La Nasa lo ha già detto più volte: è solo una cometa. Ma l’oggetto interstellare
3I/ATLAS ha anomalie, perfettamente spiegabili scientificamente, che hanno
attirato l’attenzione di tutto il mondo. Tra poco raggiungerà il suo massimo
avvicinamento alla Terra. L’agenzia spaziale statunitense ha reso noto che il
passaggio ravvicinato alla Terra avverrà il 19 dicembre a una distanza di circa
170 milioni di miglia, quasi il doppio della distanza media tra la Terra e il
Sole. Secondo l’Agenzia spaziale europea (ESA), la cometa non si avvicinerà a
meno di circa 1,8 unità astronomiche dal nostro pianeta, equivalenti a circa 270
milioni di chilometri. L’evento quindi non rappresenta alcun rischio per la
Terra o per gli altri pianeti del Sistema solare.
Scoperta il 1 luglio dai telescopi ATLAS in Cile, 3I/ATLAS è il terzo oggetto
interstellare mai osservato mentre attraversa il Sistema solare, dopo
1I/‘Oumuamua nel 2017 e la cometa 2I/Borisov nel 2019. La Nasa continuerà a
monitorare il corpo celeste lungo il suo viaggio, che lo porterà a superare
l’orbita di Giove nella primavera del 2026, prima di lasciare definitivamente il
nostro sistema planetario. Il passaggio ravvicinato potrà essere seguito anche
dal pubblico: il Virtual Telescope Project trasmetterà una diretta streaming a
partire dalle 5.00 del mattino (ora italiana) del 19 dicembre, guidata
dall’astronomo Gianluca Masi.
Già alla fine di novembre, osservatori dotati di telescopi sufficientemente
potenti avevano potuto vedere 3I/ATLAS riemergere dopo il passaggio dietro il
Sole, mostrando una caratteristica colorazione verde come informa l’Infn. Il 26
novembre 2025, nell’ambito dell’iniziativa di divulgazione scientifica Shadow
the Scientists, cone informa INAF; astronomi e studenti di tutto il mondo hanno
osservato la cometa utilizzando lo spettrografo multi-oggetto GMOS del
telescopio Gemini Nord, situato a Maunakea, alle Hawaii.
Un ulteriore elemento di interesse riguarda la cosiddetta anti-coda. In un
recente articolo pubblicato sul blog Medium, il professor Avi Loeb, docente di
Astronomia all’Università di Harvard, sottolinea come questa prominente
struttura che sembra puntare verso il Sole sia insolita per una cometa. Secondo
Loeb, non si tratterebbe di un semplice effetto prospettico, comune in molte
comete, ma di un vero e proprio getto fisico. Nella maggior parte dei casi,
infatti, l’anti-coda è un’illusione ottica dovuta alla geometria della coda di
polveri e alla posizione relativa di Terra e Sole, come osservato anche in
comete celebri quali la C/2023 A3.
Nel caso di 3I/ATLAS, l’anti-coda è visibile sin dalla fine di luglio, quando
l’oggetto fu osservato dal Telescopio Spaziale Hubble mentre si avvicinava al
Sole da una distanza geocentrica di circa 2,98 unità astronomiche. La struttura
è rimasta evidente nelle centinaia di immagini raccolte durante l’avvicinamento
alla Terra ed è stata recentemente immortalata anche dall’astrofilo tailandese
Teerasak Thaluang con un telescopio da 26 centimetri. L’ultimo scatto citato da
Loeb risale alle 21.30 UTC di sabato 13 dicembre, quando la cometa si trovava a
circa 270 milioni di chilometri dalla Terra, confermando che l’anti-coda è
rimasta stabile per circa cinque mesi, durante un avvicinamento che ha coperto
mezzo miliardo di chilometri.
Credit: NASA’s Hubble Space Telescope
L'articolo La cometa 3I/ATLAS si avvicina alla Terra e ora è verde, l’anomalia
dell’anti-coda stabile da 5 mesi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Scienza
L’invasione delle microplastiche – il cui danni alla salute sono sempre più noti
– ha raggiunto anche una delle regioni più lontane dalla civiltà. Frammenti di
microplastiche sono stati trovati anche all’interno dell’unico insetto autoctono
dell’Antartide, la Belgica antarctica, un moscerino privo di ali grande quanto
un chicco di riso. Questa scoperta conferma che l’inquinamento da microplastiche
ha raggiunto anche le regioni più remote del pianeta, e dimostra che questo
insetto ha già iniziato a nutrirsene, con conseguenze che potrebbero impattare
negativamente la sua sopravvivenza. La scoperta, pubblicata sulla rivista
Science of The Total Environment e guidata dall’Università americana del
Kentucky, ha visto la partecipazione anche di ricercatori italiani
dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dell’Elettra Sincrotrone di Trieste.
