L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei
giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale
immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi,
ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i
giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la
cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un
modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire
le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere
la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”.
Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra
di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando
preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un
modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’
scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana?
Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia
di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura
domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro
Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è
“rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per
intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati,
piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi
slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare.
Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina
italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che
proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di
gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con
ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E
quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il
riconoscimento o è del tutto fuori luogo?
Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato
indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta
mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora
perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020,
ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora,
la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese.
Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette
francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma
certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici;
tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o
con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare
un’eccellenza mondiale…).
Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a
nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a
suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario
volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da
ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di
Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità
ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del
Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh,
allora, ci sta proprio tutto.
Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare:
a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense?
L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’,
non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Cucina Italiana
“L’Unesco si è lasciata raggirare riconoscendo alla cucina italiana uno status
culturale speciale, quando la migliore del mondo è qui da noi“. Non usa mezzi
termini il giornalista britannico del Times, Giles Coren. Insomma “la cucina
italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità era prevedibile,
servile, ottuso e irritante”.
E ancora: “Da quando scrivo di ristoranti combatto contro la presunta supremazia
del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da
inglesi dell’alta borghesia, mangiatori di fiori di loto con palati da bambini
viziati, che all’inizio degli anni Novanta trasferirono le loro residenze estive
in Toscana, dopo che il successo volgare di Un anno in Provenza di Peter Mayle
aveva reso il sud della Francia plebeo”. Un attacco frontale, che non si ferma
qui.
“Jamie Oliver, Nigella Lawson, Antonio Carluccio e il River Café hanno
perpetuato questa favola romantica. – ha continuato – I supermercati si sono
riempiti di pomodori secchi, pesto in barattolo, gnocchi sottovuoto, salami,
biscotti, panettoni. Tutti hanno comprato una macchina per la pasta, usata una
volta, mai lavata e poi abbandonata nell’armadio sotto le scale, dove giace
tuttora”.
Il giornalista ha specificato che lui il nostro Paese lo conosce bene e che il
cibo lo ha trovato “pessimo. I ristoranti cari, il personale scortese. Gli
italiani odiano gli inglesi e l’unica scelta sicura è la pizza, come in America
o a Wolverhampton“.
Quale sarebbe l’alternativa per il giornalista? “Se c’è una cucina nazionale che
l’Unesco dovrebbe riconoscere per il suo valore culturale eterno e la sua
importanza politica unica, è quella inglese. Inclusi, ma non solo: il toast
bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio; le colazioni degli hotel
economici, prodotte in un unico oscuro centro da troll ciechi con materiali di
fortuna; gli spaghetti col ketchup; la torta di Haribo sciolta in macchina ad
agosto; i noodles cinesi croccanti incollati alla tovaglia; lo snakebite and
black, il Barolo britannico; le salsicce Heinz con fagioli, che contengono tutti
i gruppi alimentari conosciuti; i panini al ketchup; il porridge (isolante da
sottotetto ammorbidito con acqua) e, naturalmente, la Terry’s Chocolate Orange.
Questa sì che è cultura. Altro che pomodori!”.
Parola di Giles Coren.
L'articolo “La cucina italiana patrimonio immateriale dell’umanità? Irritante.
Cibo pessimo, ristoranti cari, personale scortese”: l’attacco del critico del
“Times” proviene da Il Fatto Quotidiano.
“I canederli non sono italiani”. Sono passati appena due giorni da quando la
cucina italiana è stata proclamata patrimonio immateriale dell’umanità
dell’Unesco e già scoppia la prima diatriba enogastronomica. Ad innescarla,
sotto forma di provocazione, è stato il quotidiano altoatesino Dolomiten, il
quotidiano in lingua tedesca più antico e letto dell’Alto Adige, che usa il
sarcasmo e l’ironia per raccontare le reazioni dopo il riconoscimento Unesco.
“Adesso, improvvisamente, i canederli sono diventati bene culturale italiano”,
ha ironizzato il quotidiano sudtirolese. “Si possono davvero commercializzare
gli Schlutzkrapfen (ravioli ripieni), gli gnocchi di formaggio (Käsenocken) e i
Tirtlan (frittelle ripiene) come italiani?”, ha aggiunto la testata, secondo la
quale i canederli, i celebri gnocchi di pane conditi con speck, non
apparterebbero alla tradizione culinaria tricolore.
