polizia di essere andata
in bagno prima di lui e, tornata nella sua camera, di aver notato che il
coinquilino non era più uscito. Preoccupata, ha bussato e poi forzato la porta:
De Tommaso era steso sul pavimento privo di sensi. Il personale medico
intervenuto dopo la chiamata al 112 ha constatato il decesso.
INDAGINI IN CORSO
Sul corpo non sono stati riscontrati segni evidenti di violenza. Gli
investigatori del commissariato Porta Pia attendono i risultati degli esami
tossicologici per stabilire se la morte possa essere legata all’assunzione di
farmaci o altre sostanze. Un elemento su cui gli inquirenti stanno concentrando
l’attenzione riguarda il telefono dello studente, inizialmente non trovato
durante il sopralluogo in appartamento e consegnato solo il giorno successivo da
un amico, che non avrebbe avuto accesso diretto alla casa. La polizia sta
valutando se sul dispositivo possa esserci stato materiale cancellato prima
della consegna.
IL LUTTO
A Pulsano, la comunità locale si è stretta intorno alla famiglia: numerosi
messaggi di cordoglio sono stati pubblicati sui social, tra cui quello della
sezione Dem del paese. I colleghi dello studente hanno ricordato Lorenzo come un
ragazzo attento e sensibile: “La perdita di un fratello, così giovane, lascia un
vuoto profondo e ingiusto. A Lorenzo l’augurio di essere presto luce abbagliante
e faro guida per noi”.
L'articolo Studente fuorisede di 25 anni trovato morto in casa a Roma: indagini
su telefono e cause del decesso proviene da Il Fatto Quotidiano.
È vivo il bambino di 4 anni caduto dal primo piano di una palazzina a Taranto.
L’accaduto ieri, poco dopo le 18, in un edificio sito tra Via Pupino e Via
Mazzini. Il bimbo non sarebbe in pericolo di vita.
Dalle prime ricostruzioni sembra che i genitori del ragazzino, una coppia
nigeriana da anni in Italia, non fossero presenti in casa al momento
dell’incidente. Non è ancora chiaro come o perchè il bambino sia precipitato, ma
si pensa possa essersi sporto eccessivamente sulla ringhiera.
Sul posto è arrivato il 118 che, dopo le prime manovre di soccorso, ha portato
velocemente il bimbo all’ospedale Santissima Annunziata. Qui è stato sottoposto
a una Tac total body che ha escluso lesioni. Il bambino rimane ricoverato
tutt’ora in pediatria, in condizioni stabili e costantemente monitorato, e
presenta solo lievi ecchimosi.
Sul posto anche i carabinieri e la polizia scientifica per chiarire la dinamica
dell’incidente.
L'articolo Bambino di 4 anni cade dal primo piano a Taranto: ricoverato in
condizioni stabili. Era da solo in casa proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Massimiliano Di Fede
Sono nato a Taranto e la storia di quella fabbrica è indissolubilmente legata
alla mia famiglia. Mio padre fu assunto nel 1971, quando il complesso
siderurgico si chiamava ancora Italsider ed era a partecipazione statale.
All’epoca, quel lavoro rappresentava un futuro, una promessa di benessere per
un’intera generazione.
Mio padre maturò una consapevolezza dolorosa sulla pericolosità della fabbrica
che, pur dando lavoro, avvelenava l’aria della città. Questa realizzazione lo
spinse a prendere una decisione radicale per proteggerci: ci portò a vivere a
circa 50 chilometri di distanza, a Manduria, dove potevamo aspirare a un
ambiente più sano.
Ricordo con dolore i primi anni 80, quando ero studente delle scuole superiori:
nella mia stessa classe, si ammalarono e morirono di una forma tumorale ossea
due miei compagni appena quindicenni. Erano residenti nel famigerato quartiere
Tamburi, proprio a ridosso degli impianti, dove purtroppo le morti e i malati si
contano ancora oggi in quasi la totalità delle famiglie. Questa tragedia, che ha
colpito ragazzi giovanissimi, è la dimostrazione più lampante di come la salute
sia stata sempre subordinata alla produzione.
