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Mattarella: “Non può evocare la pace chi muove la guerra. Medio Oriente, soluzione dei 2 Stati unica possibile”
“Il principio non può essere muovere guerra per fare la pace: è paradossale. Appare insensata la pace evocata da parte di chi, muovendo guerra, pretende in realtà di imporre le proprie condizioni”. Nel momento in cui sono in corso i colloqui per la tregua in Ucraina, la frase pronunciata da Sergio Mattarella ha più di un significato. Il riferimento del presidente della Repubblica, intervenuto durante la cerimonia dello scambio degli auguri di fine anno con il corpo diplomatico, non è diretto anche se in tanti avranno pensato alla Russia. E in effetti il capo dello Stato ha poi citato direttamente Mosca. “Un protagonista della comunità internazionale, la Federazione Russa, ha, sciaguratamente, scelto di travolgere questo percorso ripristinando, con la forza, l’antistorica ricerca di zone di influenza, di conquista territoriale, di crudele prepotenza delle armi”, ha detto Mattarella. “Le generazioni globali che lottarono contro il nazifascismo in Europa, contro il colonialismo, contro i totalitarismi per rivendicare libertà e diritti, spesso anche a costo della vita, ricercando un progetto di collaborazione sfociato nella creazione dell’Onu – il più ambizioso tentativo nella storia dell’umanità di dare una cornice di regole alle relazioni internazionali – rischiano di vedere infranti, oggi, i loro sacrifici”, ha aggiunto il capo dello Stato, spiegando che “un sistema, costruito per assicurare garanzie di pace e di convivenza – riflesso di equilibri lungamente discussi e negoziati – entra in crisi quando qualche protagonista della vita internazionale lo infrange, ritenendo che non sia più funzionale alla prevalenza dei propri interessi, talvolta ondivaghi, e che questi debbano prevalere sui valori condivisi e sulle esigenze degli altri Paesi. Entra in crisi quando si accampano presunte – e spesso fallaci – esigenze di sicurezza per alterare la bilancia strategica”. Mattarella ha poi ribadito quanto detto davanti al Bundestag, il Parlamento tedesco. “Il controllo della corsa agli armamenti, in particolare di armi di distruzione definitiva, come quelle nucleari, aveva conosciuto risultati significativi. Nel contesto attuale, si rende necessario ribadire con forza che l’uso o anche la sola concreta minaccia di introdurre nei conflitti armamenti nucleari appare un crimine contro l’umanità”. Quindi ha ricordato che questo “è. il quarto Natale di guerra per il popolo ucraino. Si moltiplicano gli attacchi russi alle città e alle infrastrutture energetiche e civili. Le vittime civili sono sempre più numerose. L’Europa e l’Italia restano saldamente al fianco dell’Ucraina e del suo popolo, con l’obiettivo di una pace equa, giusta e duratura, rispettosa del diritto internazionale, dell’indipendenza, della sovranità, dell’integrità territoriale, della sicurezza ucraine”. Il presidente della Repubblica è tornato a difendere l’Unione Europea, definita come “una delle più riuscite esperienze di pace tra i popoli e di democrazia, è nata e si è ampliata nella costante ricerca della pace, ripeto, e della libertà, garantite, nel proprio ambito, in base a Trattati liberamente stipulati dai popoli europei; che ne hanno ricavato diritti e benessere. La storia insegna che, nei rapporti internazionali, dinamiche puramente bilaterali pongono il più debole alla mercé del più forte. Non è accettabile la pretesa che quelle dinamiche tornino a essere la misura dei rapporti tra popoli liberi”. Parlande dell’Ue, Mattarella ha sottolineato: “La libera condivisione di principi e di norme non è una gabbia che costringe, ma un sostegno che tutela, soprattutto i più deboli. Non sorprende che vengano contestate da corporazioni internazionali che si espandono pretendendo di non dover osservare alcuna regola: questa non sarebbe libertà ma arbitrio”. L’inquilino del Quirinale ha poi rivolto il suo pensiero anche “al destino dei popoli del Medio Oriente. A quello della Striscia di Gaza, martoriata per due anni da inumana violenza, innescata dalla barbarie di Hamas e alimentata da una lunga guerra. Si sono aperti spiragli importanti: molto resta ancora da fare per consolidare il cessate il fuoco ed evitare che si dissolva, per ripristinare pienamente gli aiuti umanitari a una popolazione stremata, per avviare la ricostruzione”. L’auspicio del capo dello Stato “resta quello di vedere affermarsi nella regione mediorientale pace e stabilità. Questi traguardi non possono prescindere dalla pacifica coesistenza, nella sicurezza, dei popoli israeliano e palestinese, nella cornice della soluzione a due Stati, che occorre sostenere e difendere da qualsiasi tentativo di comprometterne la praticabilità. Non ve ne sono altre”. L'articolo Mattarella: “Non può evocare la pace chi muove la guerra. Medio Oriente, soluzione dei 2 Stati unica possibile” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La Russa chiede le dimissioni di Garofani, consigliere del Colle: “Lasci il posto al Consiglio supremo di Difesa”
