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Uk, una campagna spinge un fondo pensione a disinvestire dalle fossili: a quando in Italia?
Avete mai sentito parlare di carbon bubble e stranded asset? Forse no, legittimamente. Basti dire che per la loro portata rivoluzionaria c’è chi ha proposto di assegnare il premio Nobel per l’Economia a chi ha introdotto questi concetti. Sono stati anche alla radice del movimento per il fossil fuel divestment, il più grande fenomeno dal basso di sempre nella storia della finanza etica. Nel 2011 il think tank britannico Carbon Tracker, una non profit, pubblicò lo studio Unburnable Carbon. Il rapporto diceva che il mondo già allora aveva utilizzato una quota cospicua del carbon budget rimanente. Vale a dire della quantità di carbonio che può essere ancora emessa per mantenere il riscaldamento globale entro certi limiti, cioè il famoso +2°C rispetto all’era pre-industriale, poi acquisito dall’Accordo di Parigi del 2015. Per stare dentro quel budget, si può bruciare solo una determinata quantità di combustibili fossili, mentre le riserve accertate di combustibili fossili scritte nei libri contabili delle società fossili eccedono di molto tale quantità. C’è dunque un eccesso di combustibili fossili che non si può bruciare e un eccesso di valore scritto nei libri contabili. Da cui la carbon bubble (bolla del carbonio), che prima o poi scoppierà, e gli stranded asset (investimenti incagliati) legati allo sfruttamento di quei combustibili fossili in eccesso, che prima o poi dovranno essere svalutati. Mark Campanale è il fondatore di Carbon Tracker. È anche nel Comitato direttivo del Fossil fuel Treaty, l’iniziativa per un Trattato globale di Non-Proliferazione dei combustibili fossili. Ho avuto il piacere di incontrarlo in qualche occasione. Quando un personaggio con questa storia alle spalle e con queste competenze si scomoda per dire qualcosa, beh, è saggio ascoltarlo. Dal punto di vista finanziario e anche reputazionale. Giorni fa l’opinione di Mark Campanale è stata riportata da una rivista britannica sul settore pensionistico. L’argomento era il modello con cui il fondo pensione West Yorkshire Pension Fund (Wypf) valutava i rischi legati alla crisi climatica e il loro potenziale impatto sul fondo, che ha oltre 300mila iscritti e gestisce asset per circa 20 miliardi di sterline. In sostanza il fondo prevedeva di poter ottenere buoni rendimenti anche – udite udite – in uno scenario climatico +4°C. Cioè in un inferno climatico. Le previsioni del fondo erano state criticate dalla campagna Fossil Free Wypf, che dal 2015 chiede che il fondo disinvesta completamente dalle fossili. Mark Campanale ha detto che un modello che giunge a risultati del genere è molto debole. Che l’idea di un’economia che cresca in uno scenario +4°C cozza con le prove scientifiche. Che tale approccio può portare a scarsi risultati di investimento. E che solleva dubbi sulla capacità del fondo di proteggere le sue performance di lungo termine, cioè di fare gli interessi degli iscritti. La questione è arrivata alle orecchie di rappresentanti politici locali e nazionali, che hanno criticato il fondo pensione. Il tutto è stato amplificato dal fatto che in Uk è in corso una riforma dei regimi pensionistici degli enti locali (Lgps), cui Wypf appartiene. Il fondo si è detto consapevole del fatto che il modello semplificava eccessivamente e ha annunciato che lo avrebbe migliorato. Di fatto un mea culpa. La mia domanda è: a quando in Italia una campagna che metta il fiato sul collo su un fondo pensione perché disinvesta dalle fossili? Quando le decisioni di un fondo pensione innescheranno un dibattito pubblico, obbligando i rappresentanti politici a prendere posizione? Quando si capirà che le scelte di un fondo pensione e in generale degli attori finanziari sono cruciali per contrastare il collasso climatico? Anni fa a un convegno sulla finanza etica ascoltai un docente universitario che fra i tanti prestigiosissimi ruoli che ricopriva ne aveva uno apicale all’interno nientemeno che di Ipcc. Disse che, a chi gli chiedeva che c’azzecca la finanza col clima, rispondeva: “Tutto”. Chi è iscritto a un fondo pensione o ha comunque investimenti finanziari, specie se si augura per figli o nipoti un futuro senza inferno climatico, è ora che chieda a chi glieli gestisce: hai mai sentito parlare di carbon bubble e stranded asset? Come rinforzo suggerisco le parole del Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: “Investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è una follia morale ed economica“. L'articolo Uk, una campagna spinge un fondo pensione a disinvestire dalle fossili: a quando in Italia? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Alla Cop30 nessuna roadmap sull’addio ai combustibili fossili (neppure citati). Giù le maschere: Paesi a diverse velocità
