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Rinnovabili, installazioni in calo. E la rimodulazione del Pnrr dimezza i fondi per le Comunità energetiche
La rimodulazione del Pnrr proposta daI Governo Meloni è stata servita, con il taglio alla dotazione per le Comunità energetiche rinnovabili che scende a 795,5 milioni di euro dai 2,2 miliardi previsti inizialmente. Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica prima ha dato la notizia, a ridosso della scadenza del bando, scatenando le proteste del settore e, poi, ha annesso le rassicurazioni. Ma non bastano. Anche perché, le Cer non sono l’unica nota dolente sul fronte delle rinnovabili. Dopo anni di crescita che hanno segnato l’entrata in funzione di oltre due milioni di impianti (fonte Terna), l’Italia registra nel 2025 un brusco rallentamento: cala il numero di impianti e il Paese si conferma indietro rispetto all’obiettivo 2030 del decreto aree idonee. Numeri a parte, dopo una scia di ritardi e problemi, a chi sceglie di investire nelle Comunità energetiche rinnovabili non bastano le rassicurazioni del Mase. “Il ministero si farà parte attiva nel ricercare ulteriori risorse alle Cer, in caso di fabbisogno, sia attraverso l’eventuale rifinanziamento della misura, sia tramite il ricorso ad altri piani di investimento nazionali o europei”. L’ennesima ‘mossa’ del Governo non migliora una situazione di incertezza e tensione. “Giova ricordare – ha scritto il Mase nei giorni scorsi – che al 20 novembre 2025, l’obiettivo originario Pnrr di nuova capacità di generazione elettrica da Fer pari ad almeno 1730 megawatt è stato superato con oltre 1759 megawatt”. A tanto ammontano, in effetti, le richieste registrate dal Gse (per 772,5 milioni di euro). Ma giova anche ricordare che, rispetto agli obiettivi che si è posto il Governo Meloni con il Decreto Cer, ossia quello di raggiungere i 5 GW di potenza da impianti rinnovabili entro il 2027, l’Italia ha realizzato negli ultimi cinque anni appena 115 megawatt. IL NODO DELLE COMUNITÀ ENERGETICHE RINNOVABILI E che qualcosa non abbia funzionato, lo hanno certificato anche i dati forniti solo poche settimane fa dal Gse a ilfattoquotidiano.it. Per quel che riguarda la misura Pnrr destinata ai comuni con meno di 50mila abitanti, al 30 settembre 2025 i contributi concessi ammontavano a 425 milioni di euro. Il ministero ha giustificato le scelte della rimodulazione, ma il settore respira incertezza. “Riteniamo inopportuna, fuorviante e poco rispettosa di chi in questi mesi ha investito risorse e tempo per l’autorizzazione di progetti, la narrazione secondo cui gli obiettivi attesi di potenza da incentivare sarebbero stati raggiunti” è il commento del Coordinamento Free, che chiede al Governo di “trovare una nuova dotazione finanziaria (anche con fondi differenti da quelli Pnrr)”. Ma quali risorse intacca la rimodulazione? Si parla dei fondi per progetti di comunità (1,6 miliardi di euro) e gruppi di autoproduzione (600 milioni) con contributi a fondo perduto fino a un massimo del 40% delle spese ammissibili, per potenziare o realizzare nuovi impianti fotovoltaici di soci. “L’importo iniziale di 2,2 miliardi era stato definito nel 2021 – ha scritto lo stesso Mase nei giorni scorsi – sulla base di simulazioni che ipotizzavano un sostegno interamente erogato sotto forma di prestiti a tasso zero fino al 100% dei costi ammissibili, una modalità – secondo il ministro – poco conciliabile con la reale dinamica attuativa e con le effettive esigenze finanziarie delle potenziali iniziative progettuali Cer”. In conformità alla disciplina europea sugli aiuti di Stato, dunque, si è passati a un contributo a fondo perduto pari al 40% del costo dell’investimento. Data la necessità di rispettare le tempistiche indicate da Bruxelles (pena la mancata erogazione dei finanziamenti), però, il governo italiano ha proposto una rimodulazione del Pnrr. Ma il Mase rassicura: “I progetti