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Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più
L’Unesco ovviamente non lo sa, ma indirettamente mi ha premiato quando nei giorni scorsi ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale globale. A dire il vero non so esattamente cosa questo significhi, ma, dato che io sono italiano, dato che amo cucinare, e che cucino quasi tutti i giorni, questo riconoscimento mi inorgoglisce un po’. Secondo la decisione, la cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un modo per prendersi cura di sé stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. Accidenti, non capisco neanche questo esattamente cosa significhi, ma mi sembra di ritrovarmici: mescolo cucina ligure e piemontese, mi ricordo mamma quando preparava i vari tipi di pasta ed io la osservavo curioso, e la cucina era un modo per esprimere gioia, condivisione, rispetto. Ma, detto questo un po’ scherzosamente, mi domando: ma cosa e dove diavolo è oggi la cucina italiana? Devi cercarla con la lanterna di Diogene, perché chi è che ha più tempo e voglia di cucinare in casa secondo tradizione? E quante sono, fuori dalle mura domestiche, le trattorie tradizionali? Se guardiamo i 4 ristoranti di Alessandro Borghese, essa non esiste quasi più, o, se esiste, è contaminata, o meglio è “rivisitata in chiave moderna”: tradotto: quella originale, alla Sora Lella per intenderci, è scomparsa. In compenso siamo subissati di piatti ultraprocessati, piatti pronti e quant’altro. La cucina italiana sembra diventata come i presidi slow food: qualcosa da tutelare perché altrimenti scompare. Ma poi, fatemi capire, quali sono gli ingredienti di questa benedetta cucina italiana? Le verdure che provengono dall’agricoltura intensiva? La carne che proviene dagli allevamenti anch’essi intensivi? Il pesce allevato, che supera di gran lunga quello pescato? Insomma, esiste ancora la cucina italiana con ingredienti naturali, che un tempo effettivamente allietava le nostre tavole? E quindi ha un senso il termine “sostenibilità” con cui è stato accompagnato il riconoscimento o è del tutto fuori luogo? Ma voglio andare oltre, e nel farlo, mi inorgoglisco sempre meno di essere stato indirettamente premiato. Intanto, vedo (ma già lo sapevo) che la dieta mediterranea, in generale, aveva ottenuto il riconoscimento nel 2010. Ma allora perché anche la cucina italiana, che ne fa parte? E dieci anni dopo, nel 2020, ecco il riconoscimento ottenuto dal pasto gastronomico francese. E poi ancora, la cucina tradizionale messicana, e ovviamente il pasto tradizionale giapponese. Per non parlare del riconoscimento di singoli prodotti, come la baguette francese o la vite ad alberello di Pantelleria. E la pizza napoletana no? Ma certo, non la pizza in sé ma l’arte del fare la pizza. E comunque fanno sedici; tanti sono i riconoscimenti Unesco immateriali che colleziona l’Italia da sola o con altre nazioni. C’è persino l’alpinismo (e anche qui, non sapevo di praticare un’eccellenza mondiale…). Insomma, sembra proprio che un riconoscimento non si neghi a nessuno, e a nessuna “cosa”: se ne facciano una ragione i nostri governanti, dalla Meloni a suo cognato, da Giuli alla Santanché all’onnipresente Tajani (“uno straordinario volano di crescita e prosperità” scusate ma quando parla Tajani mi scappa da ridere!). Del resto, se sempre in Italia hanno conferito il riconoscimento di Patrimonio Mondiale come paesaggio culturale a quell’azzeramento di biodiversità ed enorme distesa di vigneti irrorati da pesticidi che sono le Colline del Prosecco, talmente inquinate che i residui si trovano persino nel vino, beh, allora, ci sta proprio tutto. Concludo con una domanda che mi sorge spontanea dopo tutto questo sproloquiare: a quando il riconoscimento di patrimonio immateriale al junk food statunitense? L'articolo Cosa e dove diavolo è la cucina italiana? A guardare ‘4 ristoranti’, non esiste quasi più proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“La cucina italiana patrimonio immateriale dell’umanità? Irritante. Cibo pessimo, ristoranti cari, personale scortese”: l’attacco del critico del “Times”