I ricercatori guidati da Jack Devlin hanno sottoposto gli esemplari dell’insetto
a una serie di test durati in tutto dieci giorni, a causa delle elevate
difficoltà dovute al lavorare in Antartide per periodi più lunghi. I moscerini
hanno mostrato di adattarsi bene anche a concentrazioni di microplastiche molto
elevate, anche se in questi casi risultavano avere riserve di grasso più scarse.
Gli autori dello studio hanno poi prelevato 40 larve da 20 siti diversi, e ne
hanno analizzato il contenuto intestinale con sistemi in grado di identificare
le ‘impronte digitali’ chimiche anche delle particelle più minuscole,
impossibili da vedere ad occhio nudo. In 2 delle 40 larve hanno trovato
frammenti di microplastiche, cosa che, secondo Devlin, costituisce un primo
campanello d’allarme.
“L’Antartide ha ancora livelli di plastica molto più bassi rispetto alla maggior
parte del pianeta – afferma il ricercatore – ma ora possiamo dire che stanno
entrando nel sistema e, a livelli sufficientemente elevati, possono iniziare a
modificare il bilancio energetico degli insetti“.
Lo studio
L'articolo L’invasione delle microplastiche, frammenti trovati all’interno
dell’unico insetto autoctono dell’Antartide proviene da Il Fatto Quotidiano.
Negli ultimi quattro anni, una pandemia invisibile sta decimando i ricci di mare
in vaste regioni del pianeta. Dai Caraibi al Mar Rosso, fino all’Oceano Indiano,
alcuni dei più importanti ingegneri degli ecosistemi marini stanno scomparendo
nel giro di poche ore, trasformando fondali un tempo dominati dai coralli in
distese di scheletri bianchi e alghe invasive. La nuova ondata registrata alle
Canarie tra il 2022 e il 2023 rappresenta una tappa critica di questa crisi
globale, con caratteristiche ancora in parte misteriose.
I ricci del genere Diadema svolgono un ruolo essenziale nel mantenere in
equilibrio gli ecosistemi costieri: brucano le alghe, impediscono che soffochino
i coralli, sostengono la biodiversità e regolano l’intero funzionamento del
reef. Ma quando un patogeno li colpisce, l’effetto è immediato e devastante. Lo
mostrano i dati raccolti da Iván Cano e colleghi, pubblicati su Frontiers in
Marine Science. Tra l’estate 2022 e il 2023, Diadema africanum ha cominciato a
morire in massa sulle coste delle isole occidentali dell’arcipelago delle
Canarie, per poi essere colpito su tutte le sette isole principali. Gli animali
smettevano di muoversi, perdevano le spine e la carne, fino a ridursi in pochi
giorni a gusci vuoti.
Le analisi condotte su 76 siti indicano che l’abbondanza attuale di D. africanum
è “ai minimi storici”, con popolazioni prossime all’estinzione locale: rispetto
al 2021, il calo è stato del 74% a La Palma e del 99,7% a Tenerife. Ancora più
preoccupante è il crollo della riproduzione: sulle coste orientali di Tenerife,
le trappole per larve hanno raccolto quantità “trascurabili”, e nelle zone di
insediamento non è stato trovato alcun giovane riccio. In pratica, la
popolazione non sta rimpiazzando le perdite.
Il quadro che emerge, però, non riguarda soltanto le Canarie. Gli autori
sottolineano che eventi simili sono stati osservati “approssimativamente nello
stesso periodo” nei Caraibi, nel Mediterraneo, nel Mar Rosso, nel Mare di Oman e
nell’Oceano Indiano occidentale. A differenza del caso canario — dove il
patogeno non è ancora identificato — altri studi hanno dimostrato che la
pandemia in corso in queste regioni è causata da uno scuticociliata parassita
del genere Philaster, capace di uccidere oltre il 90% degli individui colpiti. È
lo stesso agente responsabile delle morti nel Mar dei Caraibi nel 2022 e delle
più recenti morie nel Mar Rosso e a Réunion, come dimostrato dalle ricerche del
team dell’Università di Tel Aviv, pubblicate su Ecology e Current Biology.
