Avete mai sentito parlare di carbon bubble e stranded asset? Forse no,
legittimamente. Basti dire che per la loro portata rivoluzionaria c’è chi ha
proposto di assegnare il premio Nobel per l’Economia a chi ha introdotto questi
concetti. Sono stati anche alla radice del movimento per il fossil fuel
divestment, il più grande fenomeno dal basso di sempre nella storia della
finanza etica.
Nel 2011 il think tank britannico Carbon Tracker, una non profit, pubblicò lo
studio Unburnable Carbon. Il rapporto diceva che il mondo già allora aveva
utilizzato una quota cospicua del carbon budget rimanente. Vale a dire della
quantità di carbonio che può essere ancora emessa per mantenere il riscaldamento
globale entro certi limiti, cioè il famoso +2°C rispetto all’era
pre-industriale, poi acquisito dall’Accordo di Parigi del 2015.
Per stare dentro quel budget, si può bruciare solo una determinata quantità di
combustibili fossili, mentre le riserve accertate di combustibili fossili
scritte nei libri contabili delle società fossili eccedono di molto tale
quantità. C’è dunque un eccesso di combustibili fossili che non si può bruciare
e un eccesso di valore scritto nei libri contabili. Da cui la carbon bubble
(bolla del carbonio), che prima o poi scoppierà, e gli stranded asset
(investimenti incagliati) legati allo sfruttamento di quei combustibili fossili
in eccesso, che prima o poi dovranno essere svalutati.
Mark Campanale è il fondatore di Carbon Tracker. È anche nel Comitato direttivo
del Fossil fuel Treaty, l’iniziativa per un Trattato globale di
Non-Proliferazione dei combustibili fossili. Ho avuto il piacere di incontrarlo
in qualche occasione. Quando un personaggio con questa storia alle spalle e con
queste competenze si scomoda per dire qualcosa, beh, è saggio ascoltarlo. Dal
punto di vista finanziario e anche reputazionale.
Giorni fa l’opinione di Mark Campanale è stata riportata da una rivista
britannica sul settore pensionistico. L’argomento era il modello con cui il
fondo pensione West Yorkshire Pension Fund (Wypf) valutava i rischi legati alla
crisi climatica e il loro potenziale impatto sul fondo, che ha oltre 300mila
iscritti e gestisce asset per circa 20 miliardi di sterline. In sostanza il
fondo prevedeva di poter ottenere buoni rendimenti anche – udite udite – in uno
scenario climatico +4°C. Cioè in un inferno climatico.
Le previsioni del fondo erano state criticate dalla campagna Fossil Free Wypf,
che dal 2015 chiede che il fondo disinvesta completamente dalle fossili. Mark
Campanale ha detto che un modello che giunge a risultati del genere è molto
debole. Che l’idea di un’economia che cresca in uno scenario +4°C cozza con le
prove scientifiche. Che tale approccio può portare a scarsi risultati di
investimento. E che solleva dubbi sulla capacità del fondo di proteggere le sue
performance di lungo termine, cioè di fare gli interessi degli iscritti.
La questione è arrivata alle orecchie di rappresentanti politici locali e
nazionali, che hanno criticato il fondo pensione. Il tutto è stato amplificato
dal fatto che in Uk è in corso una riforma dei regimi pensionistici degli enti
locali (Lgps), cui Wypf appartiene. Il fondo si è detto consapevole del fatto
che il modello semplificava eccessivamente e ha annunciato che lo avrebbe
migliorato. Di fatto un mea culpa.
La mia domanda è: a quando in Italia una campagna che metta il fiato sul collo
su un fondo pensione perché disinvesta dalle fossili? Quando le decisioni di un
fondo pensione innescheranno un dibattito pubblico, obbligando i rappresentanti
politici a prendere posizione? Quando si capirà che le scelte di un fondo
pensione e in generale degli attori finanziari sono cruciali per contrastare il
collasso climatico?
Anni fa a un convegno sulla finanza etica ascoltai un docente universitario che
fra i tanti prestigiosissimi ruoli che ricopriva ne aveva uno apicale
all’interno nientemeno che di Ipcc. Disse che, a chi gli chiedeva che c’azzecca
la finanza col clima, rispondeva: “Tutto”.
Chi è iscritto a un fondo pensione o ha comunque investimenti finanziari, specie
se si augura per figli o nipoti un futuro senza inferno climatico, è ora che
chieda a chi glieli gestisce: hai mai sentito parlare di carbon bubble e
stranded asset? Come rinforzo suggerisco le parole del Segretario generale
dell’Onu, Antonio Guterres: “Investire in nuove infrastrutture per i
combustibili fossili è una follia morale ed economica“.
L'articolo Uk, una campagna spinge un fondo pensione a disinvestire dalle
fossili: a quando in Italia? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Combustibili Fossili
Quella che si è appena conclusa a Belém, in Brasile, doveva essere la Conferenza
delle Parti sul Clima della concretizzazione. Non è stato così, certamente per
quanto riguarda la “transizione dalle fonti fossili”: è stato impossibile
mettere insieme 194 Paesi che, insieme, non hanno mai camminato e non lo faranno
nei prossimi decenni. Alla Cop30 molte maschere sono cadute, fuori e dentro
l’Europa. C’è una riorganizzazione di alleanze trasversali. Arabia Saudita,
Russia e gli altri petro-Stati, ormai non più padroni di casa delle Cop, si sono
opposti in modo palese a concreti passi in avanti. Altri 86 Paesi chiedevano una
roadmap, ossia una tabella di marcia chiara per l’uscita dai combustibili
fossili (neppure citati nel documento finale), iniziativa partita dal Brasile e
poi sostenuta anche dall’Unione europea, ma con una serie di nazioni restie a
prendere posizioni (come l’Italia), altre che prima si sono esposte e poi hanno
fatto dietrofront. Dopo un clima diventato sempre più teso, tra piogge
tropicali, manifestazioni con migliaia di persone in piazza, la protesta degli
indigeni che è arrivata fino alle sale dove si svolgono i negoziati, un incendio
tra i padiglioni e le aspettative – altissime – che mano a mano si abbassavano,
si è arrivati allo scontro. Duro e inevitabile. E altri Stati hanno puntato i
piedi. Sono quelli che hanno scritto alla presidenza della Cop30 ponendo un veto
sul riferimento esplicito alla roadmap, proposta che mette insieme Paesi ricchi
e in via di sviluppo, le principali nazioni europee ma, anche qui, non l’Italia.