“L’Unesco si è lasciata raggirare riconoscendo alla cucina italiana uno status culturale speciale, quando la migliore del mondo è qui da noi“. Non usa mezzi termini il giornalista britannico del Times, Giles Coren. Insomma “la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità era prevedibile, servile, ottuso e irritante”. E ancora: “Da quando scrivo di ristoranti combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia, mangiatori di fiori di loto con palati da bambini viziati, che all’inizio degli anni Novanta trasferirono le loro residenze estive in Toscana, dopo che il successo volgare di Un anno in Provenza di Peter Mayle aveva reso il sud della Francia plebeo”. Un attacco frontale, che non si ferma qui. “Jamie Oliver, Nigella Lawson, Antonio Carluccio e il River Café hanno perpetuato questa favola romantica. – ha continuato – I supermercati si sono riempiti di pomodori secchi, pesto in barattolo, gnocchi sottovuoto, salami, biscotti, panettoni. Tutti hanno comprato una macchina per la pasta, usata una volta, mai lavata e poi abbandonata nell’armadio sotto le scale, dove giace tuttora”. Il giornalista ha specificato che lui il nostro Paese lo conosce bene e che il cibo lo ha trovato “pessimo. I ristoranti cari, il personale scortese. Gli italiani odiano gli inglesi e l’unica scelta sicura è la pizza, come in America o a Wolverhampton“. Quale sarebbe l’alternativa per il giornalista? “Se c’è una cucina nazionale che l’Unesco dovrebbe riconoscere per il suo valore culturale eterno e la sua importanza politica unica, è quella inglese. Inclusi, ma non solo: il toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio; le colazioni degli hotel economici, prodotte in un unico oscuro centro da troll ciechi con materiali di fortuna; gli spaghetti col ketchup; la torta di Haribo sciolta in macchina ad agosto; i noodles cinesi croccanti incollati alla tovaglia; lo snakebite and black, il Barolo britannico; le salsicce Heinz con fagioli, che contengono tutti i gruppi alimentari conosciuti; i panini al ketchup; il porridge (isolante da sottotetto ammorbidito con acqua) e, naturalmente, la Terry’s Chocolate Orange. Questa sì che è cultura. Altro che pomodori!”. Parola di Giles Coren. L'articolo “La cucina italiana patrimonio immateriale dell’umanità? Irritante. Cibo pessimo, ristoranti cari, personale scortese”: l’attacco del critico del “Times” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“I canederli non sono italiani”: scatta la polemica del quotidiano Dolomiten dopo la nomina della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco
“I canederli non sono italiani”. Sono passati appena due giorni da quando la cucina italiana è stata proclamata patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco e già scoppia la prima diatriba enogastronomica. Ad innescarla, sotto forma di provocazione, è stato il quotidiano altoatesino Dolomiten, il quotidiano in lingua tedesca più antico e letto dell’Alto Adige, che usa il sarcasmo e l’ironia per raccontare le reazioni dopo il riconoscimento Unesco. “Adesso, improvvisamente, i canederli sono diventati bene culturale italiano”, ha ironizzato il quotidiano sudtirolese. “Si possono davvero commercializzare gli Schlutzkrapfen (ravioli ripieni), gli gnocchi di formaggio (Käsenocken) e i Tirtlan (frittelle ripiene) come italiani?”, ha aggiunto la testata, secondo la quale i canederli, i celebri gnocchi di pane conditi con speck, non apparterebbero alla tradizione culinaria tricolore. Una tesi alla quale bisognerebbe contrapporre quanto spiegato molto bene da uno dei più grandi esperti italiani di enogastronomia, territori e prodotti, il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, che