che non avranno accesso ai fondi resteranno comunque in graduatoria per eventuali scorrimenti o rifinanziamenti”. IL RISULTATO SCARSO DI UN PERCORSO A OSTACOLI Ma quello delle Cer continua ad essere un percorso a ostacoli. Il decreto per gli incentivi destinati alle comunità energetiche e all’autoconsumo diffuso (Decreto Cacer) è arrivato in ritardo di 19 mesi, il 23 gennaio 2024. Più di un anno dopo, un altro decreto ministeriale ha prorogato dal 31 marzo 2025 al 30 novembre 2025 il termine per la presentazione da parte dei Comuni delle richieste per accedere al contributo per l’installazione e la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili inseriti in configurazioni di comunità energetiche, gruppi di autoconsumatori e autoconsumatore individuale a distanza. E se la misura era stata inizialmente indirizzata ai Comuni sotto i 5mila abitanti, a giugno 2025, vista la carenza di domande, il Mase ha esteso la platea anche ai Comuni fino a 50mila abitanti, confermando la scadenza del 30 novembre 2025 per presentare le domande. Ma molti problemi burocratici non sono stati risolti, come raccontato a ilfattoquotidiano.it dal vicepresidente di Italia Solare, Andrea Brumgnach. Un quadro dipinto anche da Legambiente e Kyoto Club che, in queste ore, al Forum Qualenergia, ricordano i dati sulle rinnovabili e presentano un report proprio sulle Cer. Ad oggi, considerando tutte le configurazioni relative all’autoconsumo, parliamo di 1.532 impianti (dati aggiornati a settembre 2025) che vedono il coinvolgimento di quasi 10mila utenze, stando al report di Legambiente. Tra queste configurazioni ci sono, in particolare, 597 Comunità energetiche rinnovabili per 67.695 kW complessivi (883 impianti), 288 gruppi di autoconsumatori di energia rinnovabile che agiscono collettivamente per 6.632 kW, (367 impianti) e 225 autoconsumatori individuali a distanza (39.709 kW, 259 impianti). Questi numeri restano bassi. A pesare, sono burocrazia, ostacoli fiscali, consueti ritardi nelle autorizzazioni, dinieghi da parte del distributore di zona fino ad arrivare ai tagli del Governo. LA VERSIONE DEL MASE Secondo il ministero dell’Ambiente “la riduzione della dotazione deve essere letta come un necessario riallineamento responsabile alle esigenze reali e alle stringenti scadenze del Pnrr, che ha consentito di riassegnare risorse in eccesso ad altri interventi oggi più bisognosi, evitando il rischio di ‘reversal’ e tagli finanziari a chiusura del Piano”. E assicura che eventuali progetti che dovessero risultare ammissibili, ma non immediatamente finanziabili nell’ambito dell’attuale dotazione “potranno essere oggetto di prioritario monitoraggio, in modo da intercettare nuove risorse non appena disponibili”. Ma per il Coordinamento Free “la riallocazione di ingenti risorse, inizialmente destinate alle Cer, senza una corretta mappatura della previsione di spesa, rischia di danneggiare chi ha fatto affidamento su una ampia disponibilità di fondi, garantita fino a pochi giorni prima della scadenza naturale del bando”. Di fatto, a soli pochi giorni dalla comunicazione ufficiale, il sito del Gse indicava che le risorse richieste al 27 novembre 2025 ammontano a oltre 1.160. “Quindi, già oggi – scrive il coordinamento – esistono domande prive di copertura che hanno raggiunto quasi i 400 milioni di euro”. LE ASSOCIAZIONI CONTRO I SEGNALI DEL GOVERNO SULLE CER “L’annuncio a una decina di giorni dalla scadenza naturale del bando è stata una mossa sbagliata, perché ha creato nuova incertezza a chi aveva intenzione di partecipare al bando e a un mondo che si sta muovendo grazie alla proroga, necessaria, di quella scadenza” commenta a ilfattoquotidiano.it Katiuscia Eroe, responsabile Energia di Legambiente. “La cosa importante è che questi progetti vengano finanziati e il governo dovrebbe dire, al più presto, con quali modalità” aggiunge. Sulla stessa linea il Coordinamento Free: “La scelta di