E 24 nazioni hanno firmato l’iniziativa di Colombia e Paesi Bassi di organizzare
una prima conferenza internazionale ad hoc sulla transizione dai combustibili
fossili a Santa Marta, in Colombia, ad aprile 2025. Multilateralismo è stata una
parola chiave della Cop ma, se avrà un contenuto, è tutto da stabilire.
TENSIONE FINO ALL’ULTIMO MINUTO
La tensione è andata avanti fino all’ultimo minuto. I lavori della plenaria sono
stati sospesi dopo una rivolta da parte di delegati di alcuni Paesi che si sono
lamentati dell’approvazione di documenti senza un accordo. A vertice chiuso, il
presidente della Cop, André Correa do Lago, l’ha riaperta, dicendo di essere
stanco e scusandosi per non aver colto le obiezioni sollevate dalla Colombia e
da altri Paesi, tra cui Uruguay e Cile, riguardo il mancato inserimento di un
obiettivo definito per l’abbandono dei combustibili fossili nel testo delle
conclusioni. Do Lago ha spiegato di aver consultato gli avvocati, i quali
affermano che l’accordo che è stato approvato non può essere riaperto per
inserire un linguaggio più forte sui combustibili fossili. Ma la Colombia è
determinata e ha fatto sapere che consulterà i propri avvocati.
PASSI IN AVANTI SULL’ADATTAMENTO
La Cop30 è stato il primo vertice sul clima dopo che il mondo ha registrato un
intero anno con temperature superiori a 1,5 °C. E forse anche questo ha pesato
su uno dei pochi risultati concreti. Riguardo alla finanza climatica, infatti, i
paesi ricchi si sono impegnati a triplicare i finanziamenti per l’adattamento
nell’ambito del Nuovo obiettivo di finanza climatica (NCQG) deciso alla Cop 29,
da 300 miliardi di dollari entro il 2035. I Paesi in via di sviluppo avrebbero
preferito entro il 2030, resta il fatto che si tratta di circa 120 miliardi di
dollari dell’obiettivo di 300 miliardi destinati a misure di adattamento nei
paesi più vulnerabili. Alla Cop 30, poi, sono stati promessi 135 milioni di
dollari al Fondo per l’adattamento. Mentre la Roadmap Baku-Belem ha definito un
piano per aumentare i finanziamenti globali per il clima al almeno 1,3 trilioni
di dollari all’anno entro il 2035 (obiettivo già concordato a Baku). Sono stati
poi promessi 300 milioni di dollari per il Piano d’Azione Sanitario di Belém per
sostenere l’adattamento del settore sanitario ai cambiamenti climatici.
NON C’È ACCORDO SULL’USCITA DALLE FOSSILI, MA PASSI IN AVANTI SU ADATTAMENTO
È difficile dire che cosa voglia davvero dire il presidente brasiliano, Luiz
Inácio Lula da Silva, affermando che alla Cop30 “la scienza ha prevalso, il
multilateralismo ha vinto”. Certo è che, a dieci anni dall’Accordo di Parigi e a
due anni dal testo finale della Cop23 di Dubai, con cui tutti i Paesi si
impegnavano per una graduale “transizione dai combustibili fossili”, alla Cop30
organizzata in un paese amazzonico non si riescono neppure a citare i
combustibili fossili nel documento finale, la Mutirão Decision. Non è stato
accolto l’appello del presidente Lula e di oltre 80 Paesi per una roadmap su
fossili e deforestazione ma – con una scelta controversa e contraddittoria – si
conferma la traiettoria tracciata nel documento finale (e storico) del 2023, nel
quale per la prima volta si citavano eccome i combustibili fossili. Sembra un
secolo fa. A mettersi di traverso, a quanto pare, gli altri Paesi Brics (in
primis Russia e India) e dei Paesi del Golfo. Venerdì, la prima doccia fredda.
Perché dopo l’accelerata che la presidenza sembrava voler dare a questa
Conferenza delle Parti sul clima, nel giorno che avrebbe dovuto chiudere la Cop
sono invece arrivate le versioni aggiornate dei testi negoziali, compresa la
bozza della Mutirão Decision. Un testo che ha scontentato tutti i Paesi più
ambiziosi perché, già quello, non citava la tabella di marcia. La situazione non
è cambiata più di tanto. Alla fine, dunque, nessuna roadmap per i 194, ma alla
Cop si concorda per l’avvio di nuovi processi per accelerare la transizione
energetica, come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5.
La prima però, è un’iniziativa volontaria sotto la guida delle presidenze delle
prossime due Cop (quindi un processo biennale) per discutere di come aumentare
l’implementazione di Ndc, i Contributi determinati a livello nazionale sulla
mitigazione e Nap, ossia i piani per l’adattamento. La Belém Mission to 1.5,
sotto la guida della Cop30 e delle successive due, servirà a capire come
accelerare l’implementazione, la cooperazione internazionale e gli investimenti
nei piani nazionali.
LA POSIZIONE DI PICHETTO E DI MELONI (AL G20 ININFLUENTE)
“La tabella di marcia sulla transizione dai combustibili fossili non è parte del
documento della Cop30 perché metà dei paesi sinceramente non condividevano
questa posizione. Noi, nel merito, valutando poi i contenuti, abbiamo dichiarato
la nostra adesione a sederci e vedere il percorso” ha dichiarato il ministro
dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, parlando con i giornalisti, ribadendo
che, anche all’interno dell’Unione europea ci sono Paesi “per cui il percorso di
transizione dai combustibili fossili è più facile” rispetto all’Italia, perché
possono contare su altre fonti in misura maggiore “dalle rinnovabili come la
Spagna, al nucleare come la Francia”. Nel frattempo, era partito anche il G20 a
Johannesburg, in Sud Africa. Lo scorso anno, il G20 in Brasile non aveva aiutato
la Cop di Baku, in Azerbaigian, ma la speranza era che l’incontro tra Lula, la
presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente
francese Macron e quello sudafricano, Cyril Ramaphosa, potesse aiutare ad aprire
un dialogo con i leader di Paesi come Arabia Saudita e India. Non è andata per
nulla così. Le parole della presidente della Commissione europea, Ursula von der
Leyen, non hanno certo giocato la partita dei Paesi più ambiziosi: “Non stiamo
combattendo i combustibili fossili, quanto le emissioni che derivano dai
combustibili fossili” ha dichiarato, nel chiaro intento di non scontentare
nessuno. E Giorgia Meloni ha dato l’affondo: “Dobbiamo abbandonare una volta per
tutte un dogmatismo ideologico che sta provocando più danni che benefici. In
Europa, ad esempio, sono state fatte in passato scelte che hanno messo in
ginocchio interi settori produttivi, e senza che questo producesse un beneficio
reale sulle emissioni globali”.