ha commentato l’assegnazione fatta dell’Unesco così: “La nostra cucina ha vinto perché è una cucina varia, fatta dalle tradizioni di tante regioni diverse. Noi non abbiamo una cucina identitaria, i Francesi sì, ma non noi. La nostra forza non è l’identità: è la diversità, la varietà di tante cucine che convivono insieme”. Ed è proprio la varietà e l’incontro di culture che ha dato origine ai canederli, come chiarisce il magazine La cucina italiana: “I canederli (knödel) sono uno dei piatti più rappresentativi della cultura gastronomica del Trentino-Alto Adige. Una pietanza più vicina alla tradizione tedesca e austriaca, ma le cui origini sono da collocare in territorio italiano, precisamente nel Sud Tirolo”. Ma come la pensano lì? Il Corriere della Sera ha messo assieme un po’ di reazioni rispetto al “canederlo gate”, a cominciare da quella del separatista Sven Knoll, secondo cui “c’è sempre stato uno scambio in cucina; la cucina viennese deriva da quella boema e in Germania si produce molta pizza, eppure non è un prodotto tipico tedesco”. Per il governatore Arno Kompatscher, invece, “il termine ‘italianop non va inteso in senso geopolitico, riferito al territorio nazionale, e la cucina altoatesina è qualcosa di particolare”. L'articolo “I canederli non sono italiani”: scatta la polemica del quotidiano Dolomiten dopo la nomina della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Se mia figlia mangia qualcosa di sbagliato può morire, è stato tremendo quando l’ho scoperto”: parla lo chef Giorgio Locatelli
“Quando esco a cena vado al cinese o al giapponese”. Parola di Giorgio Locatelli. Lo chef stellato giunto alla settima partecipazione filata a Masterchef su Sky, assieme ai colleghi Bruno Barbieri e Antonino Cannavacciulo, si è raccontato in un’intervista al settimanale Oggi. Intervista che ha avuto una breve anticipazione su Dagospia. Di origine varesina, Locatelli vive a Londra dagli anni ottanta e nel 1999 ha ottenuto la sua prima stella Michelin. È nel 2002 che assieme alla moglie apre sempre a Londra la Locanda Locatelli. Sfilano i vip – tra cui Mick Jagger e Kate Moss – fino ad una improvvisa chiusura a inizio 2025. Poi all’interno della National Gallery apre il Bar Giorgio. “Mia moglie Plaxy, che è inglese ed è stata la prima a capire che offrivamo qualcosa di diverso dal tipico ristorante italiano, mi diceva come mostrarmi e che ogni tanto dovevo fare dei compromessi perché il mio lavoro fosse capito”, ha confessato Locatelli. Comunque il disimpegno arriva quando esce la sera a cena: niente cucina francese o italiana (“ho un metro di giudizio, quindi è come se stessi sempre lavorando”) ma solo fornelli e gastronomia orientale. La grande paura è quando sua figlia da piccola scopre di avere intolleranze alimentari. “È stato tremendo perché se mangiava qualcosa di sbagliato poteva morire. Abbiamo lavorato tanto, anche con l’università, per garantire sicurezza. Una volta c’era un giornalista in visita alla Locanda; a un certo punto la bambina è entrata in cucina e tutti si sono tolti il grembiule e l’hanno girato al contrario per evitare contaminazioni, ad esempio se avevano toccato il pesce. Sembrava uno scherzo e quando gli ho spiegato il problema è rimasto impressionato”. L'articolo “Se mia figlia mangia qualcosa di sbagliato può morire, è stato tremendo quando l’ho scoperto”: parla lo chef Giorgio Locatelli proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Non esiste una cucina italiana (ma bene che sia stata premiata)