Il complesso, oggi noto come Ex-Ilva e attualmente sotto il controllo di
Acciaierie d’Italia, una joint venture tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano, è
l’epicentro di una crisi ambientale, sanitaria, economica e occupazionale. La
fabbrica, dopo essere stata a lungo statale, venne privatizzata e ceduta al
Gruppo Riva che, negli anni, ha gestito l’impianto anteponendo il profitto alla
salute e all’ambiente. La magistratura tarantina ha accertato un disastro
ambientale e sanitario, portando al sequestro degli impianti “area a caldo” da
parte della Procura.
Di fronte al rischio di blocco della produzione, lo Stato italiano è intervenuto
con una lunga serie di “Decreti Salva-Ilva” a partire dal 2012. Questi
provvedimenti, spesso in contrasto con le decisioni della magistratura, sono
stati volti a garantire la continuità produttiva in attesa del risanamento
ambientale, limitando di fatto l’efficacia delle norme a tutela della salute.
Nel 2017, la fabbrica in amministrazione straordinaria fu ceduta ad Arcelor
Mittal. L’allora ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, aveva
promosso questa operazione, introducendo contestualmente il controverso “scudo
penale”. Questa norma esentava gli acquirenti da responsabilità penali per reati
ambientali e sanitari, purché eseguissero il Piano Ambientale. La rimozione di
questa garanzia da parte del Governo Conte I (M5S-Lega) nel 2019 fu un fattore
chiave che portò Arcelor Mittal ad annunciare la volontà di recedere dal
contratto. Il Movimento 5 Stelle aveva duramente criticato lo scudo penale,
ritenendolo una licenza a inquinare.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in diverse sentenze, ha
condannato lo Stato italiano per non aver adottato le misure necessarie per
proteggere la vita privata e il diritto alla salute dei cittadini di Taranto,
sottoposti a rischi ambientali inaccettabili. La CEDU ha riconosciuto la
violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione, obbligando l’Italia a
intervenire.
Oggi, l’impianto opera tra stop produttivi e incertezze finanziarie. Gli operai
sono in uno stato di perenne agitazione: protestano per la mancanza di sicurezza
sul lavoro, per il ricorso massiccio alla cassa integrazione e per il ritardo
del piano di risanamento. Le loro proteste evidenziano un dilemma doloroso: la
paura di ammalarsi è pari a quella di perdere il lavoro.
L’immagine più forte di questa lotta è impressa sui muri di Taranto: il volto di
Giorgio Di Ponzio, il ragazzo morto a soli 15 anni per un sarcoma, è stato
dipinto dall’artista Jorit in un murale. Quell’opera, con la sua drammatica
intensità, non è solo un monumento alla memoria delle vittime, ma un invito a
non arrendersi. La scritta che accompagna l’immagine recita: “Basta ricatti.
Vogliamo salute e lavoro. La nostra vita vale più dei vostri profitti”.
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L'articolo Sono nato a Taranto, a 15 anni ho perso due compagni per tumore: così
si cresce nella città dell’ex Ilva proviene da Il Fatto Quotidiano.
Dopo le assemblee di questa mattina è partita l’occupazione dello stabilimento
siderurgico ex Ilva di Taranto da parte di lavoratori diretti e dell’appalto e
sindacati, con presidi a oltranza e blocchi stradali. La protesta partita ieri
da Genova, con gli stabilimenti di Cornigliano e di Novi Ligure, si estende ora
anche alla città pugliese. Al grido “vergogna, vergogna” gli operai mettono nel
mirino governo e commissari, chiedendo la revoca del piano presentato nei giorni
scorsi e garanzie certe su decarbonizzazione, futuro produttivo e occupazionale,
oltre alla riconvocazione immediata del tavolo a Palazzo Chigi.