L'articolo Alla Cop30 nessuna roadmap sull’addio ai combustibili fossili
(neppure citati). Giù le maschere: Paesi a diverse velocità proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Sono di ritorno da un soggiorno a Shanghai, in Cina, per un convegno
sull’energia e la sostenibilità. Una cosetta un po’ in grande, organizzata, fra
gli altri, dall’Unesco, dal Club di Roma e dall’Università di Scienze
Ingegneristiche di Shanghai. Una maratona di presentazioni e discussioni fra
ricercatori di 15 paesi diversi che mi hanno permesso di capire parecchie cose.
Nel campo della sostenibilità, la Cina ha fatto passi da gigante con il concetto
di “civiltà ecologica” che è oggi una politica ufficiale del governo. L’idea è
che la Natura e l’Economia umana devono mantenersi in armonia l’una con l’altra,
un concetto anche espresso come “Le Due Montagne.” Solo chiacchiere? Direi di
no. Quando i cinesi si mettono in mente di fare qualcosa, di solito la fanno
seriamente.
Non che non si faccia greenwashing in Cina, ma una cosa i cinesi l’hanno capita:
bisogna liberarsi dai combustibili fossili il prima possibile. La Cina importa
quasi tutto il petrolio e il gas che usa, e questo è costoso e rende il paese
strategicamente vulnerabile. Hanno ancora carbone come fonte principale di
energia elettrica, ma è fortemente inquinante e non può durare per sempre.
Quindi, i cinesi hanno capito che l’energia del futuro è rinnovabile e stanno
puntando tutto su quello (incidentalmente, non ho sentito parlare di energia
nucleare al convegno. Mi sembra di capire che ci lavorano sopra per lasciare
aperta la possibilità che un giorno diventi conveniente, ma è una cosa
marginale).
Sulle rinnovabili, il successo cinese è stato a dir poco strabiliante.
L’industria cinese è oggi in grado di produrre impianti fotovoltaici per tutto
il mondo a costi bassi che stracciano ogni altra fonte. Per non parlare delle
batterie, delle auto elettriche, dell’automazione e dell’elettrificazione del
sistema economico in generale. Tutte aree dove la Cina sta guadagnando un
vantaggio tecnologico sull’Occidente che potrebbe presto diventare incolmabile.
E non è tanto questione che loro vanno più veloci di noi: mentre loro vanno
avanti, noi andiamo indietro. Invece di investire nel futuro, ci stiamo
affannando a puntare su tecnologie obsolete ancora basate sui fossili. C’è poco
da dire, avremo quello che ci meritiamo.
Così, la crescita della produzione di energia rinnovabile in Cina è
esponenziale, mentre il carbone è in stallo e se ne prevede un rapido declino
nei prossimi anni. Il piano governativo presentato al convegno prevede di
arrivare al “Net Zero” entro il 2060. Potrebbe essere troppo tardi per evitare
grossi danni a tutto l’ecosistema terrestre, ma ci sono buone possibilità di
accelerare la transizione. I cinesi sono noti per eccedere le aspettative quando
ci si mettono.
Già ora, i risultati si vedono. Una volta, le città cinesi erano note per essere
orribilmente inquinate ma oggi, se passeggiate per Shanghai sui grandi viali
trafficati, potete sentire il profumo delle piante aromatiche che crescono sui
bordi (a parte le zone dove l’odore principale è quello dei ristoranti cinesi!).
I motorini sono tutti elettrici. Le auto private lo sono in gran parte, mentre
il traffico pesante non è ancora elettrificato, ma ci stanno lavorando.
Non me la sono sentita di raccontare ai colleghi cinesi che in Italia sono tutti
convinti che le macchine elettriche sono un imbroglio e prendono fuoco come
fiammiferi. Prima o poi, certe cose le capiremo anche noi.
Come impressione dopo dieci giorni in Cina, a parte le bandiere rosse che
sventolano agli angoli delle strade, la vita dei cittadini cinesi non è diversa
da quella dei cittadini di tutte le grandi città del mondo. Shanghai è molto
grande e affollata, ma è sicura, pulita, vivace e bene organizzata. Nelle zone
centrali, l’aggettivo “mozzafiato” si applica bene all’architettura che ci
trovate. Fra le tante cose, vi potete facilmente imbattere in una danza pubblica
in una piazza, il guǎngchǎng wǔ, dove qualche centinaio di persone si impegnano
tutte insieme per mantenersi in forma e socializzare. È un’atmosfera piacevole
di comunità locale.
Se poi vi piace il cibo cinese, Shanghai è il posto giusto e i ristoranti non
sono per niente cari. Insomma, se avete qualche ragione per andare in Cina, o
semplicemente volete fare un po’ di turismo diverso dal solito, è un viaggio che
vi consiglio caldamente.
Per concludere, al convegno ho presentato i miei risultati sugli effetti del CO2
come sostanza dannosa per la salute umana: un’altra buona ragione per liberarsi
dei combustibili fossili. Trovate una breve discussione in un post precedente.
L'articolo Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle
rinnovabili. Noi invece andiamo indietro proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Enza Plotino
Venticinque miliardi di euro. A tanto ammonta un beneficio odioso che il governo
“riconosce” a chi danneggia l’ambiente. Pubblicato in questi giorni dal
Ministero dell’Ambiente l’aggiornamento dei sussidi ambientalmente dannosi
(SAD), relativo al 2024. Primi fra tutti quelli diretti alle fonti fossili che
da soli contano per 19,2 miliardi di euro. Il documento certifica anzi l’aumento
dei sussidi dannosi piuttosto che la loro progressiva estinzione, come era
previsto dal Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale: lo scorso anno sono
entrati a far parte del sistema incentivante, tra gli altri, il contributo per
la raccolta di legname nell’alveo dei fiumi e quello per l’ammodernamento e
manutenzione degli impianti di risalita e di innevamento artificiale.