Ciò che accomuna queste crisi è la rapidità dei focolai: spesso, in meno di 48
ore, intere popolazioni si trasformano in carcasse fragili sbriciolate dai
predatori. Le cause ambientali — tempeste, ondate anomale, cambiamenti nella
temperatura dell’acqua — potrebbero agire come fattori scatenanti, ma nel caso
delle Canarie la natura dell’agente rimane aperta. Precedenti eventi
nell’arcipelago erano stati associati ad amebe come Neoparamoeba branchiphila,
mentre altrove i responsabili sono ciliati. Senza un’analisi genetica, non è
possibile stabilire se la moria canaria sia parte della stessa pandemia globale.
Il risultato, però, è già visibile: la scomparsa di un regolatore ecologico
cruciale apre la strada all’espansione delle alghe, altera la struttura del reef
e può avviare una trasformazione irreversibile degli ecosistemi costieri. Per
gli scienziati, la priorità ora è duplice: chiarire la natura del patogeno alle
Canarie e monitorare in tempo reale la diffusione delle morie nel resto del
mondo. In mancanza di interventi tempestivi — e non esistendo alcuna cura per i
ricci infetti — interi tratti di fondale potrebbero cambiare volto per
generazioni.
Il team di Tel Aviv guidato da Bronstein ha sviluppato una nuova tecnologia di
campionamento genetico subacqueo. La tecnologia — un kit simile a un test COVID
per uso subacqueo — consente di prelevare campioni genetici dagli animali senza
danneggiarli e senza rimuoverli dal mare. Il metodo ha già permesso raccolte su
larga scala in Eilat, Gibuti e Réunion, offrendo uno strumento cruciale per
monitorare l’epidemia in tempo reale. Nella ricerca pubblicata su Ecology,
Bronstein e colleghi dimostrano geneticamente che lo stesso patogeno individuato
nel Mar Rosso e nei Caraibi è responsabile della mortalità registrata
nell’Oceano Indiano, in particolare a Réunion. Il team definisce la situazione
“un’estrema pandemia globale”, con mortalità superiori al 90% in regioni
critiche per le barriere coralline. Al momento non ci sono prove della presenza
del patogeno tra i ricci dell’Oceano Pacifico, ma sono in corso indagini
specifiche.
Lo studio su Current Biology ricostruisce in dettaglio la progressione
dell’epidemia nel Mar Rosso. Qui, l’agente patogeno ha sterminato intere
popolazioni di Diadema setosum in meno di 48 ore, trasformando gli individui in
“scheletri privi di tessuti e spine”, spesso divorati dai predatori prima della
morte. Le due specie un tempo dominanti nel Golfo di Aqaba “sono oggi
praticamente scomparse”.
Un elemento chiave è la possibile diffusione tramite il trasporto marittimo. I
ricercatori hanno documentato la propagazione del patogeno lungo rotte
commerciali, con un caso emblematico: il primo focolaio nel Sinai è apparso nel
porto di Nuweiba, dove attracca il traghetto da Aqaba, già colpita
dall’epidemia. Due settimane dopo, la malattia è stata rilevata a Dahab, 70
chilometri più a sud. Poco tempo dopo, come previsto dal gruppo, la pandemia è
comparsa anche in Africa occidentale, lungo le stesse rotte navali tra Caraibi,
Mediterraneo e Mar Rosso.
La pandemia ha ormai colpito Caraibi, Mar Rosso, Golfo di Aqaba, Mediterraneo
orientale, Isole Canarie, Madeira, Oceano Indiano. Per ora, il Pacifico sembra
essere l’unico grande bacino risparmiato, ma non ci sono garanzie che la
situazione duri. Le conseguenze ecologiche potrebbero essere enormi. In molte
regioni, come ricordano tutti gli studi, i ricci del genere Diadema sono “i
giardinieri dei reef”, gli unici in grado di controllare la crescita delle alghe
e permettere ai coralli di sopravvivere. La loro scomparsa può innescare un
collasso simile a quello dei Caraibi del 1983, dove un evento di mortalità
trasformò interi reef in campi di alghe — un cambiamento ancora irreversibile
dopo quarant’anni.
Non esistono cure o vaccini. I ricercatori stanno lavorando su due fronti:
prevenzione della diffusione tramite controlli sulle rotte marittime e creazione
di nuclei isolati di allevamento in strutture completamente scollegate dal mare,
come quello istituito di recente presso l’Aquarium di Gerusalemme. Il quadro che
emerge dai cinque studi è quello di una pandemia veloce, aggressiva e ancora
poco compresa, che rappresenta una minaccia senza precedenti per le barriere
coralline globali. Mentre la scienza sviluppa nuovi strumenti diagnostici e
modelli ecologici, la domanda cruciale resta aperta: capire perché la pandemia è
esplosa ora — e come impedirne l’arrivo nel Pacifico, dove si trovano gli
ecosistemi corallini più vitali del pianeta.