Ignazio La Russa vuole le dimissioni di Francesco Saverio Garofani, il consigliere di Sergio Mattarella, al centro della polemica esplosa tra Palazzo Chigi e il Quirinale. “È il segretario del Consiglio supremo di Difesa, quello che si deve occupare della difesa nazionale. Credo che forse è meglio che quel ruolo lo lasci a qualcun altro”, ha detto il presidente del Senato, intervenendo all’evento Italia Direzione Nord in Triennale, a Milano. E dire che meno di 24 ore era stata Giorgia Meloni a chiudere la polemica aperta martedì scorso, con l’articolo pubblicato da quotidiano La Verità che ipotizzava l’esistenza di un complotto al Colle contro il governo, riportando una dichiarazione di Garofani: “Un anno e mezzo forse non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra: ci vorrebbe un provvidenziale scossone“. Frase che il consigliere di Mattarella ha confermato di aver pronunciato, durante una “chiecchierata in libertà” con gli amici. La frattura, amplificata dall’intervento del capogruppo di Fdi alla Camera Galeazzo Bignami, aveva portato a un incontro tra Meloni e Mattarella al Colle, con la premier che ha chiuso il caso domenica sera: “Ho parlato direttamente con il presidente della Repubblica, ho chiarito tutta la questione. Approfitto per ribadire l’ottimo rapporto che da sempre ho con il presidente Mattarella. Non penso sia il caso di tornare su questa vicenda”. E invece ora è La Russa che torna sulla questione Garofani. “Che Meloni non c’entrasse niente era del tutto evidente. Si parla di un Consigliere che in ambiente di tifosi, a ruota libera, si è lasciato andare improvvidamente a tutta una serie di valutazioni su governo, su Meloni”, dice la seconda carica dello Stato. “Se lo dice un consigliere del presidente della Repubblica non si può addossare questo pensiero al presidente, ma una critica a questo consigliere è assolutamente legittima, soprattutto se gli è stata chiesta una smentita e lui ha detto ‘si trattava di chiacchiere di amici‘. Fosse stato uno di destra oggi lo vedremo appeso ai lampioni di qualche città o cattolicamente crocifisso”, ha aggiunto La Russa. E poi ancora il presidente del Senato ha ribadito: “Si tratta dei suoi personali desideri, che non sono degni di uno che fa il Consigliere del Presidente”. Durante il suo intervento, La Russa si è esposto anche sul caso delle polemiche relative al convegno su Pier Paolo Pasolini organizzato dalla fondazione Alleanza nazionale al Senato. “È come dire che su Giulio Cesare possono parlare solo gli antichi romani. La prosopopea di persone come l’esimio giornalista Abbate (Fulvio Abbate ndr), che ha sollevato il problema, questa spocchia secondo cui appartengono alla sinistra non solo i personaggi, ma anche il diritto di parlare di una persona piuttosto che di un’altra la dice lunga su come si è sviluppato per anni il tentativo di occupare non la cultura, ma il dibattito sulla cultura”, ha detto. “Però non mi sono arrabbiato, anzi correrei a ringraziarlo questo giornalista, perché mi dà l’occasione di dire che non basta questa antica prerogativa della sinistra di pretendere di poter parlare solo loro di certi temi, ma ce ne è una nuova, quasi che parlare di Pasolini fosse figlio del fatto che siamo al governo, come se non l’avessimo mai fatto. Questo dimostra ignoranza: se vuoi parlare, prima documentati”. L’intervento a Milano è stato anche l’occasione per il presidente del Senato per esporsi in vista delle prossime elezioni amministrative: il centrodestra non ha ancora un candidato sindaco. “Prima lo scegliamo e meglio è, ha ragione Salvini, ma bisogna sceglierlo bene. L’ultima volta è stata scelta una bravissima persona, ma non era preparata in quel momento a svolgere quel ruolo. Ha ragione Salvini, bisogna sceglierlo bene ma bisogna sceglierlo presto”, è l’opinione del presidente di Palazzo Madama. “Scommetto che con una futura giunta di centrodestra, resterà in piedi con l’accordo delle società anche il vecchio, intramontabile, glorioso San Siro che tutti ci invidiano”, ha sostenuto. “Sono felice che si parli di costruire il nuovo stadio e speriamo che avvenga nei tempi previsti. Ma avremo il vecchio stadio fino a quando quello nuovo non sarà pronto. Secondo il piano bisognerà abbattere quello vecchio per favorire una legittima volontà di costruire delle cose che con lo stadio c’entrano fino a un certo punto, ma che costituiscono la contropartita data alle società affinché il costo dello stadio non si a a carico dei cittadini”, ha spiegato La Russa. “Ma a quel punto – ha osservato – siamo sicuri che le squadre non cambino idea e non tengano due stadi? Io sono convinto che nel frattempo, se ci sarà come auspico una giunta di centrodestra, saprà parlare con le società, offrire alternative alle cubature previste al posto dello stadio in altre parti del territorio milanese e magari nuovo e vecchio stadio coesisteranno”. L'articolo La Russa chiede le dimissioni di Garofani, consigliere del Colle: “Lasci il posto al Consiglio supremo di Difesa” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fossi un collaboratore di Mattarella starei attento a non dire una sola sillaba fuori posto