Non facciamo neanche più finta di voler risolvere questo vecchio sistema di
aiuti pubblici per chi inquina, anzi, ormai il governo Meloni apertamente
“benedice” e protegge il vastissimo sistema di agevolazioni, incentivi,
esenzioni, condoni che lo Stato italiano concede a tutte quelle attività che
direttamente o indirettamente danneggiano l’ambiente.
Spulciare il catalogo dei SAD, sul sito del Ministero, rende perfettamente la
dimensione del fenomeno e dimostra come esista uno Stato schizofrenico, che
agevola (è il termine giusto) un danno ambientale che invece dovrebbe combattere
con la lotta ai cambiamenti climatici di cui ormai non parla nemmeno più. Esempi
ce ne sono a iosa, come quelli in agricoltura. Ci sono riduzioni fiscali per la
zootecnia da carne, sostegno per i seminativi, premi per pomodori da industria,
sostegno per la zootecnia bovina, incentivi per la zootecnia bufalina.
Basterebbe trasformare il sussidio in meccanismo che subordini la fruizione del
beneficio all’adozione di buone pratiche per “prendere due piccioni, e che
piccioni, con una fava”. Milioni di euro che potrebbero essere utili a
trasformare interi settori in senso biosostenibile e a dare contestualmente un
contributo importante alla lotta ai cambiamenti climatici.
Per non parlare del sistema energetico. Lì vi sono le più eclatanti distorsioni,
visto che gran parte dei meccanismi incentivanti sono sussidi ai combustibili
fossili. Riduzioni delle accise per tutti: energia elettrica, carburanti per
navigazione marittima, aerea e ferroviaria, gas naturale impiegato negli usi di
cantiere ma anche nelle operazioni per l’estrazione di idrocarburi, Gpl per gli
impianti di uso industriale, prodotti energetici per altiforni, differente
trattamento tra benzina e gasolio. E poi fondi per ricerca sugli idrocarburi
(petrolio e gas), fondi per ricerca e sviluppo sul carbone, e i famigerati CIP6.
Questo per parlare solo dei sussidi diretti. Che per quelli indiretti esiste un
ampio capitolo a parte.
Questo governo, non solo ha messo sotto il tappeto tutte le questioni
ambientalmente spinose, ma anzi le ritiene un impiccio fastidioso nel progetto
di favorire il liberismo d’impresa in cui la libertà individuale di produrre,
commerciare e scambiare è sacra e non si “disturba” con lacci e lacciuli. La
questione climatica può soccombere. E il diritto alla salute e a un ambiente
pulito anche.
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L'articolo Sussidi alle fonti fossili, ormai il governo Meloni li ‘benedice’
apertamente proviene da Il Fatto Quotidiano.
Alla Cop 30 del Brasile sale la tensione per i tempi che stringono. E il
presidente André Corrêa do Lago dà un’accelerata puntando a completare “una
parte significativa del lavoro” entro mercoledì, 19 novembre. Sul sito della
Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici sono state pubblicate le
bozze di testo sui temi più caldi di cui a Belém si discute da giorni.
Obiettivo: consultare tutti i gruppi negoziali sui punti di frizione per un
allineamento, ridefinire le bozze e riuscire ad adottare i testi entro domani
sera, quando arriverà anche il presidente Lula. Faranno parte del Belém
Political Package, insieme ai dettagli più tecnici da adottare entro la fine
della Cop. In una nota di sintesi pubblicata domenica dalla presidenza della Cop
si faceva riferimento a “un elevato grado di convergenza e allineamento” tra le
194 Parti, ma finora non è stato trovato l’accordo sulle due grandi questioni,
l’uscita dai combustibili fossili e la finanza per l’adattamento climatico dei
Paesi più vulnerabili. Su cui, però, qualche progresso è stato fatto. La seconda
settimana – quella delle discussioni politiche – è iniziata con il segmento di
alto livello e l’arrivo dei ministri. A Belém è arrivato anche ministro
dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin.
PICHETTO FRATIN: “AMBIZIONE SUL TAGLIO ALLE EMISSIONI, MA SENZA IDEOLOGIA”
E sull’uscita dai combustibili fossili, il ministro sembra avere le idee chiare:
All’assemblea plenaria della Cop, Pichetto Fratin ha ricordato che “l’Italia,
insieme all’Unione Europea” è a Belem per continuare a costruire “quel percorso
ambizioso di riduzione delle emissioni che riteniamo prioritario per la nostra
salute, i nostri territori e la nostra autonomia strategica”. Ma con paletti
precisi: “Lo facciamo nella convinzione, confermata dopo gli ultimi passaggi
anche a Bruxelles, che per avanzare in questo percorso occorre non replicare
approcci ideologici che rischiano di danneggiare i nostri sistemi economici e
sociali”. Dallo stesso palco, il ministro britannico dell’Energia e del Net
Zero, Ed Miliband, ha spronato invece i colleghi dei governi presenti a non
cedere al pessimismo e a non aver “paura” di coloro che negano i cambiamenti
climatici o mirano a una politica del rinvio.
IL ‘BELÉM PACKAGE’ E LA ‘MUTIRÃO DECISION’
Una prima parte del Belém Package, con le decisioni politiche, dunque, dovrebbe
essere adottata già mercoledì in seguito al Mutirão, la grande sessione
collettiva (ispirata alla tradizione brasiliana) con ministri e capi delegazione
per cercare punti di convergenza. Le questioni più tecniche, invece,
costituiranno la seconda parte, da approvare entro la fine della Cop. E una
delle bozze pubblicate dalla presidenza riguarda proprio la Mutirão Decision, il
testo politico che dovrebbe comprendere i quattro temi su cui è ruotato il
negoziato finora: la finanza climatica e il ruolo dei donatori, le misure
unilaterali sul commercio (leggi guerra della Cina al Cbam europeo), la risposta
alla mancanza di ambizione degli Ndc (Piani di riduzione delle emissioni a
livello nazionale) e i rapporti biennali sulla trasparenza. Si tratta dei temi
su cui alcuni Paesi vogliono dettare condizioni prima di dare il loro sostegno
alla grande scommessa della Cop 30.