Quella che si è appena conclusa a Belém, in Brasile, doveva essere la Conferenza delle Parti sul Clima della concretizzazione. Non è stato così, certamente per quanto riguarda la “transizione dalle fonti fossili”: è stato impossibile mettere insieme 194 Paesi che, insieme, non hanno mai camminato e non lo faranno nei prossimi decenni. Alla Cop30 molte maschere sono cadute, fuori e dentro l’Europa. C’è una riorganizzazione di alleanze trasversali. Arabia Saudita, Russia e gli altri petro-Stati, ormai non più padroni di casa delle Cop, si sono opposti in modo palese a concreti passi in avanti. Altri 86 Paesi chiedevano una roadmap, ossia una tabella di marcia chiara per l’uscita dai combustibili fossili (neppure citati nel documento finale), iniziativa partita dal Brasile e poi sostenuta anche dall’Unione europea, ma con una serie di nazioni restie a prendere posizioni (come l’Italia), altre che prima si sono esposte e poi hanno fatto dietrofront. Dopo un clima diventato sempre più teso, tra piogge tropicali, manifestazioni con migliaia di persone in piazza, la protesta degli indigeni che è arrivata fino alle sale dove si svolgono i negoziati, un incendio tra i padiglioni e le aspettative – altissime – che mano a mano si abbassavano, si è arrivati allo scontro. Duro e inevitabile. E altri Stati hanno puntato i piedi. Sono quelli che hanno scritto alla presidenza della Cop30 ponendo un veto sul riferimento esplicito alla roadmap, proposta che mette insieme Paesi ricchi e in via di sviluppo, le principali nazioni europee ma, anche qui, non l’Italia. E 24 nazioni hanno firmato l’iniziativa di Colombia e Paesi Bassi di organizzare una prima conferenza internazionale ad hoc sulla transizione dai combustibili fossili a Santa Marta, in Colombia, ad aprile 2025. Multilateralismo è stata una parola chiave della Cop ma, se avrà un contenuto, è tutto da stabilire. TENSIONE FINO ALL’ULTIMO MINUTO La tensione è andata avanti fino all’ultimo minuto. I lavori della plenaria sono stati sospesi dopo una rivolta da parte di delegati di alcuni Paesi che si sono lamentati dell’approvazione di documenti senza un accordo. A vertice chiuso, il presidente della Cop, André Correa do Lago, l’ha riaperta, dicendo di essere stanco e scusandosi per non aver colto le obiezioni sollevate dalla Colombia e da altri Paesi, tra cui Uruguay e Cile, riguardo il mancato inserimento di un obiettivo definito per l’abbandono dei combustibili fossili nel testo delle conclusioni. Do Lago ha spiegato di aver consultato gli avvocati, i quali affermano che l’accordo che è stato approvato non può essere riaperto per inserire un linguaggio più forte sui combustibili fossili. Ma la Colombia è determinata e ha fatto sapere che consulterà i propri avvocati. PASSI IN AVANTI SULL’ADATTAMENTO La Cop30 è stato il primo vertice sul clima dopo che il mondo ha registrato un intero anno con temperature superiori a 1,5 °C. E forse anche questo ha pesato su uno dei pochi risultati concreti. Riguardo alla finanza climatica, infatti, i paesi ricchi si sono impegnati a triplicare i finanziamenti per l’adattamento nell’ambito del Nuovo obiettivo di finanza climatica (NCQG) deciso alla Cop 29, da 300 miliardi di dollari entro il 2035. I Paesi in via di sviluppo avrebbero preferito entro il 2030, resta il fatto che si tratta di circa 120 miliardi di dollari dell’obiettivo di 300 miliardi destinati a misure di adattamento nei paesi più vulnerabili. Alla Cop 30, poi, sono stati promessi 135 milioni di dollari al Fondo per l’adattamento. Mentre la Roadmap Baku-Belem ha definito un piano per aumentare i finanziamenti globali per il clima al almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035 (obiettivo già concordato a Baku). Sono stati poi promessi 300 