Erano stati nelle Filippine dal 1° al 28 novembre i due presunti responsabili
della strage di Bondi Beach, a Sydney, costata la vita domenica a 15 persone
durante la festa ebraica dell’Hanukkah. Lo hanno riferito alla Bbc fonti
dell’Ufficio immigrazione di Manila, lo ha confermato anche la polizia dello
Stato australiano del Nuovo Galles del Sud. Sul viaggio indagano le autorità
australiane. Sajid Akram, 50 anni, si era messo in viaggio con un passaporto
indiano, ha spiegato la portavoce dell’Ufficio immigrazione, Dana Sandoval. Il
figlio, Naveed, 24 anni, aveva utilizzato un passaporto australiano, ha
aggiunto, precisando che avevano dichiarato sarebbero stati a Davao, una grande
città sull’isola meridionale di Mindanao, e che sarebbero rientrati in Australia
con un volo per Sydney. Le ragioni del viaggio sono oggetto di accertamenti. Il
50enne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco, mentre il 24enne è rimasto
ferito ed è ricoverato in ospedale.
Mindanao, la seconda isola più grande dell’arcipelago, ospita diversi gruppi
ribelli islamisti ed è da tempo un focolaio di insurrezione contro il governo.
Nel 2017, militanti affiliati all’Isis hanno preso il controllo della città di
Marawi, innescando un sanguinoso assedio durato mesi. Alcuni media avevano
inoltre scritto che i due avevano ricevuto nelle Filippine “un addestramento di
tipo militare“, ma secondo la Bbc l’esercito di Manila non ha ancora confermato.
Il National Bureau of Investigation (Nbi) delle Filippine lavora in
coordinamento con altre agenzie del governo per ricostruire “le attività” svolte
dai due sospettati. Palmer Mallari, portavoce dell’Nbi, ha confermato alla Bbc
che padre e figlio sono stati a Davao e “teoricamente nelle aree limitrofe”. Sul
tema il ministro degli Esteri australiano, Penny Wong, ha sentito la collega
delle Filippine, Tess Lazaro.
Sajid e Naveed Akram erano motivati dall'”ideologia dello Stato islamico“, ha
affermato il primo ministro australiano Anthony Albanese. “La perversione
radicale dell’Islam è assolutamente un problema”, ha detto il premier in una
conferenza stampa Gli investigatori hanno affermato che la polizia ha trovato
due bandiere artigianali dello Stato Islamico nell’auto con cui i due
attentatori si sono recati sul luogo del massacro di domenica. La polizia ha
anche recuperato ordigni esplosivi improvvisati all’interno dell’auto.
L'articolo Strage di Sydney, i due killer erano stati nelle Filippine:
“Avrebbero ricevuto addestramento militare da ribelli islamisti” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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A 24 ore dal massacro di Bondi Beach a Sydney, che ha sconvolto l’intero paese,
siamo ancora increduli e pieni di domande senza risposta. Abbiamo l’impressione
di vivere in una comunità felice qui in Australia, dove la narrativa
predominante è che il nostro paese è fiorito sul multiculturalismo ed ha offerto
un’isola felice e sicura a persone provenienti dai più svariati paesi ed
esperienze di vita.
La comunità vietnamita, qui molto numerosa, è figlia del massiccio esodo
avvenuto durante la guerra tra Nord e Sud ed il successive intervento americano.
Persino le comunità italiane e greche, anch’esse alquanto numerose, sono figlie
dell’emigrazione durante e post la Seconda guerra Mondiale. Ed in linea di
massima l’Australia è riuscita a tenere fuori dai confini del paese le tensioni
razziali, evitando in tal modo significativi episodi di violenza di matrice
etnica o religiosa.
Per questo non riusciamo a capacitarci. Ci risulta difficile immaginare la scena
di un padre e figlio che, dopo aver prestato giuramento di fedeltà all’Isis ed
aver detto a casa di assentarsi qualche giorno per una battuta di pesca,
imbracciano il fucile e sparano all’impazzata sulla folla radunatasi in quella
che è probabilmente la spiaggia più famosa ed iconica di tutto il paese.
Ma forse ci illudiamo di essere ancora un’isola incontaminata, dopo che non più
tardi di 18 mesi fa vi fu un altro attentato, non lontano da Bondi Beach, dove
morirono 7 persone. Nonostante qui nessuno voglia diventare una succursale del
Far West che va spesso in onda negli Stati Uniti, procurarsi un’arma è ancora
relativamente facile in Australia.