Foto: Università di Tel Aviv e Jean-Pascal Quod
L'articolo Una pandemia invisibile minaccia i ricci di mare e i reef globali:
scheletri bianchi dalle Canarie fino all’Oceano Indiano proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La vicenda dell’omicidio di Chiara Poggi, 18 anni dopo e con una sentenza di
condanna passata ormai da tempo “in giudicato”, sta scatenando l’interesse dei
media e della collettività. Le nuove investigazioni si concentrano su un nuovo
indagato.
La nuova indagine, al di là delle tesi partigiane che si contrappongono sui
media e sul web, peraltro assai spesso infettate da argomenti poco aderenti alle
esigenze di logica processuale, sta certificando qualcosa di decisivo per il
processo penale: la scienza al servizio del processo ha radicalmente mutato
veste. Questa mutazione è tanto più evidente e rilevante, tanto maggiore è la
forza scientifica della prova stessa. Il caso paradigmatico, che attiene proprio
a questa indagine, è rappresentato dalla prova genetica o prova del Dna.
L’incidente probatorio, che ha per oggetto le tracce genetiche rinvenute in zona
ungueale (o subungueale) delle dita delle mani destra e sinistra della vittima,
ha offerto un risultato che, a detta dei media ma anche di molti esperti, lascia
aperta ogni interpretazione: da un lato questa porzione biologica può essere
letta come “l’impronta” dell’assassino; dall’altro essa non sarebbe nulla più di
una presenza casuale e dovuta a un contatto fortuito tra la (futura) vittima e
un oggetto, presente nell’appartamento, precedentemente “contaminato” da un
soggetto che nulla ha a che fare con la scena del crimine.
La genetica non è in grado di stabilire il momento in cui una traccia biologica
viene deposta e dunque solamente indici indiretti e interpretabili secondo le
regole di senso comune possono favorire l’interpretazione del dato biologico
ambiguo. Ecco dunque come nasce il dibattito attuale che vede confrontarsi, su
piani contrapposti, coloro che assumono che non sia pensabile attribuire a
ragioni accidentali un dato così psicologicamente forte e coloro che, al
contrario, sottolineano come questa casualità sia tutt’altro che anomala qualora
il titolare di quella traccia sia un frequentatore di luoghi che, in seguito,
divengono il teatro di un delitto.
A supporto della prima interpretazione milita poi la circostanza che, in assenza
di una presenza accertata di materiale biologico del “contaminatore”, detto
assunto diverrebbe una pura ipotesi indimostrata e indimostrabile; sul fronte
opposto, gli interpreti contrari sostengono che il Dna si conserva assai a lungo
sugli oggetti e dunque la contaminazione sia un fatto che accade costantemente e
la cui anomalia non deve stupire per nulla. L’idea è che il nostro corpo e le
nostre mani sarebbero piene di Dna, non solo nostro o delle persone a noi più
vicine, ma anche di individui che non possiamo neppure immaginare di “avere
addosso”. Nel caso di specie si deve aggiungere che la traccia analizzata è
contaminata, degradata, gli esami non sono stati consolidati con adeguate
ripetizioni e, non ultimo, la tipizzazione non ha offerto un profilo genetico
nucleare (la “targa genetica” di ognuno di noi) ma ha svelato esclusivamente una
linea cromosomica maschile della famiglia dell’attuale indagato.
L’insieme di questi accertamenti pone un quesito nuovo e, per certi versi,
controintuitivo: la scienza, per tradizione, offre risultati certi e
incontrovertibili; come può la scienza al servizio della giurisdizione perdere
questa sua forza epistemica, ontologicamente connessa ai suoi principi? Non è il
caso di fare riferimento alla filosofia della scienza e alle parole di Karl
Popper che assume che “la scienza è un cimitero degli errori” oppure che “la
scienza avanza per errori e confutazioni”. Il punto è un altro. Il Dna (cioè la
prova genetica) non ha nulla a che fare con il principio di unicità del genoma e
ciò al di fuori dell’analisi di paternità (e in assenza dei gemelli omozigoti).
L’analisi a fini penalistici, che vive del confronto tra una traccia repertata
su un luogo, un oggetto o un corpo e un profilo genetico di un sospettato, non
può mai avere quelle caratteristiche di certezza che caratterizzano il Dna. Ma
c’è molto di più: le tecniche di rilevazione e analisi sono sempre più
sofisticate e oggi è prassi trovarsi dinnanzi a risultati parziali, contaminati,
degradati, esclusivamente rappresentativi del genoma parentale maschile oppure
del Dna mitocondriale e dunque, come direbbero i genetisti, scientificamente non
affidabili.