riduzione della dotazione finanziaria, assunta a ridosso della scadenza del bando è un segnale di scarsa affidabilità istituzionale che genera incertezza e colpisce duramente migliaia di cittadini, famiglie, piccole e medie imprese e amministrazioni locali”. IL PUNTO SULLE RINNOVABILI: UN BRUSCO RALLENTAMENTO Ma quello delle Cer è solo uno dei nodi del settore delle rinnovabili, come raccontano Legambiente e Kyoto Club. Nei primi dieci mesi del 2025, è calato del 27% il numero degli impianti rinnovabili realizzati rispetto allo stesso periodo del 2024. Sono quasi 182mila, oltre 67mila in meno. E le nuove installazioni si fermano a 5.400 megawatt (di cui 4.813 MW da solare fotovoltaico e 444 MW di eolico), un valore inferiore di 642 MW rispetto ai primi 10 mesi del 2024. Segno meno anche per la produzione di energia elettrica che si attesta a 98.712 GWh, con un -2,5% rispetto allo stesso periodo del 2024, conseguenza dovuta ad un importante calo di produzione dell’idroelettrico con meno 22,8%. Meno peggio il solare fotovoltaico: anche se registra una contrazione sia di potenza installata (-12,2%) sia del numero di impianti (-27%), l’aumento della produzione, rispetto al 2024, è del 24,3%, segno che gli impianti fotovoltaici installati sono mediamente più grandi ed efficienti. I RITARDI DEL DECRETO AREE IDONEE Lontano, invece, dal raggiungimento l’obiettivo 2030 del decreto Aree Idonee. Tra gennaio 2021 e ottobre 2025, secondo i dati aggiornati dell’osservatorio di Legambiente, sono pochi più di 23mila i megawatt di nuova potenza installata da fonti rinnovabili su un totale di 80mila richiesto entro il 2030. Ergo: l’Italia ha raggiunto solo il 28,9% dell’obiettivo al 2030. Tra l’altro, la crescita è stata lentissima negli ultimi due anni, considerando che nel 2023 era a quota 23,8%. Dodici le regioni che a ottobre 2025 non hanno ancora fatto la propria parte. Valle d’Aosta e Molise restano sotto al 15% del proprio target, mentre Calabria, Umbria, Sardegna, Toscana e Sicilia non superano il 20%. L'articolo Rinnovabili, installazioni in calo. E la rimodulazione del Pnrr dimezza i fondi per le Comunità energetiche proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Così un convegno a Milano smonta la narrazione di governo sul nucleare
Mentre risuonava il monito della Cop30 di Belem e il governo del nostro Paese spariva dai monitor allarmati per la protezione del clima, un importante convegno tenuto a Milano il 22 novembre – con una rilevante partecipazione in rappresentanza di 30 associazioni territoriali – produceva una critica sistemica all’opzione nucleare, civile e militare. L’auspicio del governo per un ritorno dell’atomo in Italia è stato preso in considerazione con molto realismo: si è colto così come i rischi tecnici, sanitari, economici e socio‑politici siano sottovalutati e incompatibili con le urgenze e la qualità di una transizione climatica rapida e a costi sostenibili. Il dibattito è stato puntuale e documentato e ha registrato una notevole convergenza delle forze politiche invitate e intervenute (Pd, M5S, Avs, Prc, Pci), quando è stata messa a nudo la propaganda governativa per un incauto rilancio di quello che è stato definito con Robert Jungk “uno stato atomico”. Tra i molti spunti di un confronto documentato, riprendo qui alcune indicazioni tra le più rilevanti e di immediata comprensione. Gli interventi (registrati in video) hanno confermato una falsa separazione tra “atomo per la guerra” e “atomo per la pace”, con il rischio effettivo di una “compromissione di democrazia, di natura, di futuro”. E’ stata contestata la narrativa dei “nuovi reattori economici”, definendola un’illusione fondata su stime di costo irrealistiche. Le cifre sbandierate (Lcoe a 50-70€/MWh) sarebbero lontane dai valori effettivi, che salirebbero oltre i 200 €/MWh, specie quando si internalizzano oneri finanziari, rischio progetto, assicurazioni, gestione rifiuti e