Per questo il governo si è riunito in seduta straordinaria per discutere come
cambiare le leggi sul possesso di armi da fuoco e renderne più difficile
l’acquisizione. Passo dovuto in un paese che, dopo l’attentato di Port Arthur
nel 1996 dove morirono 35 persone (ad oggi il peggiore omicidio di massa mai
avvenuto in Australia), decise di imboccare una strada virtuosa e non di
vendetta, ponendo immediatamente forti restrizioni al possesso di armi da fuoco.
Troppo spesso sento nei dibattiti italiani la chiamata alle armi per difendersi
dalla violenza dilagante nel paese (spesso causata dai soliti noti immigrati, a
sentire certi partiti di governo…). E’ questa la soluzione? Credo proprio di no.
Bisogna puntare, per quanto difficile, doloroso ed a lungo termine, ad un
processo di convivenza civile e comprensione ed accettazione delle differenze, e
lavorare insieme per costruire e consolidare una società dove tutti si sentano
legittimati ad esprimere il proprio parere e le proprie idee politiche e
religiose, senza rischiare la pelle.
Chi ci governa dovrebbe dare il buon esempio, creando ponti di dialogo
inter-culturale ed inter-religioso e non fomentando divisoni. Per questo trovo
francamente irricevibile la posizione espressa oggi da Netanyahu, che ha
accusato il primo ministro australiano Anthony Albanese di essere in parte
corresponsabile di questa tragedia, avendo legittimato il diffondersi
dell’antisemitismo nel paese solamente per il fatto che il governo australiano
ha deciso di riconoscere ufficialmente lo stato di Palestina.
La comunità ebraica è stata colpita a morte da due pazzi estremisti che non
avevano rispetto per le idee e valori religiosi altrui, e l’uscita del primo
ministro israeliano contribuisce al perpetuarsi della stessa dinamica, quella di
trattare il diverso come nemico. E purtroppo la storia insegna che tale
propaganda, messa nelle mani di squilibrati, termina spesso con tragedie come
quella di ieri a Bondi Beach.
L'articolo Lo choc e le domande dopo la strage di Bondi beach. Ma l’Australia
può dare il buon esempio proviene da Il Fatto Quotidiano.
Le bandiere a mezz’asta in tutta l’Australia segnano il lutto di un Paese sotto
choc per la strage di Bondi Beach, dove due killer hanno ucciso almeno 15
persone – 16 con uno degli attentatori – durante la cerimonia della festa
ebraica di Hanukkah e ne hanno ferite oltre 40. La vittima più giovane è una
bimba di 10 anni, Matilda. Stava festeggiando insieme alla famiglia ed è
deceduta in ospedale per le ferite riportate. Ad aprire il fuoco sono stati
padre e figlio, come ha confermato il capo della polizia Mal Lanyon: il padre,
di circa 50 anni, è morto sul luogo dell’attentato e da dieci anni possedeva
legalmente licenze per la detenzione di armi. Il figlio Naveed Akram, 24 anni, è
invece rimasto ferito in modo grave. Di quest’ultimo l’intelligence australiana
aveva “una conoscenza limitata”, ma la polizia ha assicurato che non c’era nulla
che potesse “indicare che gli uomini coinvolti nell’attentato potessero
pianificare un attacco” del genere. I due avevano la residenza a Bonnyrigg, e
vivevano insieme a Campsie. Nella loro abitazione sono stati trovati due ordigni
rudimentali che non erano stati attivati.