Ma la prova penale può vivere questa anomalia, diversamente dalla scienza.
Questo è il punto vero: la giurisprudenza che è cresciuta con il principio
secondo cui la prova del Dna è un indizio che può avere capacità dimostrativa
anche senza altre prove a supporto, figlia del concetto scientifico di Dna, crea
grande confusione e interpretazioni poco affidabili. La prova del Dna non è la
stessa cosa di una fonte di prova biologica. Questo non toglie nulla alla
utilizzabilità processuale di questi dati anche perché il diritto, a differenza
della scienza, vive costantemente il dramma ermeneutico dell’abduzione e
dell’interpretazione. Per questo la logica processuale si è dotata
strutturalmente del metodo per affrontare queste forme di conoscenza “a
geometrie variabili”.
La grande novità della nuova indagine sul fatto omicidiario di Garlasco è quella
di costringere tutti coloro che intendono affrontare seriamente questa questione
complessa ad abbandonare il lessico mitologico che impone di trattare come prova
del Dna questa fonte conoscitiva che deve essere riqualificata come “prova
biologica” e che dunque può racchiudere al suo interno dati chimici, fisici,
genetici, anatomici, fisiologici, biochimici e biostatistici. Il diritto è
preparato a questo salto e la normativa sulla prova indiziaria è la fonte
migliore per evitare dibattiti pseudoscientifici e fuorvianti in campo
processuale.
L'articolo Con la nuova indagine sull’omicidio di Chiara Poggi tramonta il mito
della prova del Dna proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tutto è nato dall’allarme dato una domenica mattina da un allevatore, nel
Padovano: si era accorto che più di un terzo dei suoi 205 bovini da ingrasso, 76
per la precisione, erano morti contemporaneamente, improvvisamente e
inspiegabilmente. I veterinari si sono messi subito all’opera per capirne le
cause. E da lì, la scoperta: erano stati uccisi dall’inalazione di oleandri
bruciati in un campo attiguo all’allevamento. Per la prima volta in letteratura
è stato evidenziato che gli oleandri possono essere mortali non solo per
ingestione ma anche per inalazione, tanto che la prestigiosa rivista
internazionale Frontiers in Veterinary Science ha dedicato all’episodio
dell’allevamento del Padovano un approfondito articolo scientifico. E’ uno degli
eventi più inaspettati sul quale hanno indagato i veterinari dell’Ulss 6
Euganea.
Dalle prima indagini era stato accertato che non si era in presenza di malattia.
Poi la scoperta: da quanto aveva detto l’allevatore erano stati bruciati dei
rami di oleandro e il fumo (per via della bassa pressione atmosferica) era
entrato nella stalla: i bovini avevano manifestato difficoltà respiratorie. Un
familiare dell’allevatore, intervenuto subito dopo il fatto, ha accusato gli
stessi sintomi ed è stato portato in ospedale, dimesso qualche ora dopo per
miglioramento. Il maggior numero di animali morti inoltre si trovava proprio in
prossimità del punto di ingresso del flusso d’aria rispetto a dove era stata
fatta la bruciatura. Un familiare dell’allevatore, intervenuto subito dopo il
fatto, aveva accusato gli stessi sintomi ed era stato portato in ospedale,
dimesso qualche ora dopo per miglioramento dei sintomi. “La tossicità della
pianta di oleandro è ben nota – sottolinea il dottor Anselmo Ferronato,
direttore Servizio Veterinario Sanità Animale – ma neanche i libri di
tossicologia riportano problematiche dovute all’esposizione al fumo derivato
dall’oleandro. Abbiamo così coinvolto l’Università degli Studi di Padova per
approfondire il caso. Sono stati quindi svolti esami autoptici su alcuni animali
morti e diversi esami di approfondimento. Con la collaborazione di diversi
laboratori infine si è confermato quanto ipotizzato: dagli esami istologici si
sono visti danni compatibili con intossicazione da oleandrina e la stessa
molecola è stata ritrovata in diversi organi.
L'articolo Muoiono all’improvviso 76 bovini in un allevamento nel Padovano:
“Hanno inalato i fumi di oleandri bruciati” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nel cuore dell’Africa orientale sta accadendo qualcosa di straordinario: il
continente si sta lentamente separando in due grandi porzioni, aprendo la strada
– su scala di milioni di anni – alla formazione di un nuovo oceano. È un
processo impercettibile nell’arco di una vita umana, ma molto concreto nella
logica della geologia, e oggi se ne comprendono meglio i meccanismi grazie a uno
studio che unisce tecnologia moderna e dati raccolti oltre 50 anni fa.