di Giorgio Boratto L’Unesco ha riconosciuto la Cucina italiana Patrimonio dell’Umanità. Grande risultato ma bisognerebbe sapere che la Cucina italiana formalmente non esiste; noi abbiamo una cucina regionale o meglio dire locale. L’Italia è l’unico paese al mondo che ogni circa 50 km cambia il dialetto e cambiano i sapori della cucina. Per questo l’Italia ha il patrimonio culinario più vario e ricco della cucina mondiale. Tutto è dovuto a secoli di storia e influenze culturali tra le più diverse che hanno dato origine ad una varietà culinaria eccezionalmente ricca e variegata. Così ogni regione e città si caratterizza oltre che per i suoi costumi, opere d’arte, con una propria identità gastronomica. A codificare i menù fu per primo Pellegrino Artusi che raccolse le ricette casalinghe in ordine di portata. Era il 1891 e nasceva così il primo ricettario o manuale di cucina che raccoglieva i piatti che Pellegrino Artusi trovava e provava in viaggio per l’Italia. Erano per lo più ricette casalinghe che gustava e provava per poi descriverle nel suo Manuale pratico per le famiglie: L’Arte di mangiar bene. Fatto salvo che la cucina italiana allora è un’insieme di specificità unite da comunità dei luoghi, allora il riconoscimento dell’Unesco è dato non alle ricette ma al sentimento identitario che accomuna la cucina quotidiana: il preparare pronto in tavola da condividere… A sostenere questo riconoscimento sono stati Pier Luigi Petrillo (Direttore cattedra Unesco UnitelmaSapienza e professore di Cultural Heritage alla Luiss Guido Carli, nonché autore di tutte le candidature all’Unesco legate all’agro-alimentare) e Massimo Montanari (Professore all’Università di Bologna e tra i massimi esperti al mondo in storia dell’alimentazione). Proprio quest’ultimo ha scritto un libro Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro; questo è forse il piatto che unisce l’Italia: il piatto italiano per eccellenza. E così la nostra cucina spazia per diventare cultura e storia. Forza di una cucina immateriale; forza di una italianità che fa diventare italiani chi l’assaggia. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Non esiste una cucina italiana (ma bene che sia stata premiata) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Patrimonio Unesco
“É un’arte di vivere”: la cucina italiana riconosciuta patrimonio mondiale dell’Unesco
La “cucina italiana” è patrimonio culturale immateriale dell’umanità. È stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco riunito a New Delhi (India) a dichiararlo. Si tratta della prima cucina al mondo, intesa come tradizione gastronomica culinaria, ad essere riconosciuta nella sua interezza. Secondo i membri Unesco la “cucina italiana è una miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, ma anche “un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. I membri dell’Unesco si sbilanciano anche in ulteriori considerazioni tra l’antropologico e il culturale. Sempre la “cucina italiana” “favorisce l’inclusione sociale, promuovendo il benessere e offrendo un canale per l’apprendimento intergenerazionale permanente, rafforzando i legami, incoraggiando la condivisione e promuovendo il senso di appartenenza”. E ancora il giudizio si sbilancia anche sull’atto del “cucinare” definita “un’attività comunitaria che per gli italiani enfatizza l’intimità con il cibo, il rispetto per gli ingredienti e i momenti condivisi attorno alla tavola”. Infine c’è pure una lettura etica tanto che nella motivazione ufficiale si citano fantomatiche “ricette anti-spreco” come una “trasmissione di sapori, abilità e ricordi attraverso le generazioni”; la cucina italiana viene quindi definita con un ardire poetico letterario piuttosto enfatico “una pratica multigenerazionale, con ruoli perfettamente intercambiabili che svolge una funzione inclusiva, consentendo a tutti di godere di un’esperienza individuale, collettiva e continuo di scambio, superando tutte le barriere interculturali e intergenerazionali”. UN PATRIMONIO MILLENARIO I dossier inviati all’Unesco erano 60, provenienti da 56 paesi diversi, tra questi quello italiano curato dal giurista Pier Luigi Petrillo e particolarmente apprezzato per “gli sforzi significativi compiuti da organismi rappresentativi chiave come la rivista La Cucina