milioni di dollari per il Piano d’Azione Sanitario di Belém per sostenere l’adattamento del settore sanitario ai cambiamenti climatici. NON C’È ACCORDO SULL’USCITA DALLE FOSSILI, MA PASSI IN AVANTI SU ADATTAMENTO È difficile dire che cosa voglia davvero dire il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, affermando che alla Cop30 “la scienza ha prevalso, il multilateralismo ha vinto”. Certo è che, a dieci anni dall’Accordo di Parigi e a due anni dal testo finale della Cop23 di Dubai, con cui tutti i Paesi si impegnavano per una graduale “transizione dai combustibili fossili”, alla Cop30 organizzata in un paese amazzonico non si riescono neppure a citare i combustibili fossili nel documento finale, la Mutirão Decision. Non è stato accolto l’appello del presidente Lula e di oltre 80 Paesi per una roadmap su fossili e deforestazione ma – con una scelta controversa e contraddittoria – si conferma la traiettoria tracciata nel documento finale (e storico) del 2023, nel quale per la prima volta si citavano eccome i combustibili fossili. Sembra un secolo fa. A mettersi di traverso, a quanto pare, gli altri Paesi Brics (in primis Russia e India) e dei Paesi del Golfo. Venerdì, la prima doccia fredda. Perché dopo l’accelerata che la presidenza sembrava voler dare a questa Conferenza delle Parti sul clima, nel giorno che avrebbe dovuto chiudere la Cop sono invece arrivate le versioni aggiornate dei testi negoziali, compresa la bozza della Mutirão Decision. Un testo che ha scontentato tutti i Paesi più ambiziosi perché, già quello, non citava la tabella di marcia. La situazione non è cambiata più di tanto. Alla fine, dunque, nessuna roadmap per i 194, ma alla Cop si concorda per l’avvio di nuovi processi per accelerare la transizione energetica, come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5. La prima però, è un’iniziativa volontaria sotto la guida delle presidenze delle prossime due Cop (quindi un processo biennale) per discutere di come aumentare l’implementazione di Ndc, i Contributi determinati a livello nazionale sulla mitigazione e Nap, ossia i piani per l’adattamento. La Belém Mission to 1.5, sotto la guida della Cop30 e delle successive due, servirà a capire come accelerare l’implementazione, la cooperazione internazionale e gli investimenti nei piani nazionali. LA POSIZIONE DI PICHETTO E DI MELONI (AL G20 ININFLUENTE) “La tabella di marcia sulla transizione dai combustibili fossili non è parte del documento della Cop30 perché metà dei paesi sinceramente non condividevano questa posizione. Noi, nel merito, valutando poi i contenuti, abbiamo dichiarato la nostra adesione a sederci e vedere il percorso” ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, parlando con i giornalisti, ribadendo che, anche all’interno dell’Unione europea ci sono Paesi “per cui il percorso di transizione dai combustibili fossili è più facile” rispetto all’Italia, perché possono contare su altre fonti in misura maggiore “dalle rinnovabili come la Spagna, al nucleare come la Francia”. Nel frattempo, era partito anche il G20 a Johannesburg, in Sud Africa. Lo scorso anno, il G20 in Brasile non aveva aiutato la Cop di Baku, in Azerbaigian, ma la speranza era che l’incontro tra Lula, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente francese Macron e quello sudafricano, Cyril Ramaphosa, potesse aiutare ad aprire un dialogo con i leader di Paesi come Arabia Saudita e India. Non è andata per nulla così. Le parole della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, non hanno certo giocato la partita dei Paesi più ambiziosi: “Non stiamo combattendo i combustibili fossili, quanto le emissioni che derivano dai combustibili fossili” ha dichiarato, nel chiaro intento di non scontentare nessuno. E Giorgia Meloni ha dato l’affondo: “Dobbiamo abbandonare una volta per tutte un dogmatismo ideologico che sta provocando più danni che benefici. In Europa, ad esempio, sono state fatte in passato scelte che hanno messo in ginocchio interi settori produttivi, e senza che questo producesse un beneficio reale sulle emissioni globali”. L'articolo Alla Cop30 nessuna roadmap sull’addio ai combustibili fossili (neppure citati). Giù le maschere: Paesi a diverse velocità proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle rinnovabili. Noi invece andiamo indietro