di Leonardo Botta A mio avviso il consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, farebbe bene a dimettersi, soprattutto per tutelare il Quirinale. Credo che un collaboratore del presidente della Repubblica dovrebbe astenersi da qualsiasi esternazione in pubblico che lasci anche minimamente trasparire il proprio orientamento politico (che in realtà nel caso di Garofani è noto, essendo lui ex parlamentare del Partito Democratico), anche se pronunciata in “chiacchiere da bar” con amici. Soprattutto, le sue dimissioni sono necessarie per disinnescare le armi dei cecchini governativi puntate contro il Presidente. Guardate per esempio questo titolo sui canali social de La Verità, quotidiano che ha avuto il merito di ricevere e pubblicare la notizia della cena in cui Garofani si sarebbe lasciato andare a quelle dichiarazioni in libertà, titolo che recita: “Perché non può stare un minuto di più lì”. Un lettore distratto potrebbe pensare che il giornale di Belpietro si riferisca a Mattarella; in realtà no, nel titolo si lancia il sasso ma poi nel corpo dell’articolo si nasconde la mano, chiarendo che chi non può stare un minuto di più al suo posto è Garofani. Beninteso, anche un’istituzione come il Colle, oggi retta da un giurista che ha mostrato in questi dieci anni equilibrio e sobrietà, può essere oggetto di critiche, anche feroci, per suoi comportamenti che eventualmente non rispettino il mandato costituzionale. Del resto i partiti di sinistra non lesinarono, in passato, strali contro Leone o Cossiga, quelli di destra contro Scalfaro e Napolitano e, più recentemente, leghisti e grillini chiedevano addirittura l’impeachment per lo stesso Mattarella. Ma fa specie che a guardare la pagliuzza nell’occhio del Presidente siano coloro a cui sono sfuggite le travi in quello di qualcun altro. Per esempio di La Russa, la seconda carica dello Stato: quello che conserva il busto di Mussolini in casa e che ama riscrivere la storia della lotta partigiana. O di Silvio Berlusconi, sulle cui “marachelle” da imprenditore e premier si potrebbe scrivere l’enciclopedia Treccani, già candidato del centro-destra alla presidenza della Repubblica e a cui, quale premio di consolazione, sono stati dedicati nientemeno che un aeroporto e un francobollo. Del resto pare evidente, e non inaspettato, che sia partito l’attacco da destra alla diligenza quirinalizia: per una serie di sfortunate circostanze il centro-destra non è mai riuscito a esprimere l’inquilino del Colle; al massimo ne ha condiviso la scelta, come nel caso dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi. Per cui questa volta per lo schieramento conservatore pare davvero la volta buona: la prossima a varcare la soglia del Quirinale potrebbe essere addirittura Giorgia Meloni, a sistema costituzionale vigente, o qualcun altro espressione dell’attuale maggioranza se dovesse essere riconfermata alle elezioni politiche del 2027 e, nel frattempo, dovesse passare la riforma sul premierato. Per cui, fossi nei panni dei collaboratori di Mattarella (finanche dei corazzieri e del barbiere) starei attento a non emettere anche una sola sillaba fuori posto: da qui al 2029 le truppe d’assalto melonian-salviniane non perderanno occasione per cogliere in fallo il presidente o il suo entourage, lavorando ai fianchi un’opinione pubblica che notoriamente è facilmente impressionabile da titoli a effetto, post, tweet e reel. Del resto, è in nome dell’arcaico motto “tanti nemici, tanto onore” che il centro-destra, di nemici, se ne inventa uno al giorno: aveva cominciato Berlusconi con giudici e magistrati (da lui definiti “metastasi” – tranne, naturalmente, quelli che riusciva a corrompere per comprarsi le sentenze); poi avevano seguitato i suoi alleati ed eredi piazzando nel mirino l’Unione Europea (un po’ meno da quando Giorgia Meloni è diventata “tazza e cucchiaio” con la von der Leyen) e le Corti internazionali, passando per i sindacati e qualunque disgraziato che salga su un barchino per raggiungere le nostre coste. Ora pare sia il turno di Mattarella. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. 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Pertini? “Sorvegliato” dalla questura anche al Colle. Pace, legalità, radicalità e irrequietezza: perché il presidente partigiano parla alla politica di oggi
