C’è un’ossessione che serpeggia nelle stanze del potere a Washington e nei loft
minimalisti dei venture capital della Silicon Valley: l’idea che il nucleare,
questa tecnologia titanica nata nel segreto della guerra e cresciuta per decenni
sotto l’ala iper-regolamentata e iper-cauta dello Stato, possa essere finalmente
sdoganato. Smontato, rimontato, resa piccolo, veloce, scalabile e, soprattutto,
redditizio. È il sogno prometeico di una nuova frontiera energetica, l’illusione
di imbrigliare il potere dell’atomo non più per la gloria nazionale o la
sicurezza collettiva, ma per il profitto privato e l’alimentazione di server AI
sempre più voraci.
Un sogno che però nasconde un incubo. Dietro la retorica accattivante della
cosiddetta “rinascita nucleare” e dell’“abbondanza energetica” si nasconde una
verità potenzialmente catastrofica: la privatizzazione dell’atomo. Che
significa? È semplice, si tratta dello smantellamento del sistema di controlli.
Si baratta la sicurezza con l’ambizione sfrenata ma questa volta in gioco c’è il
pianeta.
La parabola della Oklo, la startup fondata dalla coppia d’oro del MIT Jacob e
Caroline DeWitte, ben illustra questi pericoli. Bloomberg la definisce un
racconto americano che inizia nello spazio 38 di un parcheggio per roulotte a
Mountain View e arriva dritto, in pochi anni, sotto la tappezzeria dello Studio
Ovale, con un Donald Trump trionfante che firma ordini esecutivi su misura. Oklo
incarna il nuovo credo della Silicon Valley applicato all’energia atomica:
l’innovazione è intrinsecamente buona, la regolamentazione è intrinsecamente
cattiva e ottusa. Quando la Nuclear Regulatory Commission (NRC), il severissimo
guardiano del nucleare americano, respinge la loro prima domanda di licenza nel
2022, giudicandola tecnicamente carente e la “peggiore” mai ricevuta, la
reazione dei DeWitte non è stata di umile ritorno al tavolo da disegno. È stata
di dichiarare guerra al regolatore stesso.
Qui si inserisce la regia oscura e sofisticata di uomini come Salen Churi,
professore di legge trasformato in venture capital con agganci profondi
nell’impero libertario dei fratelli Koch. La sua strategia, applicata attraverso
il suo fondo Trust Ventures, è pura “regulatory entrepreneurship”: non si
convince l’agenzia con dati migliori, la si sfida, la si aggira, la si smantella
attraverso un arsenale di cause legali, lobbying aggressivo e influenza politica
capillare. La sua creatura, l’Abundance Institute, funge da testa di ponte
ideologica e operativa per una campagna che non mira a migliorare gli standard
di sicurezza, ma a dichiararli superflui per i piccoli reattori modulari. È un
capovolgimento pericoloso e ideologico di cinquant’anni di principio
precauzionale, nato dalle ceneri di incidenti come quello di Three Mile Island.
Il paradosso è agghiacciante. Mentre i “nuke bros” della Silicon Valley, spesso
con una preparazione tecnica approssimativa come dimostrano i fallimenti della
rivale Transatomic Power, promettono reattori così intrinsecamente sicuri da
rendere la supervisione federale un inutile retaggio del passato, la storia ci
sussurra avvertimenti che vengono da lontano. Il reattore Fermi 1, un “fast
reactor” raffreddato a sodio non dissimile da quello che Oklo vuole costruire,
nel 1966 rischiò di far saltare in aria Detroit, un evento che ispirò il libro
“We Almost Lost Detroit”.
Il Giappone ha speso miliardi e fallito per decenni con il suo reattore Monju,
chiuso nel 2016 dopo una sequenza di incidenti, principalmente fuoriuscite di
sodio e incendi. Il sodio, raffreddante miracoloso in teoria per le sue
proprietà termiche, è un elemento instabile, esplosivo a contatto con l’acqua e
si incendia a contatto con l’aria. Non è una tecnologia per dilettanti geniali e
impazienti, è una tecnologia per ingegneri con un rispetto quasi religioso per i
suoi pericoli, che operano in un sistema di controlli ferrei.
Eppure, il vento politico ha cambiato direzione. Con un alleato chiave come
Chris Wright, magnate del fracking nominato Segretario all’Energia di Trump, e
con un’agenzia NRC sotto un assedio senza precedenti – privata di centinaia di
dipendenti esperti, con i suoi vertici estromessi e i suoi poteri fondamentali
smantellati da ordini esecutivi che impongono tempi di approvazione
insostenibili per tecnologie non collaudate – la strada per Oklo e i suoi simili
è spianata. L’obiettivo non è più dimostrare di essere sicuri, ma cambiare la
definizione stessa di sicurezza, svuotandola di significato. L’NRC, nata proprio
per scindere la promozione del nucleare dal suo controllo, dopo lo scandalo
dell’Atomic Energy Commission, sta per essere riportata a quella pericolosa
dualità.