LE SFIDE PRINCIPALI: L’USCITA DAI COMBUSTIBILI FOSSILI
Il punto politico più atteso della settimana, infatti, è certamente un accordo
su un percorso, una roadmap credibile, che acceleri la transizione dai
combustibili fossili nei prossimi anni, nel rispetto del principio di
responsabilità comuni ma differenziate. Un obiettivo che darebbe per la prima
volta concretezza all’impegno preso alla Cop di Dubai del 2023 in un testo
passato alla storia sulla “transitioning away from fossil fuels” che – già
frutto di un compromesso rispetto al “phase out” che il Sud del mondo si
aspettava – oggi molti Paesi vorrebbero dimenticare. Quella della roadmap è
un’idea della ministra dell’ambiente brasiliana, Marina Silva. Cresce il
sostegno alla proposta: 62 Paesi hanno espresso appoggio, ma un accordo resta
complesso. Tra i sostenitori ci sono Francia, Danimarca, Regno Unito, Germania,
Messico, Kenya, Colombia, Corea del Sud, ma sono contrari i Paesi Arabi e sono
da convincere Cina e India. Nella bozza appena pubblicata “ci sono due opzioni.
Una è quella di avere un tavola rotonda ministeriale – spiega Luca Bergamaschi,
direttore esecutivo e cofondatore del think tank Ecco – che possa dare il via
allo sviluppo di percorsi di transizione per superare progressivamente la
dipendenza dai combustibili fossili”. Ed è la richiesta formulata da Lula. “La
seconda è di stabilire un momento annuale – aggiunge Bergamaschi – per vedere
dove si è arrivati sugli Ndc e affrontare il divario emissivo per allinearli
all’obiettivo di non superare la soglia di 1,5°, includendo l’accelerazione
della transizione dalle fossili”. Sul sostegno dell’Italia alla road map valgono
le parole di Pichetto, a margine del suo intervento alla Cop: “Dipende dalla
road map. Se prevede a chiusura delle centrali a carbone per tutti al 2035 la
sottoscrivo”. In questo contesto, però, la Corea del Sud ha annunciato il suo
piano di abbandonare il carbone e di aderire alla Powering Past Coal Alliance,
un gruppo di governi e aziende impegnati a eliminarlo gradualmente. Australia e
Indonesia, che potrebbero ospitare la Cop 31, sono attualmente i suoi principali
mercati. Senza progressi su questo punto, la percezione sarà quella di una Cop
fallita sulla questione chiave, anche se più controversa, data la situazione
geopolitica.
LA FINANZA SULL’ADATTAMENTO CLIMATICO
Il secondo tema centrale di questo vertice è quello del finanziamento per
l’adattamento climatico e riguarda, in particolare, l’adozione di una lista di
indicatori per valutare i progressi sull’Obiettivo Globale sull’Adattamento, che
dovrebbe essere adottato alla Cop 30. Ma gli indicatori arrivati alla Cop 30,
tra l’altro dopo un lungo lavoro di tagli e cuci, sono comunque un centinaio.
Troppi. Un altro problema riguarda il finanziamento stesso. Come certificato dal
Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) attraverso l’Adaptation Gap
Report 2025, a fronte di un fabbisogno per l’adattamento dei Paesi in via di
sviluppo di oltre 310 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, questa cifra è
12 volte superiore agli attuali flussi. I Paesi in via di sviluppo chiedono che
il pacchetto finale contribuisca a ristabilire un equilibrio tra finanza per
l’adattamento, mitigazione e perdite e danni all’interno del nuovo Obiettivo
Globale Collettivo di Finanziamento di 300 miliardi di dollari all’anno, per poi
mobilitarne 1300 l’anno entro il 2035, con un impegno ad ampliare
significativamente il sostegno. Tra le proposte sul tavolo, sostenuta da tutti i
Paesi in via di sviluppo, c’è quella di triplicare la finanza per l’adattamento
entro il 2030, fino ad almeno 120 miliardi di dollari l’anno.
LE PROPOSTE E I PROGRESSI
Ma da cosa dipenderà il fatto di trovare o meno l’accordo? La partita si gioca
anche su tavoli, ossa su quattro temi diventati centrali nelle discussioni più
accese. Uno di questi è l’Articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi, che stabilisce
che i Paesi sviluppati devono fornire risorse ai Paesi in via di sviluppo e
invita anche altri Paesi a contribuire volontariamente. Da tempo si chiede più
chiarezza su chi debbano essere i Paesi donatori. “I Paesi sviluppati hanno
segnalato disponibilità a migliorare la prevedibilità e il volume della finanza
– racconta Ecco – includendo la possibilità di promesse indirizzate a
contribuire all’obiettivo di 300 miliardi di dollari all’anno del nuovo
Obiettivo Globale Collettivo di Finanziamento. Durante il dialogo con i
contributori, nel frattempo, il Fondo per l’Adattamento ha raccolto 133 milioni
di dollari in nuovi impegni per sostenere i Paesi più vulnerabili. “Tra i
contributori – racconta Ecco – ci sono Germania, Spagna, Svezia, Irlanda,
Lussemburgo, Svizzera, la Regione Vallonia del Belgio, Corea del Sud e Islanda.
Dall’Italia non arrivano fondi dal 2021”.