Sono di ritorno da un soggiorno a Shanghai, in Cina, per un convegno sull’energia e la sostenibilità. Una cosetta un po’ in grande, organizzata, fra gli altri, dall’Unesco, dal Club di Roma e dall’Università di Scienze Ingegneristiche di Shanghai. Una maratona di presentazioni e discussioni fra ricercatori di 15 paesi diversi che mi hanno permesso di capire parecchie cose. Nel campo della sostenibilità, la Cina ha fatto passi da gigante con il concetto di “civiltà ecologica” che è oggi una politica ufficiale del governo. L’idea è che la Natura e l’Economia umana devono mantenersi in armonia l’una con l’altra, un concetto anche espresso come “Le Due Montagne.” Solo chiacchiere? Direi di no. Quando i cinesi si mettono in mente di fare qualcosa, di solito la fanno seriamente. Non che non si faccia greenwashing in Cina, ma una cosa i cinesi l’hanno capita: bisogna liberarsi dai combustibili fossili il prima possibile. La Cina importa quasi tutto il petrolio e il gas che usa, e questo è costoso e rende il paese strategicamente vulnerabile. Hanno ancora carbone come fonte principale di energia elettrica, ma è fortemente inquinante e non può durare per sempre. Quindi, i cinesi hanno capito che l’energia del futuro è rinnovabile e stanno puntando tutto su quello (incidentalmente, non ho sentito parlare di energia nucleare al convegno. Mi sembra di capire che ci lavorano sopra per lasciare aperta la possibilità che un giorno diventi conveniente, ma è una cosa marginale). Sulle rinnovabili, il successo cinese è stato a dir poco strabiliante. L’industria cinese è oggi in grado di produrre impianti fotovoltaici per tutto il mondo a costi bassi che stracciano ogni altra fonte. Per non parlare delle batterie, delle auto elettriche, dell’automazione e dell’elettrificazione del sistema economico in generale. Tutte aree dove la Cina sta guadagnando un vantaggio tecnologico sull’Occidente che potrebbe presto diventare incolmabile. E non è tanto questione che loro vanno più veloci di noi: mentre loro vanno avanti, noi andiamo indietro. Invece di investire nel futuro, ci stiamo affannando a puntare su tecnologie obsolete ancora basate sui fossili. C’è poco da dire, avremo quello che ci meritiamo. Così, la crescita della produzione di energia rinnovabile in Cina è esponenziale, mentre il carbone è in stallo e se ne prevede un rapido declino nei prossimi anni. Il piano governativo presentato al convegno prevede di arrivare al “Net Zero” entro il 2060. Potrebbe essere troppo tardi per evitare grossi danni a tutto l’ecosistema terrestre, ma ci sono buone possibilità di accelerare la transizione. I cinesi sono noti per eccedere le aspettative quando ci si mettono. Già ora, i risultati si vedono. Una volta, le città cinesi erano note per essere orribilmente inquinate ma oggi, se passeggiate per Shanghai sui grandi viali trafficati, potete sentire il profumo delle piante aromatiche che crescono sui bordi (a parte le zone dove l’odore principale è quello dei ristoranti cinesi!). I motorini sono tutti elettrici. Le auto private lo sono in gran parte, mentre il traffico pesante non è ancora elettrificato, ma ci stanno lavorando. Non me la sono sentita di raccontare ai colleghi cinesi che in Italia sono tutti convinti che le macchine elettriche sono un imbroglio e prendono fuoco come fiammiferi. Prima o poi, certe cose le capiremo anche noi. Come impressione dopo dieci giorni in Cina, a parte le bandiere rosse che sventolano agli angoli delle strade, la vita dei cittadini cinesi non è diversa da quella dei cittadini di tutte le grandi città del mondo. Shanghai è molto grande e affollata, ma è sicura, pulita, vivace e bene organizzata. Nelle zone centrali, l’aggettivo “mozzafiato” si applica bene all’architettura che ci trovate. Fra le tante cose, vi potete facilmente imbattere in una danza pubblica in una piazza, il guǎngchǎng wǔ, dove qualche centinaio di persone si impegnano tutte insieme per mantenersi in forma e socializzare. È un’atmosfera piacevole di comunità locale. Se poi vi piace il cibo cinese, Shanghai è il posto giusto e i ristoranti non sono per niente cari. Insomma, se avete qualche ragione per andare in Cina, o semplicemente volete fare un po’ di turismo diverso dal solito, è un viaggio che vi consiglio caldamente. Per concludere, al convegno ho presentato i miei risultati sugli effetti del CO2 come sostanza dannosa per la salute umana: un’altra buona ragione per liberarsi dei combustibili fossili. Trovate una breve discussione in un post precedente. L'articolo Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle rinnovabili. Noi invece andiamo indietro proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Sussidi alle fonti fossili, ormai il governo Meloni li ‘benedice’ apertamente