Una tesi alla quale bisognerebbe contrapporre quanto spiegato molto bene da uno
dei più grandi esperti italiani di enogastronomia, territori e prodotti, il
fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, che ha commentato l’assegnazione fatta
dell’Unesco così: “La nostra cucina ha vinto perché è una cucina varia, fatta
dalle tradizioni di tante regioni diverse. Noi non abbiamo una cucina
identitaria, i Francesi sì, ma non noi. La nostra forza non è l’identità: è la
diversità, la varietà di tante cucine che convivono insieme”.
Ed è proprio la varietà e l’incontro di culture che ha dato origine ai
canederli, come chiarisce il magazine La cucina italiana: “I canederli (knödel)
sono uno dei piatti più rappresentativi della cultura gastronomica del
Trentino-Alto Adige. Una pietanza più vicina alla tradizione tedesca e
austriaca, ma le cui origini sono da collocare in territorio italiano,
precisamente nel Sud Tirolo”.
Ma come la pensano lì? Il Corriere della Sera ha messo assieme un po’ di
reazioni rispetto al “canederlo gate”, a cominciare da quella del separatista
Sven Knoll, secondo cui “c’è sempre stato uno scambio in cucina; la cucina
viennese deriva da quella boema e in Germania si produce molta pizza, eppure non
è un prodotto tipico tedesco”. Per il governatore Arno Kompatscher, invece, “il
termine ‘italianop non va inteso in senso geopolitico, riferito al territorio
nazionale, e la cucina altoatesina è qualcosa di particolare”.
L'articolo “I canederli non sono italiani”: scatta la polemica del quotidiano
Dolomiten dopo la nomina della cucina italiana a patrimonio immateriale
dell’umanità dell’Unesco proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Quando esco a cena vado al cinese o al giapponese”. Parola di Giorgio
Locatelli. Lo chef stellato giunto alla settima partecipazione filata a
Masterchef su Sky, assieme ai colleghi Bruno Barbieri e Antonino Cannavacciulo,
si è raccontato in un’intervista al settimanale Oggi. Intervista che ha avuto
una breve anticipazione su Dagospia. Di origine varesina, Locatelli vive a
Londra dagli anni ottanta e nel 1999 ha ottenuto la sua prima stella Michelin. È
nel 2002 che assieme alla moglie apre sempre a Londra la Locanda Locatelli.
Sfilano i vip – tra cui Mick Jagger e Kate Moss – fino ad una improvvisa
chiusura a inizio 2025. Poi all’interno della National Gallery apre il Bar
Giorgio. “Mia moglie Plaxy, che è inglese ed è stata la prima a capire che
offrivamo qualcosa di diverso dal tipico ristorante italiano, mi diceva come
mostrarmi e che ogni tanto dovevo fare dei compromessi perché il mio lavoro
fosse capito”, ha confessato Locatelli. Comunque il disimpegno arriva quando
esce la sera a cena: niente cucina francese o italiana (“ho un metro di
giudizio, quindi è come se stessi sempre lavorando”) ma solo fornelli e
gastronomia orientale.
La grande paura è quando sua figlia da piccola scopre di avere intolleranze
alimentari. “È stato tremendo perché se mangiava qualcosa di sbagliato poteva
morire. Abbiamo lavorato tanto, anche con l’università, per garantire sicurezza.
Una volta c’era un giornalista in visita alla Locanda; a un certo punto la
bambina è entrata in cucina e tutti si sono tolti il grembiule e l’hanno girato
al contrario per evitare contaminazioni, ad esempio se avevano toccato il pesce.
Sembrava uno scherzo e quando gli ho spiegato il problema è rimasto
impressionato”.
