Geely Italia entra nel mercato italiano con una scelta in controtendenza per il
nostro Paese: l’80% del top management del brand è composto da donne. Su sei
ruoli chiave strategici di prima linea, uno solo è ricoperto da un uomo mentre
gli altri cinque sono guidati da manager in rosa: la conferma di un approccio
basato sulle competenze e sui percorsi professionali, più che sul genere.
Un dato che assume ancora più rilevanza se confrontato con il panorama italiano,
dove la presenza femminile nei ruoli apicali resta limitata. Le donne
rappresentano infatti circa il 22% dei dirigenti in Italia, un segnale di come
la parità nelle posizioni di vertice sia ancora lontana dall’essere raggiunta.
Il progetto italiano di Geely nasce in un momento di profonda trasformazione
dell’automotive, tra elettrificazione, digitalizzazione dei servizi e nuovi
modelli di mobilità. In questo contesto, l’azienda interpreta il cambiamento
anche sul piano organizzativo e culturale, adottando un modello di lavoro
flessibile e orientato alle persone.
A supportare lo sviluppo del brand in Italia c’è Jameel Motors, partner
distributivo internazionale che porta un sistema di valori fondato su
meritocrazia, rispetto e crescita continua. Questi principi si traducono in
scelte concrete: smart working esteso, sedi operative a Roma e Milano pensate
come hub di collaborazione e politiche di welfare che favoriscono equilibrio tra
vita professionale e personale.
Un messaggio chiaro: il cambiamento del settore auto, come pure di altri
comparti industriali verrebbe da dire, passa anche dalle persone e dai modelli
con cui si sceglie di affrontarlo. Se poi è un cambiamento che passa per il
gentil sesso, ben venga.
L'articolo In un Paese di manager uomini, Geely Italia decide di andare
controcorrente proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Io lavoro, tu lavori, lei lavora. Poi lei cucina, lava, accudisce. E alla fine
del mese, a conti fatti, guadagna meno. In Italia il carico della cura pesa
ancora sulle spalle delle donne. Che il più delle volte sono penalizzate anche
in ufficio. Lo dimostrano gli studi sulle discriminazioni di genere al lavoro:
le donne sono più preparate e si laureano prima, ma hanno carriere più
discontinue. Gestiscono un carico familiare superiore, eppure percepiscono
redditi più bassi. Fanno figli quanto gli uomini, ma rischiano maggiormente di
perdere il lavoro. Le conseguenze sono innanzitutto economiche: se l’Italia
allineasse i benchmark europei su occupazione giovanile, femminile, stranieri,
partecipazione 60-69enni, secondo il Welfare Italia Index 2025 presentato a
novembre, si attiverebbe un incremento occupazionale di circa 2,8 milioni di
unità con una crescita del Pil fino a 226 miliardi di euro, +10,6% rispetto ai
livelli attuali. Oltre l’82% delle donne che non lavorano, secondo un report di
ottobre dell’Organizzazione internazionale del lavoro e di Federcasalinghe, lo
fa per dedicarsi alla cura familiare. Questo le impegna per un numero di ore
settimanali superiore a quello di un impiego retribuito. Un impegno che riguarda
anche le lavoratrici: come emerge dal report, l’Italia è il secondo Paese
dell’Unione Europea dopo il Portogallo per il tempo dedicato dalle donne al
lavoro non pagato. Con un carico di oltre 5 ore al giorno.
La situazione peggiora drasticamente con l’arrivo dei figli: “Le donne occupate
nel settore privato subiscono un marcato calo dei redditi, mentre per gli uomini
si osserva una crescita continua”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Maria De Paola,
professoressa di Politica Economica all’università della Calabria in congedo e
dirigente presso la Direzione Centrale Studi e Ricerche Inps. Secondo gli studi
dell’ente previdenziale, nel settore privato le madri registrano, nell’anno
della nascita, una riduzione fino al 76% dei redditi annui percepiti, con un
recupero solo parziale negli anni successivi. Non solo. “Prima della nascita del
figlio la probabilità di uscita dal settore privato è simile per uomini e donne
(circa 10,5-11% per le donne e 8,5-9% per gli uomini), mentre nell’anno della
nascita la probabilità aumenta bruscamente per le donne, raggiungendo il 18%, e
scende all’8 per cento per gli uomini”.