La ricerca, pubblicata sul Journal of African Earth Science, è frutto della
collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv),
l’Università di Keele nel Regno Unito e la società australiana P&R Geological
Consultants. Le nuove analisi descrivono con maggiore precisione come si siano
mossi i blocchi di crosta terrestre nell’area dell’Afar, nel nord dell’Etiopia,
un punto nevralgico della geodinamica planetaria.
AFAR, IL CROCEVIA DOVE NASCONO I CONTINENTI
“L’Africa si sta lentamente dividendo in due parti, con una grande frattura che
attraversa l’intero continente e che affonda le sue radici nella regione
dell’Afar”, spiega Riccardo De Ritis, ricercatore dell’Ingv e co-autore dello
studio. “Si tratta di un luogo unico al mondo, in cui convergono tre grandi
sistemi di rift: il Mar Rosso, il Golfo di Aden e il Rift dell’Africa Orientale.
È una delle aree geologicamente più attive e complesse del pianeta”. In queste
grandi ferite della crosta terrestre – i rift – le placche si allontanano
lentamente, creando nuove zone di assottigliamento e spaccatura. È lo stesso
processo che milioni di anni fa ha originato l’oceano Atlantico. Oggi, qualcosa
di simile sta iniziando proprio nel Corno d’Africa.
I DATI DEL PASSATO CHE ILLUMINANO IL PRESENTE
La novità più sorprendente della ricerca è l’utilizzo di una vasta serie di
misure magnetiche raccolte tra il 1968 e il 1969 nella regione dell’Afar. Un
archivio rimasto finora inesplorato che, integrato con i dati più recenti, ha
permesso di ricostruire con maggiore accuratezza l’evoluzione delle fratture
presenti tra Africa e Arabia. Dalle analisi emerge che le prime rotture nella
crosta si verificarono tra la placca africana e quella araba, mentre il rift
etiopico – una delle strutture più imponenti dell’area – si sarebbe attivato
solo successivamente. La causa? Probabilmente la risalita di un pennacchio caldo
proveniente dal mantello terrestre, un vasto flusso di materiale fuso capace di
indebolire e spingere verso l’alto la crosta sovrastante.
“La nostra ricerca non solo aiuta a comprendere meglio la storia geologica della
regione, ma dimostra l’importanza di preservare i dati del passato”, osserva De
Ritis. “I modelli interpretativi cambiano con il tempo, ma i dati ben acquisiti
possono continuare a parlare per generazioni”. La regione dell’Afar è da tempo
considerata un laboratorio a cielo aperto per studiare la nascita dei rift
continentali. Qui è possibile osservare un processo che altrove è ormai avvenuto
milioni di anni fa: la creazione di un margine oceanico, il preludio alla
formazione di un nuovo mare.
Lo studio
L'articolo Dove nascerà un futuro oceano in Africa: dati del ’68 rivelano
“nuovi” segreti sulla frattura che dividerà il continente proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Gli architetti dell’intelligenza artificiale sono la persona dell’anno 2025 di
Time. “Il 2025 è stato l’anno in cui il pieno potenziale dell’intelligenza
artificiale è emerso in tutta la sua portata e in cui è diventato chiaro che non
si tornerà indietro”, si legge sul profilo X della testata. “Per aver inaugurato
l’era delle macchine pensanti, per aver stupito e preoccupato l’umanità, per
aver trasformato il presente e trasceso il possibile, gli Architetti dell’IA
sono la Persona dell’Anno 2025“, viene spiegato nella motivazione.
La copertina richiama la foto iconica Lunch atop a Skyscraper del 1932 in cui
sono ritratti degli operai impegnati nella costruzione di un grattacielo che
pranzano seduti su una trave di acciaio. Al loro posto figurano Mark Zuckerberg,
Ceo di Meta; Lisa Su, Ceo di AMD; Elon Musk, XAl; Jensen Huang, presidente e Ceo
di Nvidia; Sam Altman, Ceo di OpenAl; Demis Hassabis, Ceo di DeepMind
Technologies; Dario Amodei, Ceo di Anthropic; Fei-Fei Li, co-direttore dello
Human-Centered Al Institute di Stanford e Ceo di World Labs.
L’intelligenza artificiale era una delle principali candidate al titolo, insieme
ai Ceo Jensen Huang di Nvidia e Sam Altman di OpenAI. Era considerato un
possibile candidato anche Papa Leone XIV, il primo pontefice americano, la cui
elezione quest’anno è seguita alla morte di Papa Francesco, oltre al presidente
Donald Trump, al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e al sindaco
eletto di New York Zohran Mamdani, tutti presenti nelle liste dei favoriti.