La voce che annuncia il 25 aprile, lo scopone con Zoff e Bearzot, l’inchino angosciato alla bara di Enrico Berlinguer, le arene faccia a faccia con gli studenti, l’indignazione per il Duce messo sottosopra a piazzale Loreto, l’attesa vana accanto alla mamma di Alfredino, il bimbo nel pozzo. In qualsiasi album dei ricordi si incrocia almeno un’immagine di Sandro Pertini: perfino chi non conosce la sua storia, è in grado di riconoscerne la figura, la pipa, la testa bianca, gli occhiali. È indicato come il “più popolare” presidente della Repubblica, nel senso più letterale: è stato con lui che il capo pro tempore dello Stato ha avuto la maggiore aderenza ai sentimenti comuni di una ampia e trasversale maggioranza dei suoi concittadini, al punto che in certi frangenti il termine popolare ha accarezzato – in anticipo sui tempi – la semantica del populismo. DI LIBERTÀ NON CE N’È UNA SOLA Non per questo, non solo per questo, Pertini ha ormai assunto negli anni e poi nei decenni i lineamenti del mito, meritevole di mille rappresentazioni, racconti, celebrazioni, da Toto Cutugno ad Andrea Pazienza che ne fece un supereroe, dall’eroe che in effetti è stato – sia detto col dizionario alla mano – come suggerisce lo scorrere della sua vita, anche a ripercorrerla solo a salti. Pacifista quando tutti volevano la guerra – la prima, la Grande, la agognata da destra e sinistra -, iscritto con i socialisti dopo aver saputo che i fascisti avevano ammazzato Giacomo Matteotti, la fuga con Turati nel mare di dicembre verso la Corsica e poi, insofferente, come ingabbiato, nell’esilio in Francia, e ancora combattente a Porta San Paolo dopo l’8 settembre per cominciare a liberare Roma, arrestato torturato condannato a morte, evaso per miracolo (di Giuliano Vassalli) dal carcere nazifascista, e di nuovo combattente al Nord. Fino all’insurrezione finale di cui è protagonista e motore nelle fabbriche di Torino e Milano. Eroe, suggerisce il dizionario: ogni volta che ha avuto la vita salva, ogni volta che poteva ritenersi di nuovo al sicuro, ha rimesso in gioco la sua stessa esistenza a beneficio di ciò per cui ha combattuto per tutta la vita: la libertà per un mondo migliore. Il suo era un concetto espanso di libertà – arcinoto – che gli autoproclamati liberali di cui il tempo presente ci fa dono si rifiutano di vedere e che invece lui ha scolpito in una celebre intervista tv: “La libertà è l’esaltazione della dignità del singolo e quindi non può andare disgiunta dalla giustizia sociale”. Chiuse il cerchio di queste 17 parole con l’elenco di un sistema obliquo, dalle pensioni non dignitose ai salari insufficienti, la promessa mancata del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, sempre un po’ trascurato. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Cosa c’è da dire di più, dunque, di Pertini, già eretto sul piedistallo che – una volta tanto – è sostenuto allo stesso tempo dal giudizio della Storia, da quello dei cittadini e perfino dalla cultura di massa? Perché raccontarlo di nuovo a 40 anni dalla fine della sua presidenza e a 35 dalla morte? I registi Mario Molinari e Daniele Ceccarini hanno risposto a queste domande con il docufilm Il settimo presidente (produzione da Arci Savona con il contributo di varie realtà istituzionali, prossima proiezione al Wanted Clan di Milano il 22 novembre). Un altro documentario su Pertini, insomma? Gli interrogativi sono sciolti dentro questo racconto, ricchissimo di testimonianze e affrescato dalla musica di Nicola Piovani, che scorre dall’infanzia a Stella fino agli anni da capo dello Stato, neri per l’Italia: il messaggio silenzioso eppure così insistente che fa da tessitura non esplicita dell’opera di Molinari e Ceccarini è che osservare, seguire, far parlare Pertini significa discutere del tempo che viviamo, anche a contrasto, per quello che la politica del presente non è in grado di dire, di fare, di essere. Il pacifismo, il senso morale, il modo di esporsi all’opinione pubblica come messaggio politico, la radicalità delle idee e la nettezza delle parole per esporle (quasi biblica, Sì sì no no, il di più viene dal maligno). Il lavoro di Molinari e Ceccarini ha l’obiettivo dichiarato di affondare di più e meglio nella storia meno conosciuta di Pertini, prima della comparsa sulla ribalta della Storia, per scoprire che ha sempre parlato la stessa lingua, con la stessa testa e lo stesso cuore, da quel paesino arroccato sui monti dietro al mare della Liguria fino al Quirinale, una lingua che la politica oggi non riconosce quasi più. IL MITO DELLA PACE PER CHI AVEVA FATTO LA GUERRA Quel formidabile messaggio del discorso di fine anno, per esempio, sull’Italia che si doveva fare portatrice di pace nel mondo (“si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame”) per