E il tema delle armi ora torna centrale nel dibattito politico australiano: il
governo guidato da Anthony Albanese ha convocato una riunione d’urgenza
dell’esecutivo e deciso di riformare “la legge sulle armi come azione immediata,
compresa la rinegoziazione dell’Accordo nazionale sulle armi da fuoco, istituito
dopo la tragedia di Port Arthur del 1996, per garantire che rimanga il più
solido possibile nell’attuale contesto di sicurezza in continua evoluzione”. In
una nota diffusa al termine della riunione si legge che “i primi ministri hanno
concordato di rafforzare le leggi sulle armi in tutto il Paese”, polizia e
procuratori generali sono chiamati a elaborare delle opzioni. Sul tavolo,
l’istituzione del Registro nazionale delle armi da fuoco e il ruolo
dell’intelligence criminale per valutare le relative licenze. Si intende poi
limitare il numero di armi da fuoco che un singolo individuo può detenere, le
licenze a tempo indeterminato e i tipi di armi legali. Inoltre una condizione
per ottenere una licenza sarà possedere la cittadinanza australiana. Come
priorità immediata, il governo australiano inizierà a lavorare su possibili
ulteriori restrizioni doganali sulle importazioni di armi da fuoco e di altri
tipi di armi, tra cui la stampa 3D, le nuove tecnologie e le attrezzature per
armi da fuoco che possono contenere grandi quantità di munizioni.
I feriti, il cordoglio e la rabbia – I feriti ancora ricoverati dopo la strage
27 e si trovano negli ospedali di Sydney. Tra loro sei sono in condizioni
critiche, sei in condizioni critiche ma stabili e 13 sono in condizioni stabili.
Intanto nel Paese prevalgono rabbia e cordoglio. Dalle teste di maiale macellate
sono state usate per vandalizzare il cimitero musulmano a Narellan, nella zona
sud-occidentale di Sydney, mentre a Bondi Beach una distesa di fiori rende
omaggio alle vittime dell’attacco terroristico che, come hanno confermato le
autorità poche ore dopo l’attacco. Secondo quanto riporta la polizia del Nuovo
Galles del Sud, intorno alle 6 del mattino sono stati segnalati resti di animali
abbandonati all’ingresso di un cimitero in Richardson Rd, Narellan. “Sul posto
sono intervenuti gli agenti del Camden Police Area Command, che hanno trovato
diverse teste di maiale”, si legge in una nota della polizia che “ha
immediatamente avviato un’indagine sull’incidente”. Gli agenti hanno “rimosso e
smaltito in modo appropriato le teste dei maiali”. Nel 2008 l’Associazione
musulmana libanese ha acquistato il cimitero nel parco della chiesa anglicana di
St. Thomas per far fronte alla carenza di luoghi di sepoltura. Intanto al Bondi
Pavilion si è riunita una folla di persone per deporre fiori. Le bandiere di
Israele e dell’Australia sono drappeggiate sopra il cancello. Durante la
commemorazione sono state cantante canzoni: prima l’inno nazionale australiano e
ora canzoni in ebraico. Sul posto era presente anche la polizia australiana.
L'articolo In Australia via libera a leggi più severe sulle armi dopo la strage
di Bondi Beach. I due killer erano padre e figlio proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Nei filmati che circolano sui social media lo si vede affrontare uno dei due
attentatori di Bondi Beach, immobilizzarlo da dietro dopo essere ‘spuntato’
dalle auto parcheggiato e disarmarlo. Si chiama Ahmed al Ahmed, ha 43 anni, è
originario di Sydney ed è proprietario di un negozio di frutta nel sobborgo di
Sutherland. E’ lui che il primo ministro del Nuovo Galles del Sud Chris Minns ha
descritto come “un eroe”. Con il fucile in mano, puntato verso l’attentatore,
Ahmed è riuscito a far allontanare uno degli aggressori e a permettere ad altre
persone di fuggire. Durante la colluttazione con il killer, durata pochi
secondi, Ahmed è però stato colpito due volte da colpi d’arma da fuoco, uno al
braccio e uno alla mano. Padre di due figli, l’uomo è ora ricoverato in
ospedale, ma le sue condizioni non destano preoccupazioni. “Non sappiamo come
sta, speriamo bene”, ha raccontato il cugino Mustafa al giornale 7News.
L'articolo Disarma il killer e lo immobilizza durante la strage: chi è Ahmed al
Ahmed, “l’eroe” di Bondi Beach proviene da Il Fatto Quotidiano.
I killer che hanno sparato sulla folla a Bondi Beach sono due, o forse tre. La
polizia australiana prosegue le indagini sulla strage che ha colpito l’Australia
sulla spiaggia più iconica del Paese, dove si stava svolgendo la celebrazione
della festa ebraica di Hanukkah. Uno dei due attentatori si chiama Naveed Akram,
25 anni, e non si sa se sia quello rimasto ucciso o l’altro gravemente ferito.