Italiana, l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi”. È sotto il governo Meloni, nel 2023, che la storia della candidatura inizia ufficialmente. Il ministero della Cultura, allora sotto l’egida Sangiuliano, ebbe l’ardire di presentare un dossier dedicato non a un singolo piatto ma a un’intera cultura culinaria, “un rito collettivo di un popolo che concepisce il cibo come elemento culturale identitario”. “Viva l’Italia, viva la cucina italiana”, ha commentato a caldo la presidente del consiglio Giorgia Meloni. “La nostra cucina nasce da filiere agricole che coniugano qualità e sostenibilità. Custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in generazione. Cresce nell’eccellenza dei nostri produttori e si trasforma in capolavoro nella maestria dei nostri cuochi. E viene presentata dai nostri ristoratori con le loro straordinarie squadre”. Meloni chiosa spiegando che questo orgoglio nazionale e i prodotti che lo compongono vanno “protetti con maggiore efficacia da imitazioni e concorrenza sleale”. Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, si è invece dedicato all’elemento antropologico e sociale del riconoscimento, citando perfino il “pranzo della domenica”: “Soltanto il fatto che il nostro stare a tavola, il nostro modo, peculiarmente italiano, di stare insieme, sia erede di tante ritualità, che il nostro ‘pranzo della domenica i nostri momenti conviviali in occasione delle feste, siano elementi di una tradizione antichissima e in evoluzione continua, dice tutto. I nostri piatti sono espressione dei nostri territori, delle nostre radici familiari, che attraversano le generazioni”. L'articolo “É un’arte di vivere”: la cucina italiana riconosciuta patrimonio mondiale dell’Unesco proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Patrimonio Unesco
“Tutti mi chiamano per un’altra cosa, voi per la lasagna ma mi avete fatto aspettare e ora mi tocca mangiarla ghiacciata”: la polemica di Nonna Silvi a La Volta Buona
“Tutti mi chiamano per un’altra cosa che voi mi dite di non dire e io non dico“. Mercoledì 3 dicembre, la puntata de “La volta buona” è stata segnata da una polemica. Nonna Silvi, vincitrice del premio Tiktok awards come migliore creator italiano del 2025, è stata contattata dal programma per spiegare come preparare la lasagna perfetta. La signora toscana ha iniziato il collegamento con Caterina Balivo, conduttrice del programma, con tono spazientito. “Mi fa parlare?“. Nonna Silvi ha subito puntualizzato: “Cavolfiore nella lasagna? Ce lo mettete voi, io non lo metto”. La star dei social ha proseguito raccontando i procedimenti per preparare il piatto tipico della tradizione culinaria italiana. Alla domanda sui tempi di preparazione la signora ha risposto: “Di solito si può fare con calma, oggi mi avete chiamato voi e ho dovuto fare in fretta. Avrei potuto fare con calma visto che ci siamo collegati a quest’ora e a me tocca mangiare la lasagna ghiacciata“. “ASPETTO DA MEZZ’ORA” Nonna Silvi ha rincarato la dose, dichiarando di aspettare il collegamento da mezz’ora. La signora ha smorzato i toni aggiungendo che “questa volta è andata”. La polemica, però, non è finita lì. La nonna d’Italia, infastidita, si è detta sorpresa del motivo per cui è stata contattata da “La volta buona“. “Non credevo mi chiamaste per le lasagne. Gli altri mi contattano per un altro argomento che voi mi avete detto di non dire e io non dirò”. La conduttrice ha invitato la signora a parlare liberamente sui temi “censurati”. Nonna Silvi ha replicato: “Mi hanno detto di non dirlo, certo non è una cosa illegale”. E infine, ripensandoci, la signora ha esclamato: “Ho vinto il Tiktok Awards. Non ho potuto neanche farvelo vedere”. Alla fine le parti hanno fatto pace e nonna Silvi ha fatto venire l’acquolina in bocca a tutti con la spiegazione della sua lasagna tradizionale. L'articolo “Tutti mi chiamano per un’altra cosa, voi per la lasagna ma mi avete fatto aspettare e ora mi tocca mangiarla ghiacciata”: la polemica di Nonna Silvi a La Volta Buona proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Qual è la migliore passata di pomodoro del supermercato? La classifica del Gambero Rosso: al secondo posto una sorpresa