L'articolo “Se mia figlia mangia qualcosa di sbagliato può morire, è stato
tremendo quando l’ho scoperto”: parla lo chef Giorgio Locatelli proviene da Il
Fatto Quotidiano.
di Giorgio Boratto
L’Unesco ha riconosciuto la Cucina italiana Patrimonio dell’Umanità. Grande
risultato ma bisognerebbe sapere che la Cucina italiana formalmente non esiste;
noi abbiamo una cucina regionale o meglio dire locale. L’Italia è l’unico paese
al mondo che ogni circa 50 km cambia il dialetto e cambiano i sapori della
cucina. Per questo l’Italia ha il patrimonio culinario più vario e ricco della
cucina mondiale.
Tutto è dovuto a secoli di storia e influenze culturali tra le più diverse che
hanno dato origine ad una varietà culinaria eccezionalmente ricca e variegata.
Così ogni regione e città si caratterizza oltre che per i suoi costumi, opere
d’arte, con una propria identità gastronomica.
A codificare i menù fu per primo Pellegrino Artusi che raccolse le ricette
casalinghe in ordine di portata. Era il 1891 e nasceva così il primo ricettario
o manuale di cucina che raccoglieva i piatti che Pellegrino Artusi trovava e
provava in viaggio per l’Italia. Erano per lo più ricette casalinghe che gustava
e provava per poi descriverle nel suo Manuale pratico per le famiglie: L’Arte di
mangiar bene.
Fatto salvo che la cucina italiana allora è un’insieme di specificità unite da
comunità dei luoghi, allora il riconoscimento dell’Unesco è dato non alle
ricette ma al sentimento identitario che accomuna la cucina quotidiana: il
preparare pronto in tavola da condividere…
A sostenere questo riconoscimento sono stati Pier Luigi Petrillo (Direttore
cattedra Unesco UnitelmaSapienza e professore di Cultural Heritage alla Luiss
Guido Carli, nonché autore di tutte le candidature all’Unesco legate
all’agro-alimentare) e Massimo Montanari (Professore all’Università di Bologna e
tra i massimi esperti al mondo in storia dell’alimentazione). Proprio
quest’ultimo ha scritto un libro Il mito delle origini. Breve storia degli
spaghetti al pomodoro; questo è forse il piatto che unisce l’Italia: il piatto
italiano per eccellenza. E così la nostra cucina spazia per diventare cultura e
storia.
Forza di una cucina immateriale; forza di una italianità che fa diventare
italiani chi l’assaggia.
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L'articolo Non esiste una cucina italiana (ma bene che sia stata premiata)
proviene da Il Fatto Quotidiano.
La “cucina italiana” è patrimonio culturale immateriale dell’umanità. È stato il
Comitato intergovernativo dell’Unesco riunito a New Delhi (India) a dichiararlo.
Si tratta della prima cucina al mondo, intesa come tradizione gastronomica
culinaria, ad essere riconosciuta nella sua interezza. Secondo i membri Unesco
la “cucina italiana è una miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”,
ma anche “un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore
e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per
condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. I membri
dell’Unesco si sbilanciano anche in ulteriori considerazioni tra l’antropologico
e il culturale. Sempre la “cucina italiana” “favorisce l’inclusione sociale,
promuovendo il benessere e offrendo un canale per l’apprendimento
intergenerazionale permanente, rafforzando i legami, incoraggiando la
condivisione e promuovendo il senso di appartenenza”.
E ancora il giudizio si sbilancia anche sull’atto del “cucinare” definita
“un’attività comunitaria che per gli italiani enfatizza l’intimità con il cibo,
il rispetto per gli ingredienti e i momenti condivisi attorno alla tavola”.
Infine c’è pure una lettura etica tanto che nella motivazione ufficiale si
citano fantomatiche “ricette anti-spreco” come una “trasmissione di sapori,
abilità e ricordi attraverso le generazioni”; la cucina italiana viene quindi
definita con un ardire poetico letterario piuttosto enfatico “una pratica
multigenerazionale, con ruoli perfettamente intercambiabili che svolge una
funzione inclusiva, consentendo a tutti di godere di un’esperienza individuale,
collettiva e continuo di scambio, superando tutte le barriere interculturali e
intergenerazionali”.