Nel 2024 Trump era stato nominato persona dell’anno dalla rivista, succedendo a
Taylor Swift, vincitrice nel 2023. La prima persona dell’anno fu nominata dalla
rivista nel 1927 quando i suoi redattori iniziarono a scegliere la persona che,
a loro giudizio, aveva maggiormente segnato le notizie dei precedenti dodici
mesi.
L'articolo Per il Time gli architetti dell’Intelligenza artificiale sono la
persona dell’anno 2025: “Hanno inaugurato l’era delle macchine pensanti”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Robot microscopici che percepiscono, pensano, agiscono ed elaborano dati”. Un
team di ricercatori coordinato dell’Università della Pennsylvania ha realizzato
i primi robot con dimensioni comparabili a quelle di un batterio. Macchine,
invisibili a occhio nudo, sono in grado di percepire l’ambiente circostante,
eseguire calcoli, prendere decisioni autonome e muoversi. Il risultato dello
studio, pubblicato su Science Robotics, è stato così innovativo da meritare la
copertina della rivista.
La robotica ha da decenni come obiettivo la miniaturizzazione di macchine
completamente automatizzate, ossia capaci di operare senza alcun controllo
esterno. Tuttavia, tutti i tentativi precedenti si erano scontrati con limiti
tecnologici significativi: i robot più piccoli realizzati fino ad oggi avevano
dimensioni non inferiori a un millimetro e necessitavano di ricevere
dall’esterno sia energia sia istruzioni operative.
Per superare questi limiti, i ricercatori hanno sfruttato le tecniche di
litografia, comunemente impiegate per la produzione di transistor. Grazie a
questo approccio, il volume complessivo dei microrobot è stato ridotto di circa
10.000 volte rispetto agli standard precedenti. I nuovi microrobot misurano
appena 250 micrometri, ossia 250 milionesimi di metro, equivalenti alle
dimensioni di un paramecio, uno degli organismi unicellulari più noti.
Nonostante le dimensioni estremamente ridotte, i robot incorporano un
micro-calcolatore, sensori e altri dispositivi miniaturizzati che permettono
loro di muoversi autonomamente. Il consumo energetico è estremamente basso, pari
a circa 100 nanoWatt, ossia un miliardesimo di Watt. La programmazione dei
microrobot avviene tramite impulsi luminosi, permettendo loro di rispondere a
stimoli esterni. I primi test sperimentali hanno dimostrato che i robot sono
capaci di percepire variazioni di temperatura nell’ambiente e di dirigersi verso
la fonte di calore, confermando una forma elementare di comportamento adattivo.
Le potenziali applicazioni di questa tecnologia sono molteplici. I microrobot
potrebbero essere utilizzati per il monitoraggio ambientale, per interventi
chirurgici o per il trasporto mirato di farmaci all’interno dell’organismo,
aprendo nuove prospettive nella robotica medica e nella nanotecnologia
applicata. Lo studio rappresenta un passo fondamentale verso la realizzazione di
sistemi robotici completamente autonomi a scala microscopica, capaci di operare
in ambienti complessi senza intervento umano diretto.
Lo studio su Science
L'articolo Ecco i primi robot microscopici: possono prendere decisioni autonome
e muoversi. Lo studio su Science proviene da Il Fatto Quotidiano.
Una strategia nutrizionale innovativa potrebbe presto affiancare le terapie
convenzionali contro il tumore al seno: si tratta della dieta “mima-digiuno”, un
regime alimentare a bassissimo contenuto calorico che imita gli effetti del
digiuno vero e proprio. Secondo uno studio internazionale coordinato
dall’Ospedale Policlinico San Martino e dall’Università di Genova, in
collaborazione con il Netherlands Cancer Institute di Amsterdam, questo
approccio potrebbe aumentare l’efficacia dei trattamenti ormonali nelle pazienti
affette da carcinoma mammario. I risultati della ricerca sono stati pubblicati
sulla rivista Nature.
Lo studio prende le mosse da una precedente indagine del 2020, in cui era stato
dimostrato che brevi periodi di digiuno controllato — concretizzati in una dieta
vegana a ridotto apporto di calorie, proteine e zuccheri — aumentavano la
sensibilità dei tumori della mammella alla terapia ormonale e ritardavano lo
sviluppo di resistenze. Come spiega Irene Caffa, del Dipartimento di Medicina
Interna e Specialità Mediche dell’Università di Genova, “questi effetti benefici
derivano dalla capacità della dieta mima-digiuno di aumentare i livelli di
cortisolo, l’ormone dello stress”.