La mobilitazione di Taranto è accompagnata da uno sciopero di 24 ore, proclamato
a partire dalle 9 di stamattina da Fim, Fiom, Uilm e USB, ma le sigle non
escludono che la protesta possa proseguire oltre la singola giornata, vista la
tensione crescente nello stabilimento. La statale Appia è stata bloccata
all’altezza del siderurgico, con disagi alla circolazione e lunghe code in
entrambi i sensi di marcia. Il presidio rimane attivo mentre i lavoratori
annunciano ulteriori iniziative se non arriveranno segnali dal governo.
Nel frattempo proseguono i presidi e l’occupazione dello stabilimento dell’ex
Ilva di Genova Cornigliano. I lavoratori hanno passato la notte in strada,
all’esterno dello stabilimento, in alcune tende allestite già da mercoledì sera.
Il presidio potrebbe durare fino a domenica. Intanto oggi dovrebbe tenersi un
primo incontro istituzionale in prefettura. Anche a Novi Ligure sono state
proclamate altre 24 ore di sciopero, con picchetti a oltranza aspettando novità
sull’incontro con il prefetto.
Alle ore 8 circa, sulla A10 Genova-Savona tra Genova Prà e l’allacciamento
A10/A7 verso Genova, Autostrade registrava 8 km di coda a causa della
manifestazione dei lavoratori dell’ex Ilva.
Per lo stesso motivo, code si sono formate in uscita alla stazione di Genova
Aeroporto per chi proviene da Savona. In A7 code in uscita a Genova
Sampierdarena e 4 km di coda nel tratto compreso tra l’allacciamento A7/A12 e
Genova Sampierdarena in direzione Genova. Inoltre, si sono formati 2 km di coda
in A12 Genova-Sestri Levante nel tratto compreso tra Genova est e
l’allacciamento A12/A7 in direzione Genova.
“I lavoratori – è stato spiegato nel corso dell’assemblera di oggi a Cornigliano
– hanno apprezzato l’interessamento e la presenza nella giornata di ieri della
sindaca di Genova Silvia Salis e del governatore Marco Bucci“. “Adesso però – ha
detto Armando Palombo, coordinatore Rsu Fiom Cgil – attendiamo la convocazione
del Governo e chiediamo una data certa in cui si discuta del ‘caso Genovà”.
“Oggi la lotta prosegue: a difesa della nostra fabbrica e di milleduecento
famiglie e per il futuro industriale di questa città”, si legge nel comunicato
diffuso dai sindacati dell’ex Ilva di Genova al secondo giorno di presidio a
Cornigliano contro la chiusura dello stabilimento.
L'articolo Ex Ilva: la protesta dei lavoratori si allarga da Genova a Taranto,
blocchi stradali e presidi a oltranza proviene da Il Fatto Quotidiano.
La conferma di tre offerte, una delle quali “coperta” e ancora senza un nome.
Poi addirittura un quarto player che chiede informazioni e “l’interesse di
operatori nazionali” che rispunta. Eppure, nessun passo indietro sulla necessità
di ricorrere a nuove, massicce, dosi di cassa integrazione. Necessaria, sostiene
l’azienda, per fermate degli impianti motivate da manutenzioni e sicurezza.
Niente di strutturale, insistono governo e Acciaierie d’Italia, ma solo la
necessità di lasciare a casa altre 1.550 persone per la fermata di tre cockerie
e, quindi, delle lavorazioni a freddo sia a Taranto che negli impianti del nord.
Il “piano” del governo per l’ex Ilva è confermato nella sua drammaticità. Da
gennaio si arriverà a 6mila persone in cassa integrazione. L’unica novità?
Potranno accedere alla formazione, 60 giorni per “nuove competenze”. Un
pannicello caldo che non sposta di un millimetro le preoccupazioni dei
sindacati, infuriati dopo la presentazione della strategia voluta da Acciaierie
d’Italia, gestore dello stabilimento e in amministrazione straordinaria, e
l’esecutivo, in primis il ministro delle Imprese Adolfo Urso. Dalla Fiom alla
Uilm, passando per Fim e Usb la richiesta è unanime: ritirare quanto presentato,
ideare un vero piano industriale e prevedere un intervento pubblico, almeno di
garanzia.