UN PATRIMONIO MILLENARIO
I dossier inviati all’Unesco erano 60, provenienti da 56 paesi diversi, tra
questi quello italiano curato dal giurista Pier Luigi Petrillo e particolarmente
apprezzato per “gli sforzi significativi compiuti da organismi rappresentativi
chiave come la rivista La Cucina Italiana, l’Accademia Italiana della Cucina, la
Fondazione Casa Artusi”. È sotto il governo Meloni, nel 2023, che la storia
della candidatura inizia ufficialmente. Il ministero della Cultura, allora sotto
l’egida Sangiuliano, ebbe l’ardire di presentare un dossier dedicato non a un
singolo piatto ma a un’intera cultura culinaria, “un rito collettivo di un
popolo che concepisce il cibo come elemento culturale identitario”. “Viva
l’Italia, viva la cucina italiana”, ha commentato a caldo la presidente del
consiglio Giorgia Meloni. “La nostra cucina nasce da filiere agricole che
coniugano qualità e sostenibilità.
Custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in
generazione. Cresce nell’eccellenza dei nostri produttori e si trasforma in
capolavoro nella maestria dei nostri cuochi. E viene presentata dai nostri
ristoratori con le loro straordinarie squadre”. Meloni chiosa spiegando che
questo orgoglio nazionale e i prodotti che lo compongono vanno “protetti con
maggiore efficacia da imitazioni e concorrenza sleale”. Il ministro della
Cultura, Alessandro Giuli, si è invece dedicato all’elemento antropologico e
sociale del riconoscimento, citando perfino il “pranzo della domenica”:
“Soltanto il fatto che il nostro stare a tavola, il nostro modo, peculiarmente
italiano, di stare insieme, sia erede di tante ritualità, che il nostro ‘pranzo
della domenica i nostri momenti conviviali in occasione delle feste, siano
elementi di una tradizione antichissima e in evoluzione continua, dice tutto. I
nostri piatti sono espressione dei nostri territori, delle nostre radici
familiari, che attraversano le generazioni”.
L'articolo “É un’arte di vivere”: la cucina italiana riconosciuta patrimonio
mondiale dell’Unesco proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Tutti mi chiamano per un’altra cosa che voi mi dite di non dire e io non dico“.
Mercoledì 3 dicembre, la puntata de “La volta buona” è stata segnata da una
polemica. Nonna Silvi, vincitrice del premio Tiktok awards come migliore creator
italiano del 2025, è stata contattata dal programma per spiegare come preparare
la lasagna perfetta.
La signora toscana ha iniziato il collegamento con Caterina Balivo, conduttrice
del programma, con tono spazientito. “Mi fa parlare?“. Nonna Silvi ha subito
puntualizzato: “Cavolfiore nella lasagna? Ce lo mettete voi, io non lo metto”.
La star dei social ha proseguito raccontando i procedimenti per preparare il
piatto tipico della tradizione culinaria italiana. Alla domanda sui tempi di
preparazione la signora ha risposto: “Di solito si può fare con calma, oggi mi
avete chiamato voi e ho dovuto fare in fretta. Avrei potuto fare con calma visto
che ci siamo collegati a quest’ora e a me tocca mangiare la lasagna ghiacciata“.
“ASPETTO DA MEZZ’ORA”
Nonna Silvi ha rincarato la dose, dichiarando di aspettare il collegamento da
mezz’ora. La signora ha smorzato i toni aggiungendo che “questa volta è andata”.
La polemica, però, non è finita lì. La nonna d’Italia, infastidita, si è detta
sorpresa del motivo per cui è stata contattata da “La volta buona“. “Non credevo
mi chiamaste per le lasagne. Gli altri mi contattano per un altro argomento che
voi mi avete detto di non dire e io non dirò”.
La conduttrice ha invitato la signora a parlare liberamente sui temi
“censurati”. Nonna Silvi ha replicato: “Mi hanno detto di non dirlo, certo non è
una cosa illegale”. E infine, ripensandoci, la signora ha esclamato: “Ho vinto
il Tiktok Awards. Non ho potuto neanche farvelo vedere”. Alla fine le parti
hanno fatto pace e nonna Silvi ha fatto venire l’acquolina in bocca a tutti con
la spiegazione della sua lasagna tradizionale.