Pertini è stata una convinzione che si è portato in tasca fin da ragazzino. Lui la guerra l’aveva fatta, anzi due: prima sull’Isonzo nel 1917, poi quella di Liberazione, da capo di quel mirabolante impasto che è stato il movimento della Resistenza. Quando il fratello Eugenio nell’aprile del 1944 viene arrestato (è sorpreso a mangiare in un ristorante con la figlia), viene portato in caserma e interrogato: “Sei parente di Pertini?”, “Sì era mio fratello”, “Era?”, “Sì, me l’hanno fucilato”, “Macché fucilato, guida la Resistenza”. Eugenio scoppia a piangere: un anno dopo morirà nel campo di concentramento di Flossenbürg. Cinque giorni dopo suo fratello chiamerà l’insurrezione finale contro nazisti e fascisti. ‹ › 1 / 9 1945_COMIZIO_26_APRILE_PERTINI_A_MILANO Credits indeciso42/Wikipedia ‹ › 2 / 9 SANDRO PERTINI, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 1978 - 1985 Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1978 - 1985 ‹ › 3 / 9 4358145_MEDIUM (1) ‹ › 4 / 9 4136053_MEDIUM ‹ › 5 / 9 IMAGOECONOMICA_104185 SANDRO PERTINI ‹ › 6 / 9 PERTINI_BONINO2 ‹ › 7 / 9 SANDRO_PERTINI_CON_GIOVANNI_PAOLO_II_2 ‹ › 8 / 9 IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SANDRO PERTINI CON EDUARDO DE FILIPPO Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini con Eduardo De Filippo ‹ › 9 / 9 SANDRO_PERTINI_FUNERALE_BERLINGUER Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini al funerale del segretario del PCI Enrico Berlinguer. Eppure Sandro che “guidava la Resistenza” (i mitra, i travestimenti, i messaggi cifrati, le spie, i rischi, il rotto della cuffia) non ha mai cambiato idea sulla guerra. Non ha ancora 19 anni quando partecipa alla sua prima manifestazione di piazza. E’ l’inizio di maggio del 1915, gli studenti rapiti dalla sbornia interventista si ritrovano in via Balbi, a Genova, per urlare al governo di portare l’Italia dentro la guerra che sta facendo scorrere già il sangue in mezza Europa. Pertini in quella piazza grida: “Viva la pace!”. “Era convinto – spiega lo storico Giuseppe Milazzo nel film di Molinari e Ceccarini – che la guerra non solo porta lutti, ma porta anche il Paese alla rovina economica”. Il settimo presidente ricalca con la matita, ancora una volta, un uomo che ha assunto per tutta la vita i connotati della Costituzione, la Carta che si è fatta carne, garante di quella legge di tutti e per tutti che aveva cominciato a scrivere prima del 1947 – oltre vent’anni prima. Uno Stato libero e democratico come obbligo morale, come religione civile. Dice nel documentario Sandra Isetta, figlia dell’avvocato personale di Pertini, amica di famiglia: “Aveva avuto una formazione cattolica, la madre era bigotta. Lui ha sublimato questa educazione in fede politica”. LE MAGLIE A STRISCE DI GENOVA E QUEL DISCORSO DA “DENUNCIA” La Costituzione prima di tutto. Nel 1960 con il veleno della provocazione – consueto e mai debellato dall’attitudine genetica di fascismo e nipotini seguenti – il Movimento Sociale prima fornisce un furbesco appoggio esterno al governo tutto Dc di Fernando Tambroni e poi intende celebrare il suo congresso a Genova, medaglia d’oro per la Resistenza finita quindici anni prima, l’unica città in tutta Europa a liberarsi con le sole proprie forze. I genovesi si ribellano, il 2 giugno – festa della Repubblica – ecco Umberto Terracini, comunista, 17 anni tra galera e confino durante il regime, che ha firmato la Costituzione insieme a Enrico De Nicola. Propone una controriunione con tutti i partiti che hanno partecipato la guerra partigiana. Dopo venti giorni davanti ad almeno 30mila persone a parlare è Pertini. “Le autorità romane – dice – sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori. Eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della Casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere no al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa”. Due giorni dopo migliaia di persone sono in corteo, guidati da politici e comandanti partigiani con tanto di gonfaloni. Lo chiamano movimento delle “maglie a strisce”, come quelle che usavano i camalli, simbolo della rivolta. Il corteo finirà con gli scontri con le forze dell’ordine, i feriti sono oltre 200. Il governo Tambroni cade, il Msi annulla il suo congresso. Quelle manifestazioni, commenta Fausto Bertinotti nel documentario, furono l’inizio dell’interesse per la politica di quella sua generazione. Pertini, dice ancora Bertinotti, oggi “sarebbe denunciato per quel discorso”. UN SORVEGLIATO SPECIALE. AL QUIRINALE Pertini il testardo, l’ostinato, l’irriducibile. E così gli archivi di Stato svelano uno strabiliante paradosso che suggerisce molto dell’Italia del Dopoguerra e ancora di più di quella degli Anni di piombo: il presidente partigiano sarà schedato la prima volta dalla polizia fascista nel 1925 e rimarrà sorvegliato, osservato, guardato a vista per 55 anni. La matematica non tradisce: il conto dice che è rimasto tenuto d’occhio fino al 1980, cioè due anni dopo che è stato eletto presidente della Repubblica. “Anche quando era deputato – dice lo storico Milazzo nel docufilm – i suoi comizi erano registrati, venivano trascritti, venivano presentati esposti per quello che diceva che poi finirono nel nulla”. Fino all’ultimo sbalorditivo episodio sul finire del 1980: la Farnesina comunica alla questura di Savona di aver rilasciato un passaporto diplomatico a Pertini Sandro e chiede se ci siano “motivi ostativi”. Un anonimo funzionario non crede ai suoi occhi e sul documento scrive un appunto che immortala la sua meraviglia: “Per il capo dello Stato?”