Mentre la procura di Taranto scopre le carte sul mancato dissequestro dell’Afo1,
interessato da un incendio a maggio che sarebbe stato causato dal mancato
funzionamento di un impianto di sicurezza, continua l’agonia dell’ex Ilva, alle
prese con una gara di vendita ferma al palo e una produzione ridotta al
lumicino, mentre le finanze dell’azienda sono in profondo rosso. Il governo
aveva riconvocato i sindacati dopo la rottura del tavolo registrata la scorsa
settimana, ma non c’è alcuna reale novità.
Urso ha spiegato che sono in corso le trattative con chi ha manifestato
interesse all’acquisizione: i fondi Bedrock, prossimo incontro giovedì, Falcks e
due gruppi – entrambi extra Ue – con i quali si è in una primissima fase di
negoziazione. Tantissimo fumo, zero di concreto. Così il ministro lascia ancora
le porte aperte anche al fantomatico “interesse italiano”, che finora tuttavia
non ha mai proposto una vera e propria offerta industriale. Urso ha inoltre
spiegato che nel bando di gara sono stati inseriti “elementi vincolanti” su una
decarbonizzazione accelerata e la nave rigassificatrice come fattore abilitante.
È notte fonda.
L'articolo Ilva, il governo conferma: 6mila in cassa integrazione. E Urso
rispolvera il quarto operatore interessato proviene da Il Fatto Quotidiano.
Non si trattò di un errore nel conteggio dei voti, poi corretto, a portare
l’esponente Vito De Palma in Parlamento al posto del collega di partito Marcello
Lanotte. Ma una vera e propria “alternazione del voto popolare”. Perché i
componenti di un seggio di Taranto scambiarono di proposito i voti assegnati a
Fratelli d’Italia con quelli di Forza Italia e così, il seggio che doveva essere
assegnato ai berlusconiani nel collegio di Foggia/Bat, scattò a
Taranto/Altamura.
Risultato: Lanotte fuori dalla Camera, De Palma eletto a Montecitorio e
Massimiliano Di Cuia, anche lui berlusconiano, ripescato in Consiglio regionale
per coprire lo scranno lasciato libero da De Palma con la sua elezione. C’è una
guerra intestina dentro Forza Italia, giocata grazie al supporto dei componenti
di un collegio di Taranto e a discapito anche di Fratelli d’Italia, dietro
l’elezione dell’onorevole De Palma, ex sindaco di Ginosa ed ex consigliere
regionale, alla Camera: una sorta di scippo, sostiene la procura di Taranto
nell’avviso di conclusione indagini notificato a 7 persone, tra cui De Palma e
Di Cuia.
Con loro risultano coinvolti anche i quattro componenti del seggio 54 di Taranto
– presidente, segretaria e due scrutatrici – e un rappresentante di lista, come
anticipato da Nuovo Quotidiano di Puglia e Gazzetta del Mezzogiorno. A vario
titolo, il pubblico ministero Mariano Buccoliero contesta i reati di falso
ideologico, alterazione del voto, induzione in errore di pubblici ufficiali e
violazioni della normativa elettorale.
I quattro membri del seggio 54 avrebbero concorso a modificare l’esito dello
scrutinio alla Camera, omettendo il controllo voto per voto e attribuendo a
Forza Italia preferenze che sarebbero state espresse per Fratelli d’Italia. Con
i dati falsi avrebbero compilato verbali e tabelle inserendo la cifra 52 accanto
alla lista FdI, così da far apparire ribaltato il risultato reale: quel numero
di preferenze era infatti per Forza Italia, che formalmente ricevette invece i
213 voti espressi a favore di FdI. Un “dato completamente falso”, si legge
nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal pubblico ministero.