BRACCIO DI FERRO SU CBAM ED NDC
Uno dei dossier più divisivi nei negoziati (anche questo al centro di pretese e
condizioni poste da alcuni Stati) riguarda le Misure commerciali unilaterali,
strumenti di politica commerciale adottati da un singolo Paese o gruppo di Paesi
per introdurre criteri climatici negli scambi internazionali. E la ragione dei
contrasti si intuisce da quello che è l’esempio più noto: la tassa di
importazione fissata dall’Unione Europea o Carbon border adjustment mechanism
(Cbam), che applica un prezzo sul carbonio alle importazioni di prodotti ad alta
intensità emissiva (Leggi l’approfondimento). La Cina e molti Paesi in via di
sviluppo temono che possano trasformarsi in barriere commerciali, di fatto
penalizzando le loro economie e la loro produzione industriale. Altri, invece,
le considerano strumenti necessari per evitare la rilocalizzazione delle
emissioni e garantire condizioni di concorrenza più eque. Un altro punto di
scontro sono gli Ndc, che i Paesi devono presentare ogni cinque anni sotto
l’Accordo di Parigi. Nel 2025 i Paesi dovevano presentare il terzo ciclo di
Piani con orizzonte temporale 2035. Lo hanno fatto quasi due terzi degli Stati,
ma l’ambizione non è ancora sufficiente per limitare il riscaldamento globale
entro 1,5 gradi. E si discute molto di cosa fare per rispondere a questo
deficit, mentre l’Unep osserva che le emissioni globali di metano sono ancora in
aumento e, sebbene l’attuale serie di Ndc e Piani d’Azione possa portare a una
riduzione dell’8% entro il 2030, i paesi devono fare molto di più per rispettare
l’impegno preso di ridurre le emissioni del 30% entro il 2030 rispetto ai
livelli del 2020.
L'articolo Cop 30 accelera su un accordo politico. La grande scommessa? Una road
map per uscire dai combustibili fossili proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il Brasile che ospita la Conferenza delle Parti sul Clima ha molti volti e
davanti ha diverse sfide che conducono a scelte controverse. È la determinazione
delle comunità locali, l’arrivo davanti a Belém della Flotilla degli indigeni
dell’Amazzonia, è la Cúpula dos Povos, il vertice dei popoli alternativo alla
Cop 30, è la grande manifestazione con 40mila persone che attraversano la città
chiedendo giustizia. Ma non bastano gli annunci sul fondo per le foreste
tropicali per fare di questa la Cop delle foreste. Il Brasile è il presidente,
Luiz Inacio Lula da Silva, che se la prende con i negazionisti (“Controllano gli
algoritmi, seminano odio, diffondono paura”), ma è anche la sua difficoltà a
staccarsi dalla produzione dei combustibili fossili. Nonostante un mix
energetico tra i più puliti al mondo, il Paese è nono produttore globale di
greggio ed è questa la realtà con cui bisognerà fare i conti una volta spente le
luci della Conferenza delle Parti sul clima. Chi può opporsi ai piani di
investimento della compagnia statale Petrobas? Può farlo il capo tribù Raoni
Metuktire, principale leader indigeno del Brasile, ma per Lula, presidente di
un’economia emergente con quasi 60 milioni di abitanti in stato di povertà, è
un’altra storia. “Dio è brasiliano!” dichiarò nel 2006, di fronte alla scoperta
al largo della costa brasiliana dei bacini petroliferi di pre-sal. Il ‘tesoro’
era ad almeno 5mila metri di profondità, sotto uno spesso strato di sale formato
nel corso di milioni di anni. Certo, accadeva nove anni prima dell’Accordo di
Parigi. Ma quando Lula è risalito al potere, Petrobas era la società al mondo
che distribuiva più dividendi ai propri azionisti.
L’EXPORT, CROCE E DELIZIA DEL BRASILE
Quella scoperta ha reso il Brasile un importante attore nel mercato energetico
globale, anche perché il petrolio pre-sal è un tipo di greggio di alta qualità,
leggero e a basso contenuto di zolfo, caratteristica che ne facilita la
raffinazione. Così, anche se il Brasile spinge, insieme ad altri Paesi, per
mettere nero su bianco l’impegno per l’uscita dai combustibili fossili, Lula è
accusato di ipocrisia, per aver autorizzato poche settimane fa le prime
perforazioni esplorative di Petrobas al largo del Rio delle Amazzoni.
L’obiettivo sono soprattutto le esportazioni, di cui il Brasile è da sempre
schiavo. Non c’è solo il petrolio: zucchero, caffè, soia (Leggi
l’approfondimento). E ogni volta le comunità locali hanno dovuto pagare un
prezzo. Gli anni del governo di Jair Bolsonaro hanno segnato il Paese e
l’Amazzonia. È stato al potere dal 2019 alla fine del 2022 e, anno dopo anno,
l’estensione delle terre sottratte alla foresta pluviale è aumentata sempre più.
Era rimasta al di sotto dei 5mila chilometri quadrati fino al 2017, con un
minimo raggiunto nel 2013 (poco più di mille). Nel 2018 sono spariti 5mila
chilometri quadrati di foresta, nel 2019 ne sono scomparsi più di 6mila, nel
2020 si è arrivati a 8mila e nel 2021 a più di 10mila. Il ritorno di Luiz Inácio
Lula da Silva ha segnato un passaggio, ma il Brasile è ancora una potenza
emergente: secondo l’Istituto nazionale di statistica quasi 9 milioni di persone
sono uscite dalla condizione di povertà nel 2023, nella quale ancora oggi si
trovano 59 milioni di abitanti, il 27,4% della popolazione.
QUEL LEGAME CON L’AGROBUSINESS
Allo stesso tempo, secondo il Rapporto annuale 2024 sulla deforestazione
prodotto da MapBiomas, la perdita di vegetazione autoctona si è ridotta del
32,4% rispetto al 2023, ma lo scorso anno il Brasile ha comunque perso in media
3.403 ettari di foreste ogni giorno, 142 ettari l’ora. Di fatto, il pascolo
rappresenta tuttora oltre il 90% di tutte le aree deforestate dell’Amazzonia
brasiliana. Ad agosto scorso, per soddisfare la domanda (anche cinese) le
autorità brasiliane hanno sospeso la moratoria che imponeva alle aziende di non
acquistare soia da terreni deforestati in Amazzonia e che, dal 2006, aveva
protetto circa 17mila chilometri quadrati di foresta. Ma la soia serve come
mangime per gli allevamenti intensivi. In Brasile, in Cina e pure in Europa.