Come segnalano le indagini sugli stereotipi di genere, sul divario pesano ancora
fattori culturali. Ma anche la carenza di strumenti di conciliazione,
strutturati come se riguardassero soltanto le donne: “Basti pensare all’esiguità
del congedo di paternità, alla resistenza ad introdurre incentivi per la
condivisione di quello genitoriale, all’‘opzione donna’ legittimata in quanto
sono le donne a doversi far carico eventualmente della cura dei nipoti”,
sottolinea a Ilfattoquotidiano.it Chiara Saraceno, sociologa della famiglia e
filosofa. Così la cultura d’impresa e il modello tradizionale di lavoro
continuano a penalizzare di più le donne: “Si basano su un’idea di lavoratore
libero da responsabilità di cura, un lavoratore che può delegare quella
responsabilità a qualcun altro: nello specifico, a una donna”.
L’impatto è innanzitutto economico. Il tasso di occupazione femminile in Italia
è pari al 57,4%, sotto la media Ue di oltre 13 punti. Si tratta di un dato che
ha conseguenze sia individuali, sia collettive. Da un lato infatti le donne sono
maggiormente esposte al rischio di esclusione sociale e povertà, dall’altro
questa esclusione ha conseguenze anche sul Pil e sulla tenuta economica del
Paese. Sarebbe poi più preciso dire che il 57,4% delle donne ha un lavoro
retribuito. Se si considera anche il lavoro di cura non stipendiato, infatti, i
dati cambiano: il 92% delle donne svolge almeno un’attività di cura o lavoro
domestico nel corso della giornata, contro il 75% degli uomini. Secondo De
Paola, il riconoscimento economico non sarebbe una soluzione strutturale
sostenibile: “Retribuire formalmente il lavoro domestico e di cura richiederebbe
risorse significative. Inoltre, non servirebbe ad eliminare gli squilibri che si
osservano attualmente sul mercato del lavoro”. La priorità è intervenire su quei
gap: “È necessario promuovere politiche volte ad accrescere la produttività e
incentivare l’innovazione, creando lavori di qualità, e allo stesso tempo
favorire il superamento della segregazione settoriale e degli stereotipi che
ancora limitano le carriere femminili”.
Più che retribuire la cura privata, insomma, secondo le esperte si dovrebbe
innanzitutto redistribuirla: renderla una responsabilità collettiva e condivisa
tra uomini e donne, ma anche tra famiglie, stato e imprese. Ad esempio
agevolando misure come il lavoro da remoto o a tempo ridotto per entrambi i
neogenitori. Questi dispositivi, però, spesso rimangono appannaggio delle sole
donne, divenendo di fatto nuovi deterrenti per la carriera: “Il diritto a
prendere il part-time in forma reversibile nei primi anni di vita del bambino
sia per i padri che per le madri costituisce una forma di flessibilità
auspicabile, che aumenta i gradi di libertà. In pratica però, anche dove questa
possibilità esiste, come ad esempio in Olanda e Germania, sono comunque più
spesso le donne a farlo”, spiega Saraceno.
In Italia, circa il 31,5% delle donne occupate lavora part-time, una quota
significativamente più alta rispetto all’8,1% degli uomini. La riduzione delle
ore in ufficio spesso è un’arma a doppio taglio: blocca sia gli stipendi, sia la
progressione di carriera, e a volte arriva giocoforza dopo i figli. “Difficile
distinguere tra part-time volontario e involontario, ma in alcune regioni esso
raggiunge dimensioni davvero preoccupanti. Ad esempio in Calabria circa il 64%
delle donne occupate nel settore privato ha un contratto part-time”, racconta De
Paola. Ma quando orari ridotti o lavoro da remoto non vengono concessi, cresce
il rischio di abbandonare l’occupazione.