La casa editrice Gambero Rosso ha stilato la classifica delle 5 migliori passate del supermercato. Buono, fresco e veloce, il pomodoro mette tutti d’accordo. Pablo Neruda scrisse un’ode per elogiarlo, Gambero Rosso ha deciso di fare chiarezza e, al tempo stesso, aprire una discussione: qual è la passata in bottiglia più buona? L’indagine condotta dalla casa editrice, specializzata in enogastronomia, è stata svolta sulla base di un blind test, ossia l’assaggio della passata senza conoscere la marca. Gambero Rosso ha provato a indentificare la salsa di pomodoro che, più delle altre, riesce a catturare l’anima di questo ortaggio. RODOLFI QUINTO, A SEGUIRE VITALE Con la sua Fior di passata, il marchio Rodolfi si è piazzato al quinto posto della speciale classifica. L’azienda di Vicofertile, in provincia di Parma, gode di grande successo per la logistica a chilometro zero, fattore che permette a Rodolfi di lavorare con pomodori maturi e non sottoposti a lunghi trasporti. La Fior di passata è stata giudicata come “schietta e caratteristica”, priva della nota acida che contraddistingue questo tipo di pomodoro. In cottura la salsa è sapida, dolce e amarognola al punto giusto. Al quarto posto si è posizionata la “Passata di Pomodoro di Vitale”, società dall’anima vesuviana. Il colore della passata è un rosso lucido e intenso. Il campione che si è sottoposto al blind test ha giudicato le note del pomodoro “legnose e pungenti”, due fattori che si ammorbidiscono con la cottura. Al gusto la “Passata di Pomodoro di Vitale” risulta dolce-acido-sapida, qualità raramente riscontrata in questo speciale confronto tra salse. PETTI È TERZO, AL SECONDO POSTO UNA SORPRESA Gambero Rosso ha assegnato la medaglia di bronzo a Petti. L’azienda di Venturina Terme, in provincia di Livorno, sale sul podio grazie alla sua Passata extrafine. Nonostante l’azienda sia toscana, il pomodoro che ha regalato il terzo posto a Petti proviene dall’agro nocerino sarnese. I giudici hanno elogiato l’azienda livornese per la consistenza compatta e carnosa della salsa di pomodoro. L’acidità acetica non compromette l’incisività delle note fruttate, che rimandano anche alla mela. L’assaggio risulta originale e armonioso. La medaglia d’argento va al collo della bottiglia della salsa di Santa Rosa. La “Pomodorissimo. La Passata di Santa Rosa” ha conquistato i giudici, che hanno assicurato al marchio il secondo posto in classifica. Il claim dell’azienda recita “Tutto il sapore del pomodoro crudo” ma, come riporta Gambero Rosso, la passata sorprende per la sua dolcezza. Il pomodoro ha un gusto fruttato, libero da alterazioni. Il colore è un rosso opaco, meno denso e brillante di altre passate. La semplicità del prodotto di Santa Rosa ha stregato i giudici che, però, hanno assegnato il primo premio a un altro marchio. CIRIO SU TUTTI In cima alla Top 5 delle passate di pomodoro del supermercato stilata da Gambero Rosso c’è la Cirio. La storica azienda torinese, fondata da Francesco Cirio nel 1856, si aggiudica la medaglia d’oro nonostante l’aspetto meno convincente rispetto alle rivali. La passata, infatti, è caratterizzata dalla separazione tra l’acqua della vegetazione e la polpa. A fare la differenza sono le note di pomodoro maturo nitide all’olfatto e al gusto, senza risultare spigolose. L’acidità è ordinata. la setosità della passata dona piacevolezza. Un mix di gusti e sapori che hanno reso Cirio la passata più buona di tutte. L'articolo Qual è la migliore passata di pomodoro del supermercato? La classifica del Gambero Rosso: al secondo posto una sorpresa proviene da Il Fatto Quotidiano.
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