Una vicenda tutta interna al centrodestra, insomma, ma cruciale per il futuro
dei due politici di Forza Italia indagati. Ad avviso della procura di Taranto,
Di Cuia e De Palma avrebbero infatti utilizzato quei risultati, pur conoscendone
la presunta falsità, per chiedere la rettifica all’Ufficio centrale
circoscrizionale di Bari, inducendo l’autorità a certificare come veri i dati
alterati. In un primo momento, infatti, la ripartizione dei seggi aveva portato
all’elezione di Lanotte, anche lui forzista che era candidato nel collegio
plurinominale di Foggia/Bat.
Ma fu proprio quella modifica decisa “a tavolino” che, secondo i magistrati,
fece invece scattare il seggio alla Camera per Forza Italia nel collegio
Taranto/Altamura, dove era candidato De Palma a danno del collega di partito,
ora presidente del Consiglio comunale di Barletta. In questo modo, sostiene la
procura, De Palma veniva in promosso in Parlamento e “lasciava il posto di
consigliere regionale proprio allo stesso Dicuia (primo dei non eletti)”.
In concreto, De Palma – scrive il Buccoliero – “diffidava l’Ufficio centrale
circoscrizionale” di Bari a “rettificare il precedente giudizio di attribuzione
di voti” del 26 settembre e, “inducendolo in errore”, ad “attestare falsamente
nel successivo provvedimento” del 5 ottobre di tre anni fa che i voti per Forza
Italia erano 213, facendo “illecitamente scattare in suo favore l’attribuzione
del seggio”.
Sia De Palma che Di Cuia, ora ricandidato alle Regionali in Puglia del 22 e 23
novembre, hanno respinto le accuse. “Nessun atto ricevuto, totale estraneità ai
fatti. Ribadisco che sono stato io a presentare un esposto affinché fossero
acquisiti gli atti della sezione che mi venivano negati”, ha sostenuto De Palma.
Mentre Di Cuia afferma: “Intendo precisare che nella sezione oggetto di indagine
non sono mai stato presente. Ed ancora, la notifica dell’avviso di conclusioni
delle indagini preliminari proprio alla vigilia delle elezioni regionali appare
piuttosto singolare”.
Lanotte – ascoltato nelle scorse settimane dalla Digos di Taranto – era
risultato subito eletto, ma nel giro di qualche giorno sulla base del ricorso –
figlio di quei numeri ritenuti falsi dalla procura – a volare a Roma fu De
Palma. Lanotte aveva anche presentato un ricorso alla Giunta per le elezioni.
Ora a far luce arriva l’inchiesta della procura di Taranto, che Lanotte commenta
con amarezza sui suoi social parlando di “soprusi e ingiustizie” e di una
“ferita che pensavo quasi rimarginata” e che invece l’indagine riapre.
L'articolo Indagato il deputato De Palma (FI): “Scrutinio truccato alle
Politiche. A lui i voti di Fdi, così fu eletto al posto di un collega di
partito” proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’altoforno 1 dell’ex Ilva di Taranto sarebbe stato rimesso in marcia
nell’ottobre 2024 come se fosse tutto in ordine. Ma in realtà, secondo gli atti
dell’inchiesta aperta dopo l’incendio che lo ha devastato nel maggio scorso, non
lo era affatto. Insomma, quando il ministro delle Imprese Adolfo Urso andò a
festeggiare la ripartenza dell’impianto, le sue condizioni erano tutt’altro che
perfette. A rivelarlo sono i documenti dell’indagine della Procura di Taranto
che nell’agosto scorso ha detto “no” al dissequestro.
Secondo il pubblico ministero Francesco Ciardo, come anticipato da La Gazzetta
del Mezzogiorno, l’incendio del 7 maggio divampò a causa del malfunzionamento di
almeno una delle “termocoppie”, uno dei dispositivi di sicurezza dell’altoforno,
che non segnalò l’aumento della temperatura, contribuendo a scatenare le fiamme
che gli operai definirono “mai visto prima”. Un rogo gigantesco, colonna di fumo
visibile per chilometri, finito con il sequestro dell’Afo1 e con lo scontro
istituzionale tra i magistrati e il ministro Urso.