. Per contro lui si ritrova a difendere fin da subito quella democrazia conquistata faticosamente e quelle istituzioni così fragili. È lui, racconta Luciana Castellina nel doc, che insieme al dirigente comunista Aldo Natoli blocca la rivolta a piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948 da parte di un simpatizzante dell’Uomo Qualunque. I manifestanti imbestialiti sono pronti all’assalto. Natoli e Pertini “trasformarono la tensione in un corteo” dice Castellina, da testimone oculare (“Me lo ricordo perché fu la prima volta che venni arrestata” sogghigna). COI PM A MONTECITORIO: “VENITE DI QUA, SENNÒ CI SENTONO I CORNUTI” Pertini parla di oggi anche quando si ritrova davanti i magistrati che nel 1974 indagano sullo scandalo petroli: i petrolieri finanziano i partiti e i governi fanno decreti che tagliano le tasse ai petrolieri. Alla porta del suo ufficio di presidente della Camera si presentano i giudici Mario Almerighi e Adriano Sansa. Nel film di Molinari e Ceccarini è Sansa a raccontare l’accoglienza di Pertini: “Ci fa un cenno col dito vicino al naso per dire sscchh e ci porta in una piccola stanza cui si arrivava con delle scalette. Dice: sennò ci sentono questi cornuti. Noi non sapevamo a chi si riferiva”. Come ha raccontato Almerighi in un libro di una decina d’anni fa Pertini spiega quel fare guardingo una volta entrati in quella stanza di Montecitorio usata come lavanderia: “Finalmente qui possiamo parlare anche a voce alta: questo palazzo è pieno di micro-spie. La democrazia della nostra Italia sta attraversando un momento delicatissimo”. Almerighi e Sansa gli spiegano di dovergli consegnare documenti che coinvolgono deputati e ministri. “Vedo che tra i partiti che hanno ricevuto denaro c’è anche il Partito socialista”. Racconta Almerighi che Pertini si interrompe, si toglie gli occhiali, si asciuga un accenno di lacrima. “Questo mi addolora (…) Ma la forza della democrazia siete anche voi. Dovete andare avanti. Continuate a fare il vostro dovere. Coraggio. Io starò al vostro fianco, così come nel corso della mia vita sono sempre stato a fianco dei valori della democrazia e della legalità”. Ai magistrati arriverà anche una lettera con cui il presidente della Camera ringrazia per il lavoro fatto dalla magistratura e esprime la sua riconoscenza. “ANTI-CASTA”: IL TERREMOTO IN IRPINIA Un senso morale che lo spingerà a una requisitoria nei confronti dei governi e del Parlamento dopo il terremoto in Irpinia del 1980, un episodio celebre perché reso monumento dalla televisione. Lo trasportano lì con un elicottero, scende, osserva le macerie, viene circondato dai parenti delle vittime, disperati. Da sotto le macerie si sentono ancora gemiti. I soccorsi non sono mai arrivati. Lui risale in elicottero, torna a Roma e in un lungo atto d’accusa su Rai2 non frena la sua indignazione: “Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate?”. Ma come? Uno j’accuse alla classe politica? Di quella classe politica fa parte, il governo in carica lo ha nominato lui, ha scelto lui Arnaldo Forlani come presidente del Consiglio, quindici giorni prima lo ha difeso in un confronto faccia a faccia con gli studenti di Urbino (si trova su youtube) nel corso del quale è anche contestato e lui risponde “libero fischio in libera piazza” – altro che manganelli. La risposta prova a darla nel docufilm Walter Veltroni: “Pertini – spiega – era per storia personale del tutto invulnerabile. E quindi aveva possibilità di pronunciare frasi che non necessariamente rientravano dentro il codice stabilito dal cerimoniale, andava spesso oltre . E un po’ l’età e un po’ questa storia personale gli hanno consentito delle libertà che magari altri non hanno avuto”. Quando è il momento si mette controvento: nel 1974 alla Camera piomba la proposta di aumento delle indennità dei deputati, lui è presidente e perde il controllo: “Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera. Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo‘”. Il talento, lo studio, la formazione socialista, forse il fatto di aver perso il padre amatissimo da piccolo e poi ma anche l’impulsività, l’istrionismo e un certo egocentrismo gli regalano questa capacità di linguaggio carismatico e trascinante, sfrontato ma trasparente, energico tanto da apparire bizzoso. Eppure è incredibile come appaia, ad ascoltarlo da qui, “democratico”: arriva a tutti, non imbroglia, non lascia margini di interpretazione e proprio per questo riesce ad essere a volte tagliente come una lama di rasoio: sì sì, no no. Si conquista la popolarità mantenendo la stessa irrequietezza dell’esule in Francia, che smaniava per tornare in Italia per liberarla. Pertini, conclude Ferruccio De Bortoli parlando nel docufilm, “è un personaggio politico che ha umanizzato le istituzioni e le ha avvicinate allo spirito popolare senza debilitarle nel loro significato. Probabilmente ci siamo soffermati troppo sul carattere e meno sul profilo istituzionale che il personaggio ha interpretato”. La sua popolarità si accosta inevitabilmente a un’energia comunicativa tracimante che vista da qui – dall’era politica in cui populismo e figli più degeneri hanno trionfato – rischia di essere confusa per la stessa cosa. La differenza va cercata, e si fa trovare. 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Sandro Pertini
Meloni al Quirinale da Mattarella: al centro del colloquio le polemiche sul presunto “piano del Colle” contro di lei
Giorgia Meloni è al Quirinale per un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La presidente del Consiglio, appena rientrata dal Veneto, si è recata al Colle per un colloquio con il Capo dello Stato. Al centro, probabilmente, un chiarimento dopo le dichiarazioni del consigliere del Capo dello Stato, Francesco Saverio Garofani, pubblicate da La Verità su un presunto piano anti-Meloni. L’incontro era stato proposto dal presidente del Consiglio questa mattina, con una telefonata a Sergio Mattarella, finalizzata a programmare la visita. Oggi, in un’intervista al Corriere della Sera, Garofani ha confermato le sue parole anche se ha cercato di minimizzare: “Era una chiacchierata in libertà tra amici”. Articolo in aggiornamento L'articolo Meloni al Quirinale da Mattarella: al centro del colloquio le polemiche sul presunto “piano del Colle” contro di lei proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il Consigliere del Quirinale: “Attacco alla Meloni? La mia era una chiacchierata in libertà tra amici”
Non smentisce, anzi conferma le sue parole anche se cerca di minimizzare: “Era una chiacchierata in libertà tra amici”. Francesco Saverio Garofani, consigliere del presidente della Repubblica per gli Affari del Consiglio Supremo di Difesa, cerca di normalizzare il caso che lo ha visto protagonista. Secondo il quotidiano La Verità, infatti, Garofani avrebbe pronuncaito queste parole: “Un anno e mezzo forse non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra: ci vorrebbe un provvidenziale scossone“. Una frase che per Maurizio Belpietro dimostrerebbe l’esistenza di un “piano del Quirinale per fermare Giorgia Meloni“. Articolo rilanciato dal capogruppo di Fdi alla Camera, Galeazzo Bignami, che per il Colle “sconfina nel ridicolo“, come da comunicato diffuso nella giornata di ieri. Oggi è lo stesso Garofani a confermare quei virgolettati, in un colloquio col Corriere della Sera. “Era una chiacchierata in libertà tra amici”, dice il consigliere del Quirinale, convinto di “non aver mai fatto dichiarazioni fuori posto, mai esibizioni di protagonismo”. L’ex parlamentare del Pd si dice “molto amareggiato, per me e per i miei familiari. Mi spaventa la violenza dell’attacco e quel che fa male è l’impressione di essere stato utilizzato per colpire il presidente“. Come ha reagito Sergio Mattarella? “È stato affettuosissimo – assicura Garofani – mi ha detto ‘stai sereno, non te la prenderè”. Il consigliere del Colle si dice convinto di “aver dimostrato con i fatti l’assoluto rispetto per le istituzioni, in tutti i ruoli che ho ricoperto”. Garofani ha “letto e riletto Belpietro, senza capire in cosa consisterebbe il complotto”. Poi assicura che la sua “bussola” è la lealtà: “Da quando il presidente mi ha fatto l’onore di chiamarmi a collaborare con lui, sono stato sempre convintamente al suo servizio, al servizio dell’istituzione”. Alla domanda su una eventuale tessera di partito risponde: “Non faccio politica dal 2018, non sono più iscritto da quando sono uscito dal Parlamento” La dichiarazione di Garofani, invece, è bastata a Belpietro per ipotizzare che al Colle si starebbe lavorando per “sabotare la volontà popolare“, con i “consiglieri di Mattarella” a tramare “nella speranza di fare lo sgambetto a Giorgia Meloni e impedirle di arrivare a conclusione del mandato”. In particolare, il piano segreto sarebbe di creare “una grande lista civica nazionale, una specie di riedizione dell’Ulivo, un’ammucchiata centrista per togliere voti” alla premier. L'articolo Il Consigliere del Quirinale: “Attacco alla Meloni? La mia era una chiacchierata in libertà tra amici” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Francesco Saverio Garofani, chi è il consigliere di Mattarella tirato in ballo da La Verità e attaccato da Fdi (e non è la prima volta)