decommissioning. Se le valutazioni del nostro governo stanno a livelli assai inferiori è perché si ipotizza la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei profitti tramite sussidi, garanzie e tariffe indicizzate a carico dei consumatori. Sono stati poi richiamati tempi di costruzione per i reattori ben superiori ai dieci anni, citando casi concreti per gli impianti più recenti: Hinkley Point C in Inghilterra con una escalation di costi a 33 mld £, Vogtle negli Usa con esborsi passati da 14 a 35 mld $. Sul profilo salute‑ambiente, è stato rilevato che la radioprotezione moderna adotta il principio lineare senza soglia (Lnt) per le basse dosi: dunque non esisterebbero esposizioni “prive di rischio”. Si è sostenuto che, sapendo che gli effetti sanitari (tumori tiroidei, patologie cardiovascolari, malformazioni congenite) sono sistematicamente minimizzati da autorità e organismi internazionali, si arriverebbe a pratiche di negazione del danno analoghe a quelle storiche dell’industria del tabacco. I limiti della cultura della sicurezza e della regolazione nel settore nucleare con la compenetrazione fra governi, enti regolatori e operatori indebolirebbe l’indipendenza e la trasparenza dell’informazione, con esiti di sottovalutazione delle emergenze, come mostrato dall’incidente di Fukushima. La promessa di “sicurezza assoluta” disincentiverebbe una pianificazione realistica per eventi rari ma ad alto impatto. In prospettiva climatica, nel caso di reattori nucleari si aggiungono stress fisici crescenti (ondate di calore, siccità, alluvioni) che aumentano il rischio di fermate non programmate e vulnerabilità dei sistemi di raffreddamento e delle supply chain. La gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti ad alta attività resta un nodo irrisolto tecnologicamente e socialmente. La chiusura degli impianti, poi, genera impegni finanziari certi e prolungati, spesso coperti da fondi alimentati da tariffe o fiscalità. Il settore nucleare è dipendente da sussidi e diplomazia statale: export credit, garanzie, pacchetti “chiavi in mano” e programmi di “colonizzazione” come quelli trattati da Trump nell’incontro a Washington con Giorgia Meloni. La contiguità tecnologica tra civile e militare e i rischi di proliferazione sono all’ordine del giorno, con pratiche industriali controverse, ancor più condizionate oggi dalla corsa al riarmo. Pur tenendo conto dell’ondata di venture capital e dell’interesse politico, è stato sottolineato che i piccoli reattori modulari (Smr) affrontano ancora barriere su licenze, supply chain, dimostrazione di costi e sicurezza. Le stime aumentano, le timeline slittano, e permangono criticità insormontabili su rifiuti, gestione del plutonio e complessità ingegneristiche; la presunta “modularità” non avrebbe ancora provato economie di serie vantaggiose nella pratica. In termini di sistema, si è rivendicato che eolico, solare e pompaggi (insieme a storage elettrochimico e flessibilità di rete) abbiano ridotto fortemente i costi complessivi e i tempi di dispiegamento, superando il nucleare nella competizione dei costi, oltre che in nuova capacità e quote di generazione. Una tecnologia come quella di fissione, assai poco flessibile, si integrerebbe peggio in mercati con alta penetrazione variabile come nel caso delle rinnovabili, aumentando i costi di bilanciamento. Per quanto riguarda politiche pubbliche e allocazione del capitale, ogni euro vincolato a nuovi reattori sottrae risorse a soluzioni climatiche più rapide, scalabili e “low‑risk”: efficienza, reti, rinnovabili, accumuli, domanda flessibile, elettrificazione dei consumi finali e pompaggio idroelettrico. In un orizzonte di budget di carbonio stringente, i lunghi tempi di realizzazione del nucleare indebolirebbero il contributo alla decarbonizzazione entro le scadenze 2030-2040. A conclusione del convegno si è ribadito quanto il nucleare combini rischi sanitari, costi