Casa sua, secondo fonti delle forze dell’ordine, è a Sydney, nel quartiere di
Bonnyrigg, dove la polizia ha compiuto un raid nelle ore successive alla
sparatoria. Su Facebook, il suo nome è associato ad uno studente che ha
frequentato un istituto islamico a Sydney. Secondo fonti qualificate, i killer
sono “probabilmente di origine pakistana. Al momento le autorità non hanno
confermato la nazionalità degli attentatori, mentre si cerca un terzo sospetto
oltre ai due identificati. Non ci sono invece notizie sulla nazionalità delle
vittime, hanno aggiunto le fonti spiegando che “al momento non c’è alcuna
indicazione al consolato d’Italia”. Nell’auto del killer deceduto, la polizia ha
riferito in conferenza stampa di avere rinvenuto e disinnescato un Ied, un
ordigno esplosivo improvvisato.
Intanto il direttore generale di Asio, l’agenzia di intelligence australiana, ha
confermato che uno degli attentatori era presente nelle liste di sorveglianza.
“Come per la polizia del New South Wales, uno di questi individui ci era noto,
ma non in una prospettiva di minaccia immediata, quindi dobbiamo indagare su
cosa sia successo”, ha dichiarato Mike Burgess. “Come da prassi standard, stiamo
esaminando l’identità degli aggressori e dove questa sia nota. Stiamo cercando
di capire se c’è qualcuno nella comunità che ha intenzioni simili” ha detto. “È
importante sottolineare che, al momento, non abbiamo indicazioni in tal senso,
ma è un aspetto su cui stiamo conducendo indagini attive”. Burgess ha aggiunto
che il livello di minaccia terroristica nazionale rimane probabile, il che
significa che c’è una probabilità del 50% che si verifichi un atto terroristico.
“Non vedo cambiamenti in questa fase”, ha affermato. “Probabile significa che
c’è una probabilità del 50% che si verifichi un atto terroristico. E purtroppo
abbiamo visto quell’atto orribile verificarsi stasera in Australia” ha concluso.
L'articolo Strage a Bondi Beach: uno dei killer si chiama Naveed Akram. “Gli
attentatori forse di origine pakistana, si cerca un terzo” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La festa di Hanukkah, una delle principali festività del calendario ebraico
colpita da un attacco terroristico a Sydney, è conosciuta anche come la ‘Festa
delle Luci’. E’ una celebrazione ebraica che dura otto giorni e commemora la
riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme nel 164 a.C., dopo la vittoria dei
Maccabei (guidati da Giuda Maccabeo) contro i Seleucidi, che avevano profanato
il Tempio imponendo la cultura ellenistica. Il nome ‘Hanukkah’ significa
‘inaugurazione’ o ‘dedicazione’ in ebraico. Nel II secolo a.C. il re seleucide
Antioco IV Epifane vietò la pratica della religione ebraica e profanò il Tempio.
I Maccabei si ribellarono e riconquistarono Gerusalemme. Per riaccendere la
menorah (il candelabro del Tempio), trovarono solo una piccola quantità di olio
puro, sufficiente per un solo giorno. Miracolosamente, l’olio durò otto giorni,
il tempo necessario per prepararne di nuovo. Questo miracolo è al centro della
festa. La tradizione prevede l’accensione della Hanukkiah, il candelabro
utilizzato durante la festa ebraica di Hanukkah con otto bracci per le candele
che si accendono ogni sera per otto giorni, più uno, lo shamash (“aiutante”),
usato per accendere le altre. Durante l’accensione si recitano benedizioni e si
cantano canti tradizionali. Per ricordare il miracolo dell’olio si mangiano
latkes (frittelle di patate) e sufganiyot (ciambelle ripiene di marmellata).
Inoltre si gioca con una trottola a quattro facce (con lettere ebraiche che
formano l’acronimo ‘Un grande miracolo è accaduto qui/là). Ci si scambia anche
piccoli doni o monete di cioccolato (gelt). Hanukkah cade il 25 del mese ebraico
di Kislev. Nel 2025 inizia al tramonto del 14 dicembre e termina la sera del 22
dicembre. Non è una delle feste più importanti della Torah, ma è molto gioiosa,
soprattutto per i bambini, e simboleggia la vittoria della luce sull’oscurità e
la libertà religiosa. Non ha legami con il Natale, anche se spesso coincide nel
periodo.