La condizione lavorativa delle donne con figli è resa più fragile anche dalle
disparità economiche pregresse. E a volte gli strumenti di sostegno si
trasformano in veri e propri boomerang: “Le misure che si basano su una prova
dei mezzi familiare, pur avendo una loro giustificazione, presentano il rischio
di scoraggiare l’occupazione femminile nei ceti più modesti e per le donne con
alti carichi familiari e bassa qualifica”, spiega Saraceno. Come l’assegno unico
per i genitori lavoratori: “Il coefficiente aggiuntivo introdotto è troppo
modesto per contrastare questo rischio”. Un discorso che resta immutato alla
luce dell’ultima legge di Bilancio: la decontribuzione fiscale per le imprese è
prevista solo in caso di assunzione di donne svantaggiate o madri di tre o più
figli piccoli, si incentiva la trasformazione dei contratti full time in
part-time per lavoratrici con 3 o più figli minori, e si riserva alle
lavoratrici a basso reddito, madri di 2 o più figli minori, un assegno
integrativo mensile di 60 euro.
La percezione, come testimoniano le storie delle donne che dopo essere diventati
madri hanno perso il lavoro, è che manchino servizi pubblici e misure di
sostegno. Per questo, spiegano le esperte, è fondamentale una risposta
istituzionale. “Occorre migliorare le condizioni di vita complessive, fornendo
un quadro di stabilità e continuità delle politiche, invece di interventi
frammentati e una tantum“, sottolinea Saraceno. Superando la logica dei bonus e
delle mance: “I servizi sono più efficaci dei trasferimenti monetari. È
importante il sostegno all’occupazione delle donne e in particolare delle madri,
ma servono anche forme di congedo disegnate per agevolare la condivisione delle
responsabilità di cura tra madri e padri fin dalla prima infanzia”. E che
incoraggino entrambi i genitori a ricorrervi equamente: “Il divario
nell’utilizzo – specifica De Paola – è ancora molto ampio. Nuove politiche di
conciliazione tra vita e lavoro, insieme ad interventi per la riduzione del
gender wage gap, restano fondamentali”.
L'articolo Il lavoro domestico in Italia è ancora a carico delle donne:
discriminate, non pagate e costrette a ruoli di cura proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Il mio sogno non era stare a casa a badare ai figli, non era questo che
immaginavo da ragazzina”. Federica (nome di fantasia, ndr) ha la voce ferma
mentre racconta a ilfattoquotidiano.it di aver lasciato il lavoro. È sicura
quando spiega le ragioni economiche che l’hanno spinta a farlo. La voce si
incrina solo quando rivela che ricorderà per sempre i pensieri di quel giorno:
“Ora sarò solo una madre?”. C’è un passaggio de La donna gelata, uno dei romanzi
auto-finzionali della premio Nobel Annie Ernaux, in cui la protagonista realizza
l’ingiustizia di un carico di mansioni domestiche che ricade esclusivamente su
di lei. Proprio come nei dettati della sua infanzia, la separazione dei ruoli è
diventata, suo malgrado, chiara: “Papà va al lavoro, mamma prepara un buon
pranzetto”. Siamo negli anni Settanta francesi, qualcosa da allora è cambiato.
Eppure, come testimoniano i dati e le storie, il lavoro di cura è ancora un
affare per sole donne. Anche in Italia, complici i fattori culturali ed
economici, ma anche l’insufficienza delle misure politiche di conciliazione.
In Italia circa il 31,5% delle donne occupate lavora part-time, una quota
significativamente più alta rispetto all’8,1% degli uomini. La riduzione delle
ore in ufficio può penalizzare la carriera, ed è difficile comprendere quando
sia “volontario” e quando diventi una forma di discriminazione. Tuttavia,
insieme al lavoro da remoto, è uno degli strumenti che se esteso a entrambi i
genitori può agevolare la redistribuzione del carico. E soprattutto scongiurare
la possibilità che le neo-mamme abbandonino l’occupazione, un rischio che sale
al 18% per le donne nell’anno della nascita del figlio (per i padri scende
all’8).
“Lavoravo in una grande azienda di Milano, nel settore della moda. Quando sono
rimasta incinta del primo figlio, e poi del secondo poco dopo, ci siamo
ritrovati con due bimbi piccolissimi e nessun aiuto concreto”, racconta
Federica, che oggi ha 32 anni. “Mia madre ha problemi di salute, i suoceri
vivono lontano. Ho chiesto un part-time, ma l’azienda me l’ha negato: non lo
concedono a nessuno”. Nel primo anno, tra solitudine e senso di inadeguatezza,
Federica lascia il lavoro e teme di aver perso anche la propria identità. La
depressione post partum fa il resto.