in crescita, incertezze regolatorie, passività di lungo periodo e dipendenza da supporto pubblico, mentre le rinnovabili con sistemi di accumulo e gestione della domanda offrano tempi, costi e profili di rischio migliori. Per l’Italia, la priorità dovrebbe essere un portafoglio di efficienza, reti, rinnovabili, storage e flessibilità, evitando impegni finanziari e industriali che potrebbero aggravare la crisi climatica e gravare su contribuenti e consumatori per decenni. Ma non sembra questa la strada imboccata dal nostro governo. Il successo del convegno milanese apre un dibattito finora monopolizzato dalle dichiarazioni e dai disegni di legge che Pichetto Fratin evita di portare al dibattito del Parlamento e ad una valutazione aperta e franca dell’opinione pubblica. L'articolo Così un convegno a Milano smonta la narrazione di governo sul nucleare proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle rinnovabili. Noi invece andiamo indietro
Sono di ritorno da un soggiorno a Shanghai, in Cina, per un convegno sull’energia e la sostenibilità. Una cosetta un po’ in grande, organizzata, fra gli altri, dall’Unesco, dal Club di Roma e dall’Università di Scienze Ingegneristiche di Shanghai. Una maratona di presentazioni e discussioni fra ricercatori di 15 paesi diversi che mi hanno permesso di capire parecchie cose. Nel campo della sostenibilità, la Cina ha fatto passi da gigante con il concetto di “civiltà ecologica” che è oggi una politica ufficiale del governo. L’idea è che la Natura e l’Economia umana devono mantenersi in armonia l’una con l’altra, un concetto anche espresso come “Le Due Montagne.” Solo chiacchiere? Direi di no. Quando i cinesi si mettono in mente di fare qualcosa, di solito la fanno seriamente. Non che non si faccia greenwashing in Cina, ma una cosa i cinesi l’hanno capita: bisogna liberarsi dai combustibili fossili il prima possibile. La Cina importa quasi tutto il petrolio e il gas che usa, e questo è costoso e rende il paese strategicamente vulnerabile. Hanno ancora carbone come fonte principale di energia elettrica, ma è fortemente inquinante e non può durare per sempre. Quindi, i cinesi hanno capito che l’energia del futuro è rinnovabile e stanno puntando tutto su quello (incidentalmente, non ho sentito parlare di energia nucleare al convegno. Mi sembra di capire che ci lavorano sopra per lasciare aperta la possibilità che un giorno diventi conveniente, ma è una cosa marginale). Sulle rinnovabili, il successo cinese è stato a dir poco strabiliante. L’industria cinese è oggi in grado di produrre impianti fotovoltaici per tutto il mondo a costi bassi che stracciano ogni altra fonte. Per non parlare delle batterie, delle auto elettriche, dell’automazione e dell’elettrificazione del sistema economico in generale. Tutte aree dove la Cina sta guadagnando un vantaggio tecnologico sull’Occidente che potrebbe presto diventare incolmabile. E non è tanto questione che loro vanno più veloci di noi: mentre loro vanno avanti, noi andiamo indietro. Invece di investire nel futuro, ci stiamo affannando a puntare su tecnologie obsolete ancora basate sui fossili. C’è poco da dire, avremo quello che ci meritiamo. Così, la crescita della produzione di energia rinnovabile in Cina è esponenziale, mentre il carbone è in stallo e se ne prevede un rapido declino nei prossimi anni. Il piano governativo presentato al convegno prevede di arrivare al “Net Zero” entro il 2060. Potrebbe essere troppo tardi per evitare grossi danni a tutto l’ecosistema terrestre, ma ci sono buone possibilità di accelerare la transizione. I cinesi sono noti per eccedere le aspettative quando ci si mettono. Già ora, i risultati si vedono. Una volta, le città cinesi erano note per essere orribilmente inquinate ma oggi, se passeggiate per Shanghai sui grandi viali trafficati, potete sentire il profumo delle piante aromatiche che crescono sui bordi (a parte le zone dove l’odore principale