L'articolo “Tutti mi chiamano per un’altra cosa, voi per la lasagna ma mi avete
fatto aspettare e ora mi tocca mangiarla ghiacciata”: la polemica di Nonna Silvi
a La Volta Buona proviene da Il Fatto Quotidiano.
La casa editrice Gambero Rosso ha stilato la classifica delle 5 migliori passate
del supermercato. Buono, fresco e veloce, il pomodoro mette tutti d’accordo.
Pablo Neruda scrisse un’ode per elogiarlo, Gambero Rosso ha deciso di fare
chiarezza e, al tempo stesso, aprire una discussione: qual è la passata in
bottiglia più buona? L’indagine condotta dalla casa editrice, specializzata in
enogastronomia, è stata svolta sulla base di un blind test, ossia l’assaggio
della passata senza conoscere la marca. Gambero Rosso ha provato a indentificare
la salsa di pomodoro che, più delle altre, riesce a catturare l’anima di questo
ortaggio.
RODOLFI QUINTO, A SEGUIRE VITALE
Con la sua Fior di passata, il marchio Rodolfi si è piazzato al quinto posto
della speciale classifica. L’azienda di Vicofertile, in provincia di Parma, gode
di grande successo per la logistica a chilometro zero, fattore che permette a
Rodolfi di lavorare con pomodori maturi e non sottoposti a lunghi trasporti. La
Fior di passata è stata giudicata come “schietta e caratteristica”, priva della
nota acida che contraddistingue questo tipo di pomodoro. In cottura la salsa è
sapida, dolce e amarognola al punto giusto.
Al quarto posto si è posizionata la “Passata di Pomodoro di Vitale”, società
dall’anima vesuviana. Il colore della passata è un rosso lucido e intenso. Il
campione che si è sottoposto al blind test ha giudicato le note del pomodoro
“legnose e pungenti”, due fattori che si ammorbidiscono con la cottura. Al gusto
la “Passata di Pomodoro di Vitale” risulta dolce-acido-sapida, qualità raramente
riscontrata in questo speciale confronto tra salse.
PETTI È TERZO, AL SECONDO POSTO UNA SORPRESA
Gambero Rosso ha assegnato la medaglia di bronzo a Petti. L’azienda di Venturina
Terme, in provincia di Livorno, sale sul podio grazie alla sua Passata
extrafine. Nonostante l’azienda sia toscana, il pomodoro che ha regalato il
terzo posto a Petti proviene dall’agro nocerino sarnese. I giudici hanno
elogiato l’azienda livornese per la consistenza compatta e carnosa della salsa
di pomodoro. L’acidità acetica non compromette l’incisività delle note fruttate,
che rimandano anche alla mela. L’assaggio risulta originale e armonioso.
La medaglia d’argento va al collo della bottiglia della salsa di Santa Rosa. La
“Pomodorissimo. La Passata di Santa Rosa” ha conquistato i giudici, che hanno
assicurato al marchio il secondo posto in classifica. Il claim dell’azienda
recita “Tutto il sapore del pomodoro crudo” ma, come riporta Gambero Rosso, la
passata sorprende per la sua dolcezza. Il pomodoro ha un gusto fruttato, libero
da alterazioni. Il colore è un rosso opaco, meno denso e brillante di altre
passate. La semplicità del prodotto di Santa Rosa ha stregato i giudici che,
però, hanno assegnato il primo premio a un altro marchio.
CIRIO SU TUTTI
In cima alla Top 5 delle passate di pomodoro del supermercato stilata da Gambero
Rosso c’è la Cirio. La storica azienda torinese, fondata da Francesco Cirio nel
1856, si aggiudica la medaglia d’oro nonostante l’aspetto meno convincente
rispetto alle rivali. La passata, infatti, è caratterizzata dalla separazione
tra l’acqua della vegetazione e la polpa. A fare la differenza sono le note di
pomodoro maturo nitide all’olfatto e al gusto, senza risultare spigolose.
L’acidità è ordinata. la setosità della passata dona piacevolezza. Un mix di
gusti e sapori che hanno reso Cirio la passata più buona di tutte.
L'articolo Qual è la migliore passata di pomodoro del supermercato? La
classifica del Gambero Rosso: al secondo posto una sorpresa proviene da Il Fatto
Quotidiano.