Come soluzione per la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate, poi, il
Brasile punta sui biocombustibili. Tra i leader mondiale nella produzione e
nell’utilizzo di biocarburanti, in particolare etanolo da canna da zucchero e
biodiesel, il Brasile ha promosso, insieme a Italia, India e Giappone,
l’iniziativa ‘Belém commitment for sustainable fuels’ che punta a quadruplicarne
entro il 2035 produzione e uso globale. Solo che le colture destinate alla
produzione di biocarburanti, occupano attualmente circa 32 milioni di ettari a
livello mondiale (tolti all’agricoltura a scopo alimentare) e soddisfano appena
il 4% della domanda energetica dei trasporti, emettendo più Co2 rispetto ai
combustibili fossili, soprattutto per gli impatti indiretti di agricoltura
intensiva e deforestazione. Alla Cop29 di Baku, il Brasile aveva annunciato di
voler ridurre le emissioni tra il 59% e il 67% entro il 2035 (rispetto a quelle
del 2005). Eppure quest’anno, su indicazione del governo brasiliano hanno
ricevuto le credenziali per accedere alla cosiddetta zona blu (dove si svolgono
i negoziati), anche dirigenti delle compagnie agroalimentari come il colosso
brasiliano della carne la Jbs che, solo nel 2023, ha emesso più di 240 milioni
di tonnellate di Co2 equivalenti, come raccontato dalla Bbc News del Brasile.
Stesse credenziali ricevute, per inciso, da dirigenti di compagnie petrolifere
come Petrobras ed Exxon Mobil e minerarie, come Samarco e Vale, la società
responsabile (insieme a BHP) della tragedia di Mariana, nel Minas Gerais, oltre
che del disastro della diga del Brumadinho del 2019 (Guarda il video del momento
del crollo della diga). Sia Vale sia Jbs, poi, sponsorizzano la copertura di
diversi media presenti alla Cop 30.
RINNOVABILI IN CASA, COMBUSTIBILI FOSSILI DA ESPORTARE
“Sebbene il Brasile possa contare su un mix energetico tra i più puliti al mondo
– spiega Giulia Signorelli, ricercatrice sulla decarbonizzazione del Think tank
Ecco – con il 90% della generazione di elettricità proveniente da fonti
rinnovabili (soprattutto idroelettriche) e una rapida espansione di eolico e
solare, il Paese è ancora un grande produttore – il nono al mondo – ed
esportatore di combustibili fossili”. Nel 2024 sono stati prodotti 3,358 milioni
di barili al giorno, 1,29% in meno rispetto al record del 2023 (3,4 milioni)
proveniente per oltre il 75% dai bacini petroliferi di pre-sal. Più della metà
della produzione, poi, viene esportata, soprattutto in Usa e Cina. A febbraio
2025, il Brasile ha aderito all’OPEC+, il cartello dei Paesi produttori di
petrolio. Attirando critiche da tutto il mondo. “Certamente è una contraddizione
– spiega a ilfattoquotidiano.it Antonella Mori, responsabile del Programma
America Latina dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) –
ma, d’altro canto, la sfida di Lula è quella di dare una prospettiva di sviluppo
a milioni di brasiliani. E, in un mondo che continua a chiedere petrolio,
diventa complicato non esportarlo, rinunciando a una risorsa economica”.
I PIANI DI PETROBAS E L’AUTORIZZAZIONE A TRIVELLARE
La stessa ministra dell’Ambiente, Marina Silva, ha dovuto mettere da parte le
sue preoccupazioni. Recentemente ha dichiarato che “il Brasile ha l’esperienza
necessaria per esplorare in modo sicuro le proprie riserve di petrolio,
riducendo le emissioni”. Secondo il bollettino dell’Agenzia nazionale brasiliana
di petrolio, gas e biocarburanti, a luglio 2025 la produzione di greggio ha
raggiunto un massimo storico di 3,958 milioni di barili al giorno, con un
aumento del 22,5% rispetto a luglio 2024. Quasi il 90% della produzione arriva
da giacimenti gestiti (anche in consorzio) da Petrobras (circa il 25% da quelli
che ha in esclusiva). La compagnia statale prevede di investire 111 miliardi di
dollari entro il 2029 per arrivare dagli attuali 4 milioni di barili equivalenti
di petrolio al giorno a circa 5,2 milioni entro il 2030. La stragrande
maggioranza arriverà dai giacimenti pre-sal. Il 20 ottobre scorso, Petrobras ha
ricevuto il via libera dall’Istituto Brasiliano per l’ambiente per le
perforazioni petrolifere esplorative nel bacino di Foz do Amazonas, a 170
chilometri dalla costa dell’Amapá e a 530 chilometri dal delta del Rio delle
Amazzoni, nel cosiddetto Margine equatoriale. Una licenza che arriva dopo due
anni di battaglie e dopo che l’Ibama aveva negato l’autorizzazione a causa delle
mancate garanzie per la salvaguardia della fauna in caso di perdite di petrolio.
La storia, però, l’hanno scritta le pressioni politiche, i ricorsi e le
modifiche al piano di salvataggio della fauna. Insomma, Lula ha deciso che
doveva andare così.
LE PERPLESSITÀ SUL FONDO PER LE FORESTE (CHE NON CONVIENE AGLI INDIGENI)
Alla Cop30 di Belém è stato il leader indigeno Raoni Metuktire, 93 anni e una
candidatura nel 2020 al Premio Nobel per la Pace, a riaccendere la polemica
sulle trivellazioni e sul piano per le grandi infrastrutture. “Questi progetti
distruggono fiumi e terre e continuano ad avanzare” ha dichiarato il capo della
tribù Kayapó. Per denunciare lo sfruttamento dei fiumi amazzonici, ma anche
l’impatto dell’espansione del settore agricolo sulla foresta, una flottiglia
composta da circa 200 imbarcazioni ha sfilato nello specchio d’acqua davanti
alla città di Belém, segnando l’apertura del vertice dei popoli indigeni e dei
movimenti sociali che si svolge in parallelo alla Cop30, come spazio di protesta
e confronto. Quanto mai necessario, anche sulle soluzioni presentate dal Governo
brasiliano, che ha lanciato la Tropical Forest Forever Facility con un fondo
(gestito dalla Banca mondiale). Ma il primo problema è raccogliere e investire
davvero fino a 125 miliardi di dollari provenienti da fonti pubbliche, private e
filantropiche e, missione ancora più ardua, riprendere il controllo di un’area
infestata dall’illegalità. Dopo aver ripagato gli investitori e i Paesi
donatori, il resto andrà ai Paesi in via di sviluppo dotati di foreste. Secondo
Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la
conservazione, il nodo principale è rappresentato dal fatto che il fondo
“dipenderebbe dai profitti delle stesse aziende responsabili della distruzione
delle foreste. Inoltre – sottolinea – solo il 20% dei suoi fondi verrebbe
destinato ai popoli indigeni”.