è quello dei ristoranti cinesi!). I motorini sono tutti elettrici. Le auto private lo sono in gran parte, mentre il traffico pesante non è ancora elettrificato, ma ci stanno lavorando. Non me la sono sentita di raccontare ai colleghi cinesi che in Italia sono tutti convinti che le macchine elettriche sono un imbroglio e prendono fuoco come fiammiferi. Prima o poi, certe cose le capiremo anche noi. Come impressione dopo dieci giorni in Cina, a parte le bandiere rosse che sventolano agli angoli delle strade, la vita dei cittadini cinesi non è diversa da quella dei cittadini di tutte le grandi città del mondo. Shanghai è molto grande e affollata, ma è sicura, pulita, vivace e bene organizzata. Nelle zone centrali, l’aggettivo “mozzafiato” si applica bene all’architettura che ci trovate. Fra le tante cose, vi potete facilmente imbattere in una danza pubblica in una piazza, il guǎngchǎng wǔ, dove qualche centinaio di persone si impegnano tutte insieme per mantenersi in forma e socializzare. È un’atmosfera piacevole di comunità locale. Se poi vi piace il cibo cinese, Shanghai è il posto giusto e i ristoranti non sono per niente cari. Insomma, se avete qualche ragione per andare in Cina, o semplicemente volete fare un po’ di turismo diverso dal solito, è un viaggio che vi consiglio caldamente. Per concludere, al convegno ho presentato i miei risultati sugli effetti del CO2 come sostanza dannosa per la salute umana: un’altra buona ragione per liberarsi dei combustibili fossili. Trovate una breve discussione in un post precedente. L'articolo Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle rinnovabili. Noi invece andiamo indietro proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Se volete dare un occhio al futuro verde del pianeta, fatevi un giro in Cina
Chi avesse voglia di dare un’occhiata al possibile futuro verde del pianeta e alla transizione ecologica prodotta dall’innovazione tecnologica, dovrebbe farsi un giro in Cina. La Cina, va detto, consuma più energia di qualsiasi altro paese al mondo. Ha un appetito vorace, alimentato per decenni dal carbone, che l’ha resa il più grande emettitore di CO₂ del pianeta. Ma da almeno dieci anni, questo gigante con una popolazione di un miliardo e 400 milioni di persone è impegnato in una svolta epocale. Il motivo? Raggiungere un obiettivo ambiziosissimo, il cosiddetto “doppio carbonio”: arrivare al picco delle emissioni entro il 2030 ed ottenere la neutralità carbonica entro il 2060. A che punto siamo? Nel 2024, per la prima volta, la capacità di energia non fossile installata in Cina ha superato il 60 per cento del totale nazionale, toccando i 2,2 miliardi di kW. Il resto, circa il 40 per cento, proviene ancora da fonti tradizionali, in primis il carbone, che rimane un pilastro per la stabilità della rete elettrica. Si tratta di una transizione dove le tecnologie avanzate vanno a braccetto con un ripensamento radicale dell’intero sistema, una vera e propria rivoluzione energetica in casa. E per capire come questo futuro stia prendendo forma, bisogna guardare a una provincia lontana dai centri del potere finanziario e politico cinese, lo Xinjiang: 450 miliardi di tonnellate di riserve di carbone (il 40 per cento del totale cinese), un potenziale di energia solare pari al 40 per cento del potenziale tecnico nazionale e uno eolico di 1 miliardo di kW. Siamo ad Urumqi, una cittadina vicina al confine nordoccidentale della Cina, sotto la Mongolia, a pochi kilometri dal deserto del Gobi. In una sala di controllo circondata da schermi olografici dove scorrono flussi di dati in tempo reale, pochi tecnici supervisionano 66 centrali energetiche sparse in una regione grande cinque volte l’Italia. È il Centro Operativo Intelligente di Urumqi, avamposto tecnologico e cervello operativo della più audace transizione energetica del pianeta. È infatti qui, in questa provincia remota battuta dai venti e bruciata dal sole, che