Il cortisolo, una volta entrato nelle cellule tumorali, attiva il recettore dei
glucocorticoidi, una proteina che nei tumori mammari sensibili alla terapia
ormonale agisce come un “oncosoppressore”, rallentandone la crescita. Questa
scoperta ha suggerito ai ricercatori un’alternativa al digiuno: il desametasone,
un corticosteroide la cui azione è parzialmente sovrapponibile a quella del
cortisolo.
Gli esperimenti condotti su modelli animali hanno confermato l’ipotesi: quando
il desametasone è stato somministrato insieme alla terapia ormonale, i tumori
hanno mostrato un arresto della crescita, suggerendo un meccanismo simile a
quello osservato con la dieta mima-digiuno. Come sottolinea Alessio Nencioni,
professore ordinario di Medicina Interna all’Università di Genova e direttore
della Clinica Geriatrica dell’Irccs Ospedale Policlinico San Martino, “i
risultati di queste indagini forniranno presto la base per uno studio clinico
destinato ai pazienti con tumore della mammella metastatico”.
Lo studio rappresenta un passo importante verso approcci terapeutici più
integrati, in cui interventi nutrizionali mirati o farmaci specifici possano
potenziare l’efficacia delle terapie tradizionali, aprendo nuove prospettive nel
trattamento del carcinoma mammario. L’uso del desametasone potrebbe inoltre
offrire un’alternativa praticabile per pazienti che non possono seguire regimi
di digiuno controllato, mantenendo comunque i benefici biologici dell’aumento
del cortisolo e dell’attivazione dei recettori dei glucocorticoidi.
Lo studio su Nature
L'articolo La dieta “mima-digiuno” e il desametasone potenziano le terapie nel
trattamento del tumore al seno proviene da Il Fatto Quotidiano.
Chi l’avrebbe mai detto: il segreto per rallentare il tempo potrebbe nascondersi
nel cioccolato fondente. Non stiamo parlando della magia di Willy Wonka, ma di
una sostanza reale e scientificamente studiata, la teobromina, ora indicata come
una vera e propria arma nella battaglia contro l’invecchiamento.
La scoperta arriva dal King’s College di Londra e si deve a una ricerca
pubblicata sulla rivista Aging. Lo studio ha confrontato i livelli di teobromina
nel sangue con marcatori dell’età biologica ossia quei segnali che ci dicono
quanto il nostro organismo appare giovane o maturo rispetto agli anni vissuti.
Il risultato? Livelli più alti di teobromina corrispondono a un’età biologica
inferiore a quella anagrafica. In altre parole, il cioccolato fondente potrebbe
aiutare a mantenersi “giovani dentro”, almeno a livello cellulare.
La ricerca ha coinvolto due gruppi di europei, rispettivamente di 509 e 1.160
persone, e ha evidenziato un legame significativo tra questo componente del
cioccolato e la possibilità di rallentare il tempo. Jordana Bell, docente di
Epigenomica al King’s College e autrice senior dello studio, mette le mani
avanti: “Non stiamo dicendo che le persone dovrebbero mangiare più cioccolato
fondente. Questa ricerca serve soprattutto a capire come alimenti di uso
quotidiano possano contenere indizi preziosi per una vita più sana e lunga”.
Ma come si è arrivati a questa conclusione? I ricercatori hanno analizzato sia i
cambiamenti chimici nel Dna sia la lunghezza dei telomeri, le strutture
protettive alle estremità dei cromosomi che si accorciano naturalmente con il
tempo. L’associazione con la teobromina è emersa chiara: più teobromina in
circolo, più telomeri lunghi e più giovane l’età biologica.
Curiosamente, la teobromina era già nota per ridurre il rischio di malattie
cardiache, ma il suo ruolo nell’invecchiamento è una novità entusiasmante. “È
una scoperta che ci emoziona – afferma il genetista Ramy Saad, sempre del King’s
College – e potrebbe aprire la strada a importanti sviluppi nella comprensione
del processo di invecchiamento”.
Piccolo avvertimento ai golosi: non basta abbuffarsi di tavolette di cioccolato
fondente per ottenere benefici. Lo zucchero e i grassi presenti nel cioccolato
potrebbero annullare gli effetti positivi della teobromina. Tuttavia, la ricerca
sottolinea un concetto più generale e affascinante: anche gli alimenti che
consumiamo ogni giorno potrebbero nascondere molecole capaci di influenzare la
nostra salute e, forse, il nostro tempo biologico.
Lo studio
L'articolo Il cioccolato fondente aiuta a mantenersi giovani. Lo studio del
King’s College sulla teobromina proviene da Il Fatto Quotidiano.