A cura di Aldo Andrea Presutto*
C’è un tempo nel lavoro somministrato che non si vede, ma pesa sulla vita di chi
lavora. È il tempo dell’attesa: quando il lavoratore non è ancora in missione,
non ha compiti concreti eppure deve restare pronto in vista di una eventuale
chiamata. Un tempo sospeso e imprevedibile, fuori dal suo controllo. Può durare
ore, giorni o settimane, ma in quel tempo il lavoratore non può organizzare
liberamente la propria giornata né programmare altre attività.
La legge tutela questo periodo con un diritto semplice ma fondamentale:
l’indennità di disponibilità. Si tratta di un compenso riconosciuto per il solo
fatto di essere pronto in caso di chiamata per lavorare. Riconosce il valore del
tempo dell’attesa e sottolinea che la disponibilità del lavoratore è parte
essenziale del funzionamento del sistema di somministrazione.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 7853 del 2025 ha riportato l’istituto al
centro del dibattito, chiarendo con precisione significato e portata. Il caso
riguardava l’Agenzia Ali, che durante la pandemia aveva sospeso i rapporti di
lavoro e smesso di pagare l’indennità, puntando invece sulla cassa integrazione
in deroga. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva contestato questa scelta,
sostenendo che la mancata corresponsione dell’indennità violava le norme di
tutela dei lavoratori. L’agenzia, dal canto suo, sosteneva che non esistesse un
obbligo generalizzato e che, non applicando il contratto collettivo nazionale,
fosse libera di ignorare il pagamento.
Il Consiglio di Stato ha respinto queste argomentazioni con decisione, ribadendo
che l’indennità è un diritto previsto dalla legge, indipendente da contratti
collettivi o regolamenti interni dell’azienda. Nessuna regola interna può
cancellarla. Il lavoratore ha diritto al compenso per tutto il periodo in cui
resta in attesa di una missione, non solo per i quindici giorni eventualmente
previsti da regole aziendali. La contrattazione collettiva può definire quanto
spetta, mai se spetta.
E non si tratta di un rimborso eventuale: l’indennità è parte integrante della
retribuzione, incide sui contributi e rientra pienamente nel sistema degli
istituti economici previsti per il lavoro somministrato.
La sentenza ha chiarito anche il ruolo essenziale dell’Ispettorato. Il suo
intervento non tutela solo i diritti dei singoli lavoratori, ma garantisce la
correttezza e l’equilibrio dell’intero mercato. Se un’agenzia elude l’indennità,
il danno non ricade solo su chi è in attesa, ma sulla credibilità e sul
funzionamento del sistema della somministrazione. L’Ispettorato diventa così il
presidio della legalità sostanziale: uno strumento che rende effettive le norme
di protezione e impedisce che la flessibilità si trasformi in precarietà senza
regole.
Il messaggio della Corte è chiaro: la flessibilità non può implicare vuoto di
tutele. Il lavoratore in disponibilità non è “in pausa”, è parte importante del
sistema stesso della somministrazione. Eliminare l’indennità significherebbe
trasformare l’attesa necessaria in subordinazione senza reddito, un risultato
contrario alla legge e alla logica stessa della somministrazione.
Questa pronuncia parla a tutti, non solo alle agenzie. Ricorda che un modello di
lavoro flessibile funziona solo se accompagnato da garanzie solide e non
negoziabili. L’indennità di disponibilità protegge chi è più vulnerabile, chi
resta pronto a partire anche quando non ha compiti immediati. È una tutela
invisibile ma indispensabile, che riconosce il valore del tempo dell’attesa e
sostiene l’equilibrio del lavoro somministrato.
*Abilitato all’esercizio della professione forense, con oltre dieci anni di
esperienza nel settore legale delle agenzie per il lavoro. Svolge attività di
consulenza e divulgazione scientifica
L'articolo Lavoro somministrato, l’indennità di disponibilità è un diritto: la
sentenza del Consiglio di Stato parla a tutti proviene da Il Fatto Quotidiano.