L'articolo Strage a Bondi Beach durante la cerimonia di Hanukkah: cosa celebra
la festività ebraica proviene da Il Fatto Quotidiano.
Due uomini hanno aperto il fuoco sulla folla a Bondi Beach, nota spiaggia nella
periferia orientale di Sydney, in Australia, provocando decine di morti. Nel
video, che sta facendo il giro dei social, realizzato da un testimone, si vede
una persona assalire alle spalle uno dei due killer, disarmandolo. Come si vede
nel filmato, il killer si allontana e raggiunge l’altro attentatore.
Video x
L'articolo Spari sulla folla a Bondi Beach, così un civile disarma uno dei due
killer: il video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Era in corso una celebrazione della festività ebraica di Hanukkah, quando due
uomini hanno aperto il fuoco sulla folla a Bondi Beach, alla periferia orientale
di Sydney. I due sono stati fermati dalla polizia. Secondo quanto scrivono i
media australiani, ci sono morti. In un post sui social media, la polizia ha
definito l’accaduto un “episodio in corso”, esortando la popolazione a evitare
la zona. “Chiunque si trovi sul posto dovrebbe mettersi al riparo”. Alcuni
partecipanti sono stati colpiti, molti sono fuggiti o si sono dispersi, anche in
acqua. Le immagini condivise sui social media, spiega il Daily Star, mostrano un
massiccio intervento della polizia nella zona, frequentata da gente del posto e
turisti. Testimoni hanno riferito che un uomo è sceso da un veicolo a Campbell
Parade e ha aperto il fuoco. Ulteriori riprese dalla scena mostrano due persone
vestite di nero che sparano sulla spiaggia. In un ulteriore aggiornamento, la
polizia del Nuovo Galles del Sud ha dichiarato: “Vi preghiamo di condividere il
nostro messaggio affinché i cittadini evitino la zona di Bondi Beach mentre
l’operazione di polizia continua” e “stiamo ancora chiedendo alle persone nella
zona di mettersi al riparo finché non saremo in grado di determinare cosa sta
succedendo”. La spiaggia di Bondi, situata nella periferia orientale della
città, è un luogo iconico amato da gente del posto e turisti. È una delle
spiagge più famose al mondo, rinomata per la sua atmosfera rilassata e la sabbia
dorata e anche per il surf.
L'articolo Sparatoria di massa a Bondi Beach, in Australia, durante la festa
ebraica di Hanukkah. Arrestati due killer proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il 10 dicembre 2025 ha segnato un momento storico per l’Australia: è entrata in
vigore la legge che vieta ai minori di 16 anni l’accesso ai principali social
media, TikTok, Instagram, YouTube, Snapchat, Facebook e X. La misura, approvata
dal Parlamento australiano nel novembre 2024 dopo un braccio di ferro con Big
Tech, impone alle piattaforme di verificare l’età degli utenti e bloccare gli
account dei minori, con multe fino a 50 milioni di dollari australiani (circa 32
milioni di dollari USA) in caso di violazioni.
Il governo australiano, guidato dal primo ministro Anthony Albanese, ha motivato
la decisione con la necessità di proteggere i giovani da contenuti dannosi,
algoritmi adattivi e impatti negativi sulla salute mentale, come la perdita di
sonno e l’aumento di ansia e depressione. Albanese ha dichiarato che “i social
media stanno causando danni ai nostri bambini” e che la legge mira a restituire
ai giovani “tempo prezioso per la loro infanzia”. Maggiore flessibilità solo per
YouTube, con un’esenzione parziale per i suoi contenuti educativi o l’uso
supervisionato, di cui la norma riconosce il valore didattico.
La scorsa settimana è scattato il periodo di transizione di 12 mesi concesso ai
social media per conformarsi, ma l’impatto immediato in Australia in questi
primi giorni di applicazione è misto.
Molti adolescenti hanno aggirato il divieto rapidamente, utilizzando VPN, cioè
sistemi che aggirano la localizzazione dell’utente, o account falsi. Una 13enne
ha eluso i blocchi in meno di cinque minuti: è una caso aneddotico, che però
mette in evidenza le difficoltà tecniche di implementazione del bando. I social
sono stati inondati di post da utenti under-16 che vantavano di essere ancora
online: un trend che mette in discussione l’efficacia della misura e, questo il
rischio, può spingere i ragazzi a ribellarvisi in massa. Nelle ultime ore due
adolescenti australiani hanno avviato una causa contro il governo Albanese.