Il pericolo più grande, tuttavia, non è forse un singolo reattore difettoso, ma
l’intero sistema regolatorio che si sta deliberatamente smantellando. Si sta
passando da un modello in cui la sicurezza era l’unica valuta, l’unico parametro
di giudizio, a un modello in cui il “time to market”, la valutazione in borsa e
la soddisfazione degli investitori diventano driver primari. Quando si
privatizza il nucleare in questo modo, si introduce un inevitabile e letale
conflitto di interessi: il profitto degli azionisti contro la sicurezza a lungo
termine delle comunità che vivono a ridosso degli impianti. In un settore dove,
come scrisse John G. Fuller, “la tecnologia non perdona errori. Non permette
margine di sbaglio. La perfezione deve essere raggiunta se si vogliono prevenire
incidenti che coinvolgano il pubblico”, questo cortocircuito tra capitale e
sicurezza potrebbe rivelarsi catastrofico.
La lezione di Fukushima non è che il nucleare sia intrinsecamente malvagio o
ingovernabile, ma che senza un regolatore indipendente, credibile, tecnicamente
competente e inflessibile, anche la tecnologia più collaudata può tradire.
Stiamo smantellando proprio quel muro di protezione, sostituendolo con la fede
cieca nel “minimal viable product” e nella visione carismatica di fondatori che,
come Jake DeWitte, vengono descritti dai loro ex professori come dotati di un
“sorriso da un milione di dollari e una sfilza di cavolate che non finisce mai”.
La domanda cruciale che dovremmo porci, quindi, non è se possiamo tecnicamente
costruire reattori più piccoli, ma chi controllerà l’atomo quando sarà nelle
mani di società il cui scopo primario, sancito per statuto, è moltiplicare il
valore per i propri azionisti. La risposta, che sta prendendo forma nelle aule
giudiziarie, nei corridoi del Dipartimento dell’Energia e nelle riunioni
dell’Abundance Institute, ci sta portando dritti verso un futuro in cui il
prezzo dell’energia “troppo economica per misurarla” potrebbe essere, ancora una
volta, un conto salatissimo e incalcolabile, pagato in termini di sicurezza
collettiva e fiducia nelle istituzioni. Stiamo vendendo il nostro guardiano del
sonno atomico per una manciata di azioni. È un affare con il diavolo che la
storia, purtroppo, ci ha già insegnato a riconoscere.
Foto in evidenza: Indian Point smetterà definitivamente di produrre energia
nucleare, coronando una lunga battaglia per una fonte di elettricità
fondamentale per la vicina New York City, che gli oppositori hanno definito una
minaccia per la sicurezza di milioni di persone nella densamente popolata area
metropolitana. (26 aprile 2021, AP Photo/Seth Wenig)
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conflitto di interessi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Mentre risuonava il monito della Cop30 di Belem e il governo del nostro Paese
spariva dai monitor allarmati per la protezione del clima, un importante
convegno tenuto a Milano il 22 novembre – con una rilevante partecipazione in
rappresentanza di 30 associazioni territoriali – produceva una critica sistemica
all’opzione nucleare, civile e militare. L’auspicio del governo per un ritorno
dell’atomo in Italia è stato preso in considerazione con molto realismo: si è
colto così come i rischi tecnici, sanitari, economici e socio‑politici siano
sottovalutati e incompatibili con le urgenze e la qualità di una transizione
climatica rapida e a costi sostenibili.
Il dibattito è stato puntuale e documentato e ha registrato una notevole
convergenza delle forze politiche invitate e intervenute (Pd, M5S, Avs, Prc,
Pci), quando è stata messa a nudo la propaganda governativa per un incauto
rilancio di quello che è stato definito con Robert Jungk “uno stato atomico”.
Tra i molti spunti di un confronto documentato, riprendo qui alcune indicazioni
tra le più rilevanti e di immediata comprensione.
Gli interventi (registrati in video) hanno confermato una falsa separazione tra
“atomo per la guerra” e “atomo per la pace”, con il rischio effettivo di una
“compromissione di democrazia, di natura, di futuro”. E’ stata contestata la
narrativa dei “nuovi reattori economici”, definendola un’illusione fondata su
stime di costo irrealistiche. Le cifre sbandierate (Lcoe a 50-70€/MWh) sarebbero
lontane dai valori effettivi, che salirebbero oltre i 200 €/MWh, specie quando
si internalizzano oneri finanziari, rischio progetto, assicurazioni, gestione
rifiuti e decommissioning. Se le valutazioni del nostro governo stanno a livelli
assai inferiori è perché si ipotizza la socializzazione dei rischi e la
privatizzazione dei profitti tramite sussidi, garanzie e tariffe indicizzate a
carico dei consumatori. Sono stati poi richiamati tempi di costruzione per i
reattori ben superiori ai dieci anni, citando casi concreti per gli impianti più
recenti: Hinkley Point C in Inghilterra con una escalation di costi a 33 mld £,
Vogtle negli Usa con esborsi passati da 14 a 35 mld $.