si gioca una partita che potrebbe tra qualche decennio ridefinire gli equilibri energetici globali e per ora la Cina ha in mano tutti i jolly. La Cina, a differenza delle nazioni occidentali, ha infatti capito da tempo una verità semplice ma rivoluzionaria: chi controllerà l’energia del futuro controllerà l’economia del XXI secolo e l’energia del futuro sono le rinnovabili. Xinjiang, con le sue distese assolate dove soffia vento costantemente, è il Texas cinese e le rinnovabili il suo petrolio verde. Mentre l’Occidente dibatte sul costo della transizione ecologica, la Cina agisce and leads by example producendo una visione sistemica e comprensiva dello sfruttamento di diverse risorse. Il progetto “Energia dallo Xinjiang al resto della Cina” trasforma così l’abbondanza locale in uno strumento di politica nazionale. Corridoi a ultra-alta tensione (UHV) – come Hami-Zhengzhou e Zhundong-Anhui – sono le moderne arterie di un sistema circolatorio che pompa energia pulita verso le fabbriche e le città della costa orientale. Fino al 2024, hanno esportato oltre 800 miliardi di kWh, alimentando 22 province. È una strategia win-win: le regioni orientali ricevono energia a basse emissioni, lo Xinjiang si sviluppa e Pechino consolida il controllo su un’area strategicamente sensibile. Il Centro di Urumqi è il simbolo di questa regia centralizzata. Non è una semplice sala controllo, è un sistema nervoso digitale che, attraverso un’intelligenza artificiale avanzata, gestisce 170 impianti per una capacità di 11,12 milioni di kW. Trenta di questi funzionano già in modalità “presenza zero” o semiautomatica. Questo modello risponde a un’esigenza duplice: massimizzare l’efficienza e minimizzare l’errore umano in un territorio sterminato. È l’applicazione pratica di un principio di sviluppo: la fusione tra pianificazione statale e tecnologie d’avanguardia che crea un acceleratore di sviluppo senza pari. Perché la Cina ci riesce mentre l’Occidente arranca? La risposta non è solo tecnologica. È politica e sociale. Il vantaggio del ritardatario: la Cina si è industrializzata tardi, saltando fasi inquinanti che per l’Occidente sono state un costo irrecuperabile. La pressione sociale: i cinesi vogliono aria pulita. L’inquinamento non è più un prezzo accettabile per la crescita. Il calcolo economico dello Stato: l’inquinamento ha un costo sanitario enorme. Investire nel verde non è solo una questione ambientale, ma un modo per ridurre la spesa pubblica sanitaria. L’Occidente, d’altro canto, è intrappolato in un paradosso: ha firmato gli Accordi di Parigi, ma manca la volontà politica di affrontare i costi di una riconversione industriale radicale. Qui, invece, la transizione è una priorità nazionale assoluta. La lezione di Urumqi non è solo per la Cina. Questo modello è un prodotto esportabile nell’ambito della Belt and Road Initiative e per i partner dei Brics. Immaginate questo sistema applicato ai deserti dell’Arabia Saudita, dell’Iraq o del Nord Africa. Il centro di Urumqi è il prototipo di una futura rete energetica continentale, una “Via della Seta dell’elettricità” che potrebbe unire l’Eurasia con flussi di energia pulita. In un mondo dove Europa e Asia sono fisicamente un unico continente, questa non è fantascienza. È geopolitica. Mentre da noi si negozia e si rimanda, qui, nel deserto del Gobi, il futuro energetico del mondo è già in funzione. E dall’Occidente non arriva la concorrenza, ma solo i visitatori, come me, a guardare e a prendere appunti. L'articolo Se volete dare un occhio al futuro verde del pianeta, fatevi un giro in Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Investire di più nelle nostre rinnovabili ridurrebbe povertà e disuguaglianze (e la dipendenza dall’estero)