L'articolo Tutte le contraddizioni del Brasile (che la Cop30 non risolverà): la
sfida contro povertà e crisi climatica frenata dalle scelte controverse in nome
dell’export proviene da Il Fatto Quotidiano.
Alla Cop 30 del Brasile i lobbisti del settore dei combustibili fossili
registrano la più alta percentuale di presenze di sempre: uno ogni 25
partecipanti, per un totale di 1.602. Si tratta, di gran lunga, del numero più
alto di rappresentanti di quasi tutte le delegazioni nazionali presenti, a parte
quella del paese ospitante. Solo il Brasile, infatti, ha inviato più persone
(3805). In termini percentuali, c’è stato un aumento del 12% rispetto ai
negoziati sul clima dello scorso anno a Baku, in Azerbaigian con la più grande
concentrazione di lobbisti dei combustibili fossili alla Cop da quando la
coalizione Kick Big Polluters Out analizza la lista dei partecipanti alla
conferenza. Non si tratta di un semplice elenco di presenze. La scorsa
settimana, il Guardian ha rivelato che il 57 per cento di tutta la produzione di
petrolio e gas dello scorso anno, proveniva da 90 aziende del settore dei
combustibili fossili che hanno inviato un numero sostanziale di lobbisti ai
colloqui sul clima delle Nazioni Unite dal 2021 al 2024.
CHI FA AFFARI ALLA COP
Si tratta di 5.350 lobbisti che si sono “mescolati” con leader mondiali e
negoziatori climatici. Quelle 90 aziende rappresentano quasi due terzi (63%) di
tutti i progetti di espansione dei combustibili fossili a breve termine che si
stanno preparando per l’esplorazione e la produzione, secondo la Global Oil and
Gas Exit List appena pubblicata (un set di dati che include più di 1.700 aziende
che coprono oltre il 90% dell’attività globale del settore). Per la Conferenza
delle Parti del Brasile i lobbisti dell’oil&gas hanno ricevuto il 66% in più di
pass rispetto a tutti i delegati dei 10 paesi più vulnerabili al cambiamento
climatico messi insieme. “A 10 anni dall’Accordo di Parigi, la presenza dei
lobbisti fossili nelle Cop, dove non dovrebbero trovarsi, continua a crescere”
commenta Elena Gerebizza di ReCommon, membro della coalizione internazionale
Kick Big Polluters Out.
I LOBBISTI DEL FOSSILE E I DELEGATI DEI PAESI PIÙ COLPITI DA EVENTI ESTREMI
La Cop è il vertice nel corso del quale si dovrebbe discutere degli impegni e
delle misure da prendere per tagliare le emissioni di gas serra e per affrontare
gli effetti della crisi climatica. Stando ai numeri dei lobbisti, però, appare
evidente che gli interessi in primo piano non sembrano quelli dei paesi più
vulnerabili. Due esempi: i lobbisti dei combustibili fossili superano
numericamente i delegati ufficiali delle Filippine di quasi 50 a 1, nonostante
il paese sia colpito da devastanti tifoni mentre sono in corso i colloqui, più
di 40 volte il numero di delegati della Giamaica, ancora scossa dall’uragano
Melissa. Di fatto, il settore a ricevuto due terzi di pass in più rispetto a
tutti i delegati delle 10 nazioni più vulnerabili al clima messi insieme che,
insieme, arrivano a 1061. “L’ennesima invasione di una Cop da parte di manager
del fossile è intollerabile. L’obiettivo è garantirsi altri decenni di petrolio,
gas e mega infrastrutture per il Gnl, spacciate come transizione” commenta
Daniela Finamore di ReCommon.
SONO 164 I LOBBISTI DEI COMBUSTIBILI FOSSILI CON I BADGE GOVERNATIVI
Le principali associazioni di categoria rimangono un veicolo primario per fare
pesare la propria influenza, con l’International Emissions Trading Association
che porta 60 rappresentanti, inclusi delegati dei giganti del petrolio e del gas
ExxonMobil, BP e TotalEnergies. Ma c’è anche un altro aspetto: circa 599
lobbisti di vari settori hanno accesso tramite badge di overflow. Oltre agli
osservatori accreditati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (Unfccc), infatti, ha modo di accedere anche chi ottiene
questi pass rilasciati dai Paesi membri. La costante campagna della società
civile ha portato la Cop 30 ad essere la prima Conferenza delle Parti sul clima
in cui tutti i partecipanti non governativi sono tenuti a rivelare pubblicamente
chi finanzia la loro partecipazione e a confermare che i loro obiettivi
individuali sono in linea con quelli dell’Unfccc. Queste informazioni sono rese
pubbliche a livello mondiale, ma non si applicano a coloro che hanno i badge
governativi. Una carenza non da poco, considerando che il report mostra che 164
lobbisti dei combustibili fossili stanno ottenendo l’accesso tramite questo tipo
di badge. Per la Francia ce ne sono 22, di cui cinque di TotalEnergies, tra cui
l’amministratore delegato Patrick Pouyanné, per il Giappone ce ne sono 33 (anche
da Mitsubishi Heavy Industries e Osaka Gas) e la Norvegia ne ha introdotti 17
nei colloqui, tra cui sei dirigenti senior del suo colosso nazionale del
petrolio e del gas Equinor. I lobbisti italiani sono complessivamente 17, con
tre esponenti della Fondazione Enrico Mattei, collegata a Eni, due di
Confindustria, quattro di Acea, società che sta puntando con decisione su
progetti per lo sfruttamento del gas, sei di Enel, uno di Edison, tra le società
più attive nell’import di Gnl in Italia e uno della Venice Sustainability
Foundation, fondazione con governance a guida fossile presente alla Cop con il
direttore generale Alessandro Costa. E 12 di loro hanno “parties overflow” ossia
sono accreditati attraverso il Governo Meloni.
L'articolo Alla Cop30 il numero più alto di sempre dei lobbisti dei combustibili
fossili: secondi solo alla delegazione del Brasile proviene da Il Fatto
Quotidiano.