Sul profilo salute‑ambiente, è stato rilevato che la radioprotezione moderna
adotta il principio lineare senza soglia (Lnt) per le basse dosi: dunque non
esisterebbero esposizioni “prive di rischio”. Si è sostenuto che, sapendo che
gli effetti sanitari (tumori tiroidei, patologie cardiovascolari, malformazioni
congenite) sono sistematicamente minimizzati da autorità e organismi
internazionali, si arriverebbe a pratiche di negazione del danno analoghe a
quelle storiche dell’industria del tabacco.
I limiti della cultura della sicurezza e della regolazione nel settore nucleare
con la compenetrazione fra governi, enti regolatori e operatori indebolirebbe
l’indipendenza e la trasparenza dell’informazione, con esiti di sottovalutazione
delle emergenze, come mostrato dall’incidente di Fukushima. La promessa di
“sicurezza assoluta” disincentiverebbe una pianificazione realistica per eventi
rari ma ad alto impatto. In prospettiva climatica, nel caso di reattori nucleari
si aggiungono stress fisici crescenti (ondate di calore, siccità, alluvioni) che
aumentano il rischio di fermate non programmate e vulnerabilità dei sistemi di
raffreddamento e delle supply chain. La gestione del combustibile esaurito e dei
rifiuti ad alta attività resta un nodo irrisolto tecnologicamente e socialmente.
La chiusura degli impianti, poi, genera impegni finanziari certi e prolungati,
spesso coperti da fondi alimentati da tariffe o fiscalità.
Il settore nucleare è dipendente da sussidi e diplomazia statale: export credit,
garanzie, pacchetti “chiavi in mano” e programmi di “colonizzazione” come quelli
trattati da Trump nell’incontro a Washington con Giorgia Meloni. La contiguità
tecnologica tra civile e militare e i rischi di proliferazione sono all’ordine
del giorno, con pratiche industriali controverse, ancor più condizionate oggi
dalla corsa al riarmo. Pur tenendo conto dell’ondata di venture capital e
dell’interesse politico, è stato sottolineato che i piccoli reattori modulari
(Smr) affrontano ancora barriere su licenze, supply chain, dimostrazione di
costi e sicurezza. Le stime aumentano, le timeline slittano, e permangono
criticità insormontabili su rifiuti, gestione del plutonio e complessità
ingegneristiche; la presunta “modularità” non avrebbe ancora provato economie di
serie vantaggiose nella pratica.
In termini di sistema, si è rivendicato che eolico, solare e pompaggi (insieme a
storage elettrochimico e flessibilità di rete) abbiano ridotto fortemente i
costi complessivi e i tempi di dispiegamento, superando il nucleare nella
competizione dei costi, oltre che in nuova capacità e quote di generazione. Una
tecnologia come quella di fissione, assai poco flessibile, si integrerebbe
peggio in mercati con alta penetrazione variabile come nel caso delle
rinnovabili, aumentando i costi di bilanciamento.
Per quanto riguarda politiche pubbliche e allocazione del capitale, ogni euro
vincolato a nuovi reattori sottrae risorse a soluzioni climatiche più rapide,
scalabili e “low‑risk”: efficienza, reti, rinnovabili, accumuli, domanda
flessibile, elettrificazione dei consumi finali e pompaggio idroelettrico. In un
orizzonte di budget di carbonio stringente, i lunghi tempi di realizzazione del
nucleare indebolirebbero il contributo alla decarbonizzazione entro le scadenze
2030-2040.
A conclusione del convegno si è ribadito quanto il nucleare combini rischi
sanitari, costi in crescita, incertezze regolatorie, passività di lungo periodo
e dipendenza da supporto pubblico, mentre le rinnovabili con sistemi di accumulo
e gestione della domanda offrano tempi, costi e profili di rischio migliori. Per
l’Italia, la priorità dovrebbe essere un portafoglio di efficienza, reti,
rinnovabili, storage e flessibilità, evitando impegni finanziari e industriali
che potrebbero aggravare la crisi climatica e gravare su contribuenti e
consumatori per decenni. Ma non sembra questa la strada imboccata dal nostro
governo.
Il successo del convegno milanese apre un dibattito finora monopolizzato dalle
dichiarazioni e dai disegni di legge che Pichetto Fratin evita di portare al
dibattito del Parlamento e ad una valutazione aperta e franca dell’opinione
pubblica.
L'articolo Così un convegno a Milano smonta la narrazione di governo sul
nucleare proviene da Il Fatto Quotidiano.