Sostengono l’incostituzionalità di un provvedimento che limiterebbe i loro
diritti politici, impedendo il loro attivismo. Altri giovanissimi hanno recepito
la legge come una misura paternalistica che interviene direttamente su
socializzazione e libertà creativa.
Ma diversi genitori hanno descritto effetti positivi: un sondaggio del Guardian
ha rivelato che la legge ha già avuto un “profondo effetto” su alcune famiglie,
con bambini che dormono meglio e interagiscono di più offline. Allo stesso
tempo, come sottolineato dai critici della misura, il divieto potrebbe isolare
ulteriormente bambini vulnerabili, come quelli vittime di violenza domestica,
neurodivergenti o con disabilità, che usano i social come unica rete di
supporto. In Australia un tema è anche l’isolamento fisico in comunità remote,
con un forte impatto sulla socializzazione.
L’approccio innovativo, molto avversato dalle piattaforme, è che la legge non
punisce i minori o i loro genitori, ma solo le società di tech. Secondo la
rivista di divulgazione scientifica Nature è anche un “esperimento naturale” per
studiare gli effetti dell’esposizione ai social media sulla salute mentale dei
giovanissimi.
Il bando australiano ha ravvivato il dibattito globale su questo tema.
Nel Regno Unito è stato recepito con enorme interesse, anche grazie
all’attivismo organizzato di un movimento di genitori riuniti nella campagna per
una Smartphone Free Childhood, che esercitano pressione sul governo per adottare
misure simili, raccolgono migliaia di firme, argomentando che le piattaforme
causano danni irreparabili ai giovani e intanto lavorano localmente per bandire
i telefoni dalle scuole. Molti genitori britannici vedono l’Australia come un
modello per contrastare l’epidemia di problemi mentali tra gli adolescenti, che
riconducono ai contenuti tossici e alla dipendenza da scrolling riconducibile
all’algoritmo.
Malgrado pressioni crescenti la posizione del governo britannico, guidato da
Keir Starmer, resta molto cauta. Non ci sono piani immediati per un bando totale
sotto i 16 anni, come confermato da un portavoce di Downing Street. La ministra
della Cultura Lisa Nandy ha espresso critiche al modello australiano,
definendolo potenzialmente “non applicabile” nel Regno Unito. In un’intervista
su Good Morning Britain il 10 dicembre 2025, Nandy ha dichiarato: “Non abbiamo
piani per copiare il divieto australiano, ma terremo d’occhio il suo successo.
Se funziona, lo considereremmo certamente”. Ha enfatizzato che il governo
preferisce collaborare con le tech company per migliorare la sicurezza,
piuttosto che imporre divieti che potrebbero essere elusi. Nandy ha aggiunto:
“Vogliamo dare pace mentale ai genitori, ma attraverso misure proporzionate”.
Il focus è sulla regolamentazione. L’Online Safety Act, entrato in vigore il 25
luglio 2025, obbliga le piattaforme a filtrare contenuti dannosi per i minori e
a verificare l’età per materiale pornografico o violento. Ofcom, l’ente
regolatore delle comunicazioni, ne supervisiona l’attuazione, ma diversi critici
di questo approccio sottolineano la carenza di risorse per eventuali interventi
sanzionatori.
Questa cautela riflette anche la strategia del governo britannico di mantenere
rapporti collaborativi con le grandi piattaforme tecnologiche statunitensi,
privilegiando il dialogo e la cooperazione volontaria rispetto a misure
punitive. Il Regno Unito si distingue in questo dall’approccio dell’Unione
Europea, che ha adottato una linea più rigida attraverso regolamentazioni come
il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), comminando multe
miliardarie a giganti tech per violazioni della privacy, pratiche
anticoncorrenziali e mancata conformità alle normative. In un quadro geopolitico
di alleanza strettissima fra i Tech Bros e il governo Trump, l’Ue ha sanzionato
ripetutamente aziende come Meta, Google e Apple, subendo ritorsioni commerciali,
mentre Londra cerca di posizionarsi come un hub tech-friendly post-Brexit,
bilanciando protezione e innovazione, e resta aperta agli investimenti delle
società di Big Tech.