È considerato uno degli uomini più vicini a Sergio Mattarella e adesso è finito (o, meglio, rifinito) nel mirino del partito di Giorgia Meloni dopo l’articolo de La Verità su un presunto “piano del Quirinale per fermare” la premier. Francesco Saverio Garofani non è infatti nuovo ad attacchi provenienti da Fratelli d’Italia. Nel 2022 – quando Mattarella lo ha nominato consigliere per gli Affari del Consiglio Supremo di Difesa (dal 2018 era consigliere del Capo dello Stato ma per le questioni istituzionali) – la reazione del meloniani era stata secca: “Rispettiamo ma non condividiamo la nomina”, scrivevano i deputati di Fdi componenti del dipartimento Difesa Salvatore Deidda, Giovanni Russo e Davide Galantino. “Il nostro stupore – aggiungevano nella nota del 25 febbraio 2022 – deriva dalla decisione di nominare una figura così politicizzata e di parte come un ex parlamentare del Pd, per un ruolo che per la prima volta non viene affidato ad un militare“, aggiungevano sottolineando la loro “forte preoccupazione per la lottizzazione del Pd che ora arriva fino al Quirinale”. Gli stessi deputati (insieme alle parlamentari Isabella Rauti e Giovanna Petrenga) rilanciavano l’accusa di “lottizzazione” del Quirinale per la nomina di Garofani in un’altra nota dei primi di marzo dello stesso anno. Sessantaduenne romano, Francesco Saverio Garofani è stato impegnato nei gruppi giovanili della Democrazia Cristiana. Laureato in Lettere e Filosofia, è giornalista professionista ed ha camminato accanto a Mattarella in esperienze giornalistiche e politiche, dalla Dc (sempre nella corrente di sinistra del partito) al Ppi fino alla Margherita e infine al Pd. Per due anni, dal 1990 al 1992, è stato capo redattore de La Discussione, dal 1995 al 2003, direttore del quotidiano Il Popolo, nel 2003 tra i fondatori di Europa, di cui è diventato vicedirettore: sempre vicino all’attuale Capo dello Stato nel portare avanti la tradizione politica del cattolicesimo democratico nei quotidiani prima della Dc e poi centristi. Dal Ppi passa alla Margherita e viene eletto per la prima volta alla Camera nel 2006 con l’Ulivo, per poi venire confermato a Montecitorio nelle due successive legislature. Dal 2015 al 2018 è presidente della commissione Difesa della Camera. È stato anche membro della direzione nazionale del Pd. Garofani ha anche pubblicato due libri su Aldo Moro (“Dialoghi su Moro: un contributo alla storia“, scritto insieme a Giorgio Straniero e “Il potere fragile – I consigli dei ministri durante il sequestro Moro” con David Sassoli). Terminata la legislatura nel 2018, non si ricandida. E il 27 marzo dello stesso anno viene nominato da Mattarella Consigliere per le questioni istituzionali del presidente della Repubblica. Incarico che ricopre fino al 24 febbraio 2022 quando il Capo dello Stato lo nomina consigliere per gli affari del Consiglio supremo di difesa e segretario dell’organismo. È il primo non militare a rivestire l’incarico. Decisione, questa, che aveva già provocato lo “supero” e le critiche del partito di Meloni. E oggi il nome di Garofani torna sotto i riflettori, a poche ore dalla riunione del Consiglio Supremo di Difesa dove lo stesso consigliere era seduto al tavolo insieme a Mattarella, a Meloni, i suoi ministri e il capo di Stato maggiore, generale Luciano Portolano. Al base c’è l’articolo del giornale diretto da Maurizio Belpietro che lo pone tra coloro che al Quirinale “si agitano nella speranza di fare uno sgambetto alla premier”, con tanto di virgolettati attribuiti proprio al consigliere di Mattarella: “Un anno e mezzo di tempo forse non basta per trovare qualcuno che batta il centrodestra: ci vorrebbe un provvidenziale scossone”, si legge nell’articolo. Una sorta di piano segreto consistente nel creare “una grande lista civica nazionale” centrista “per togliere voti” alla destra. E subito dopo in campo è sceso il capogruppo meloniano alla Camera Galeazzo Bignami, che ha chiesto una smentita rivolgendosi – apparentemente – direttamente alla Presidenza della Repubblica. Un intervento che ha provocato, a strettissimo giro, una nota eloquente del Colle: “Al Quirinale si registra stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica, costruito sconfinando nel ridicolo“. Dal Quirinale, pertanto, l’irritazione è abbastanza evidente. L'articolo Francesco Saverio Garofani, chi è il consigliere di Mattarella tirato in ballo da La Verità e attaccato da Fdi (e non è la prima volta) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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