Il titolare del Mimit, allora, accusava i magistrati di aver bloccato con la
loro attività necessarie alla salvaguardia dell’impianto – che doveva essere
spento, in quel momento, ma i lavori dell’Afo2 erano in ritardo – e di mettere
con la loro azione a rischio la vendita del siderurgico. Ma ciò che emerge ora
dagli atti è che perfino quando Urso entrò in stabilimento per la cerimonia di
riavvio dell’altoforno, in ottobre, l’impianto non era affatto in piena
efficienza.
Secondo i documenti citati da La Gazzetta, la termocoppia della tubiera 11 –
“letteralmente liquefatta” durante l’incendio, scive il pm – “risultava guasta
già dalla ripresa delle attività dell’ottobre 2024”. E a sette mesi esatti dal
riavvio, la stessa apparecchiatura non era stata “mai sostituita né riparata”.
Non si tratta, tra l’altro, di un caso isolato: al momento dell’incidente, le
termocoppie non operative erano 11 su 96, oltre il 10%: “Un numero
significativo”, annota la procura nel decreto con cui, nell’agosto scorso, ha
rigettato la richiesta di revoca del sequestro avanzata da Acciaierie d’Italia
in amministrazione straordinaria, gestore dell’impianto e guidata da 3
commissari scelti proprio da Urso.
Quel provvedimento – rimasto finora inedito – mette in fila tutte le cause
dell’incendio individuate dagli inquirenti, sulla base delle analisi di Vigili
del Fuoco, tecnici dello Spesal e dell’Arpa Puglia, oltre alla consulente della
Procura, Paola Russo, docente alla Sapienza di Roma. Secondo i magistrati,
“questa grave carenza ha impedito il tempestivo rilevamento di eventuali
anomalie termiche” e “non ha consentito l’attivazione delle procedure operative
previste”.
Accertare le cause dell’incendio, si legge nel decreto, “risulta necessario e
fondamentale per i rilevantissimi profili attinenti alla sicurezza dell’impianto
e di conseguenza dei lavoratori ivi impiegati” e per la “comunità cittadina
posta in prossimità dello stabilimento”. Da qui, il no al dissequestro. Anche
perché, l’evento fu di “pericolosissima portata”, scrive la Procura.
Parole che contrastano frontalmente con la narrazione politica delle ultime
settimane. Solo pochi giorni fa, infatti, il ministro Urso aveva sostenuto che
l’intervento della magistratura di maggio “ha ridotto le capacità produttive del
sito, costringendo i commissari a rivedere i piani aziendali, chiedendo un
ulteriore ricorso alla cassa integrazione”.
Ma ciò che emerge dagli atti – e che Acciaierie d’Italia conosce da agosto –
racconta ben altro: gli accertamenti “hanno evidenziato diversi profili di
criticità relativi alle condizioni di precarietà manutentiva dell’impianto”,
oltre a problemi di “inidoneità” o “omessa manutenzione delle apparecchiature
finalizzate a segnalare la presenza di possibili guasti o situazioni di
rischio”.
Non solo: l’inchiesta ha messo a nudo anche i limiti delle procedure operative
standard e delle prassi imposte ai lavoratori nelle situazioni di emergenza.
Carenze che, scrive la Procura, non sono affatto “di superficiale rilievo”. La
notizia arriva nel giorno in cui a Roma torna a riunirsi il tavolo tra governo e
sindacati dopo l’annuncio dell’estensione della cassa integrazione fino a 6mila
lavoratori a partire da gennaio. Una soluzione contestata dai metalmeccanici che
parlano di un “piano di chiusura” e di “tradimento” di Urso.
L'articolo Ilva, il no dei pm al dissequestro di Afo1: “L’incendio di maggio? I
dispositivi di sicurezza erano guasti” proviene da Il Fatto Quotidiano.