L'articolo Australia, fatta la legge trovato l’inganno: il divieto di uso dei
social è stato aggirato dai minori in meno di 5 minuti proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Sono passate poco più di 24 ore da quando in Australia è scattato il divieto per
i ragazzi e le ragazze sotto i 16 anni di accedere alle principali piattaforme
di social media, tra cui Tik Tok, Instagram, Facebook, X e YouTube. È il
risultato di un lungo e tortuoso processo cominciato anni fa, quando gruppi di
pressione composti da genitori e difensori dei diritti dei minori avviarono una
campagna politica e di sensibilizzazione volta a proteggere la sicurezza,
privacy e salute mentale dei teen-agers australiani.
Si tratta indubbiamente di una delle più profonde rivoluzioni sociologiche che
questo paese, di solito piuttosto conservatore, abbia mai intrapreso, con una
decisione che coinvolge circa un milione di utenti. Il primo ministro Anthony
Albanese si è esposto in prima persona per promuovere tale divieto, invitando i
ragazzi a dedicarsi allo sport, alla musica ed alla lettura per far fruttare il
tempo che risparmieranno staccandosi da quei maledetti device che sembrano
provocare mal di testa a molti genitori.
Per principio ed educazione sono generalmente contrario ad ogni forma di
divieto, a meno che esso sia motivato da ragioni molto solide basate su evidenze
scientifiche e dati consolidati che mostrino l’assoluta necessità di limitare le
libertà individuali. Ed è forse su questo aspetto che la decisione del governo
australiano mostra delle falle evidenti.
Quando scoppiò la pandemia, l’Australia adottò delle misure molto dure per
proteggere la popolazione, inclusi lockdown estremamente lunghi in città come
Melbourne, dove io risiedo. Una delle conseguenze di queste misure di salute
pubblica fu il fatto che in quegli anni la popolazione australiana, ed in
particolare i giovani, segnalarono un fortissimo disagio causato
dall’isolamento, con un crescente impatto di problemi legati alla salute mentale
(ansia, depressione, disordini alimentari, bulimia etc..). Basti pensare che
quasi il 40% dei giovani australiani hanno avuto almeno un episodio di “mental
disorder” durante il primo periodo del Covid, ed ovviamente l’onda lunga si è
prolungata anche dopo la fine della pandemia portando molti a pensare che esista
un’emergenza sanitaria di salute mentale nel paese.
Che tutto questo sia legato all’uso dei social media non è stato dimostrato. E
una correlazione affidabile anche rispetto ad altri fenomeni, come il numero di
suicidi tra i giovani australiani (circa 300 all’anno, di cui un terzo nella
fascia di età sotto i 17 anni) non è stata ancora provata. Il governo ha
commissionato degli studi che hanno evidenziato come una percentuale rilevante
dei giovani sia stata esposta a contenuti potenzialmente dannosi sui social
media ed ovviamente ha usato questi studi come base fondante di questa
decisione. Il contro-argomento, relativamente ovvio, è che Internet è pieno di
tali contenuti su tantissimi altri siti e, seguendo questa logica, si sarebbe
dovuto porre un divieto esteso su qualsiasi attività online per i minori di 16
anni.
L’impressione è che il governo abbia lavorato su un’ipotesi di base, usando
indicatori proxy che non analizzano la radice del problema ma intercettano
qualche sintomo, per perseguire un’agenda politica che ponesse l’Australia al
centro del mondo, almeno su questa tema. Vari governi nella regione ed in Europa
(Nuova Zelanda, Malesia e Danimarca) hanno già dichiarato che seguiranno con
attenzione i risultati di questa decisione e potrebbero adottare delle politiche
simili.
Vivendo in Australia, devo ammettere come questo tema non sia stato al centro
delle conversazioni al bar o sulla metro. Questo paese ha un alto livello di
digital literacy e credo che la maggior parte dei genitori siano rassegnati
all’idea che i loro figli, nonostante tali divieti, continueranno ad usare
queste piattaforme con account fake ed altri trucchi di cui sono già piene le
chat giovanili. Il che indicherebbe come una decisione politica stia cercando di
forzare una cambio culturale e sociologico di cui la popolazione forse non
sentiva il bisogno.
L'articolo Gli australiani conoscono bene il digitale e sanno che il ban dei
social non fermerà i loro figli proviene da Il Fatto Quotidiano.