di Claudio Trevisan Nel 2005, circa 1,9 milioni di persone vivevano in povertà assoluta in Italia (3,3% della popolazione). Nel 2024, questo numero è aumentato a circa 5,7 milioni (9,7%), che indica un significativo peggioramento delle condizioni economiche per una parte crescente della popolazione italiana nel corso degli anni. In Italia nel 2015 erano presenti 62 miliardari aumentati a 74 nel 2024 (+19%). Il 5% più ricco delle famiglie italiane nel 2024 possedeva il 46% della ricchezza netta totale. Facendo un confronto con Islanda e Slovenia, il tasso di povertà relativa in Italia è circa il 22% (1 italiano su 5), invece in Islanda è il 4,5% e Slovenia il 12%. Le cause principali di queste differenze sono la disuguaglianza regionale (disoccupazione alta e salari bassi nel Sud rispetto al Nord), assicurazioni sociali più deboli (welfare e indennità di disoccupazione), alta disoccupazione giovanile (lavoro precario). L’Islanda ha alti livelli di occupazione (mercati del lavoro stabili con salari elevati e bassa disoccupazione) e fiscalità progressiva (la ricchezza viene ridistribuita efficacemente attraverso le tasse che finanziano i servizi pubblici). Inoltre, l’Italia ha più disuguaglianza economica (0.33 coefficiente di Gini, che varia da 0 perfetta uguaglianza a 1 estrema disuguaglianza) sia dell’Islanda (0,27) che della Slovenia (0,23). I motivi di questa discrepanza sono disomogenea distribuzione del reddito, limitata redistribuzione (evasione fiscale), pochi diritti e retribuzioni basse per i lavoratori temporanei e la concentrazione della ricchezza in mano a pochi. La Slovenia invece ha un settore pubblico forte (istruzione, assistenza sanitaria e edilizia popolare a basso costo che riducono le disparità), l’imposizione fiscale e trasferimenti efficaci, il governo ridistribuisce il reddito in modo efficiente e con differenze salariali moderate. La Slovenia ha un impegno culturale e politico per l’uguaglianza che enfatizza equità e inclusione. Per cercare di uguagliare l’Islanda e Slovenia con la riduzione della povertà e delle disuguaglianze economiche ci vorrebbe un forte cambio di cultura, difficile in una nazione capitalista/individualista come la nostra. A mio parere una possibile soluzione potrebbe essere quella di aumentare l’investimento nelle energie rinnovabili nostrane (geotermico/solare/eolico) per poter ottenere benefici economici/ambientali/sociali per tutti (specialmente le persone che vivevano in povertà assoluta). L’Italia importa circa il 75% dell’energia (gas/petrolio/carbone). Ogni anno spende oltre 40 miliardi di euro per acquistare combustibili fossili dall’estero. Se le rinnovabili coprissero anche solo il 50% del fabbisogno energetico si potrebbero risparmiare 15 miliardi di euro all’anno in importazioni. Questo ridurrebbe la nostra dipendenza geopolitica, meno vulnerabili ai rialzi dei prezzi internazionali e avremo una maggior stabilità economica interna. Inoltre, le rinnovabili generano molti più posti di lavoro per unità di energia prodotta rispetto alle fonti fossili con circa 5 volte più occupazione nei settori dei pannelli solari, turbine eoliche, batterie, sistemi di accumulo e ingegneria geotermica. Si stimano fino a 500mila nuovi posti di lavoro entro il 2035 se l’Italia dovesse accelerare la transizione energetica. Con un aumento della produzione rinnovabile si potrebbe ottenere una riduzione sia dell’inquinamento causato delle emissioni del settore energetico, sia dei costi sanitari dovuti all’inquinamento atmosferico. L’Italia sfrutta solo una parte del potenziale dell’energia geotermica nostrana. Ci sono sorgenti geotermiche in quasi tutte le regioni ma quasi solo la Toscana le sta utilizzando. Purtroppo, non sono stati convertiti in pozzi geotermici dei pozzi petroliferi abbandonati molto profondi (5.000 metri). Perché? Negli Usa l’Enel gestisce una centrale ibrida solare/geotermica, ma queste centrali non vengono costruite in Italia dove abbiamo tanto sole/energia geotermica. Perché? IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! 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