Con due figli nati a un anno di distanza e una rete di sostegno insufficiente,
la decisione di licenziarsi arriva dopo un calcolo preciso: “Tra nido e
baby-sitter ci sarebbero voluti circa 650 euro al mese per bambino, più del mio
stipendio: prendevo 1.200 euro. A conti fatti, conveniva che restassi a casa”.
Federica faceva la sarta per un marchio del lusso, un lavoro intenso, spesso
legato alle sfilate: “C’erano periodi in cui facevamo straordinari infiniti,
anche di sera o nei weekend. Era impensabile gestire due bambini piccoli così”.
A complicare tutto, anche la difficoltà di accedere ai nidi comunali. “Quando è
nato il primo figlio avevo fatto richiesta al Comune di Milano, ma non mi hanno
dato il posto: con un solo bambino non avevo abbastanza punti. Avrei dovuto
pagare un nido privato ma i costi sono esorbitanti, soprattutto per i lattanti”.
La scelta di lasciare il lavoro a quel punto è ricaduta su di lei per ragioni
economiche pregresse: “Sicuramente se mio marito avesse guadagnato meno di me o
io avessi avuto più prospettive di crescita sarebbe andata diversamente”.
Mentre parla è molto lucida, ma anche arrabbiata. “Non è giusto che si debba
scegliere. Conosco mamme e papà che quasi non vedono crescere i propri figli,
perché quando torni dal lavoro a tempo pieno i bambini sono già a letto. È
l’altro lato della medaglia, ed è altrettanto drammatico”. Per questo, secondo
lei, una soluzione potrebbe essere il part-time garantito ad almeno uno dei
genitori: “L’orario ridotto dovrebbe essere pensato come un diritto per il
bambino, per la sua salute psicologica. Non importa che sia il padre o la madre,
uno dei due deve esserci”.
E per esserci, a volte, basterebbe poter lavorare da casa. “Nella multinazionale
in cui lavoravo, i colleghi uomini facevano lo smart-working in modo ufficioso.
A me è sempre stato negato, nonostante avessi due figli”, racconta Martina, 38
anni. “Finché non avevo figli, le cose andavano bene, ma già allora si percepiva
una mentalità maschilista: le donne restavano perlopiù in ruoli di segreteria,
gli uomini facevano carriera”.
Dopo il primo figlio Martina torna in ufficio con l’orario ridotto per
l’allattamento e non le viene più affidato nessun progetto. Da lì, un altro
figlio, il crescente demansionamento e le discriminazioni: “Dopo la seconda
maternità non ho più trovato nemmeno la mia scrivania. Sono stata isolata finché
non sono riuscita a farmi licenziare, dopo un’azione legale non andata a buon
fine”. Perché dimostrare il mobbing a livello legale, spiega, “è molto
difficile, le registrazioni non hanno valore”. Martina però ricorda ogni
dettaglio: “La responsabile delle risorse umane mi disse che la mia vita privata
non interessava all’azienda e che non avrei dovuto chiedere nemmeno permessi per
i figli”.
Secondo lei, oltre al problema culturale, c’è di base un sistema che non
funziona. “Gli incentivi non sono sufficienti, gli asili sono pochi o cari, le
aziende non collaborano… si lamentano dell’inverno demografico, e poi nessuno ci
aiuta nella crescita e nella gestione dei figli”. E così chi ha più difficoltà
economiche rimane indietro: “Non tutti possono permettersi un aiuto in casa.
Quando i bambini stavano male più di uno o due giorni ero costretta a chiedere
le ferie per stare con loro. Mi sarebbe bastato poter avere lo smart working”.
In entrambe le storie, i periodi ipotetici sono tanti: “Se ci fosse stato un
asilo nido accessibile, o se mi avessero concesso il part-time, avrei continuato
volentieri a lavorare”, ammette Federica. “È assurdo che lo stato ti spinga a
fare figli e poi non ti metta nelle condizioni migliori per prendertene cura”.
L'articolo “Dopo il secondo figlio mi hanno negato il part-time: ho dovuto
licenziarmi”. “Al rientro non avevo più scrivania”: storie di maternità e
discriminazioni proviene da Il Fatto Quotidiano.