di Enza Plotino Venticinque miliardi di euro. A tanto ammonta un beneficio odioso che il governo “riconosce” a chi danneggia l’ambiente. Pubblicato in questi giorni dal Ministero dell’Ambiente l’aggiornamento dei sussidi ambientalmente dannosi (SAD), relativo al 2024. Primi fra tutti quelli diretti alle fonti fossili che da soli contano per 19,2 miliardi di euro. Il documento certifica anzi l’aumento dei sussidi dannosi piuttosto che la loro progressiva estinzione, come era previsto dal Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale: lo scorso anno sono entrati a far parte del sistema incentivante, tra gli altri, il contributo per la raccolta di legname nell’alveo dei fiumi e quello per l’ammodernamento e manutenzione degli impianti di risalita e di innevamento artificiale. Non facciamo neanche più finta di voler risolvere questo vecchio sistema di aiuti pubblici per chi inquina, anzi, ormai il governo Meloni apertamente “benedice” e protegge il vastissimo sistema di agevolazioni, incentivi, esenzioni, condoni che lo Stato italiano concede a tutte quelle attività che direttamente o indirettamente danneggiano l’ambiente. Spulciare il catalogo dei SAD, sul sito del Ministero, rende perfettamente la dimensione del fenomeno e dimostra come esista uno Stato schizofrenico, che agevola (è il termine giusto) un danno ambientale che invece dovrebbe combattere con la lotta ai cambiamenti climatici di cui ormai non parla nemmeno più. Esempi ce ne sono a iosa, come quelli in agricoltura. Ci sono riduzioni fiscali per la zootecnia da carne, sostegno per i seminativi, premi per pomodori da industria, sostegno per la zootecnia bovina, incentivi per la zootecnia bufalina. Basterebbe trasformare il sussidio in meccanismo che subordini la fruizione del beneficio all’adozione di buone pratiche per “prendere due piccioni, e che piccioni, con una fava”. Milioni di euro che potrebbero essere utili a trasformare interi settori in senso biosostenibile e a dare contestualmente un contributo importante alla lotta ai cambiamenti climatici. Per non parlare del sistema energetico. Lì vi sono le più eclatanti distorsioni, visto che gran parte dei meccanismi incentivanti sono sussidi ai combustibili fossili. Riduzioni delle accise per tutti: energia elettrica, carburanti per navigazione marittima, aerea e ferroviaria, gas naturale impiegato negli usi di cantiere ma anche nelle operazioni per l’estrazione di idrocarburi, Gpl per gli impianti di uso industriale, prodotti energetici per altiforni, differente trattamento tra benzina e gasolio. E poi fondi per ricerca sugli idrocarburi (petrolio e gas), fondi per ricerca e sviluppo sul carbone, e i famigerati CIP6. Questo per parlare solo dei sussidi diretti. Che per quelli indiretti esiste un ampio capitolo a parte. Questo governo, non solo ha messo sotto il tappeto tutte le questioni ambientalmente spinose, ma anzi le ritiene un impiccio fastidioso nel progetto di favorire il liberismo d’impresa in cui la libertà individuale di produrre, commerciare e scambiare è sacra e non si “disturba” con lacci e lacciuli. La questione climatica può soccombere. E il diritto alla salute e a un ambiente pulito anche. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Sussidi alle fonti fossili, ormai il governo Meloni li ‘benedice’ apertamente proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cop 30 accelera su un accordo politico. La grande scommessa? Una road map per uscire dai combustibili fossili
Alla Cop 30 del Brasile sale la tensione per i tempi che stringono. E il presidente André Corrêa do Lago dà un’accelerata puntando a completare “una parte significativa del lavoro” entro mercoledì, 19 novembre. Sul sito della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici sono state pubblicate le bozze di testo sui temi più caldi di cui a Belém si discute da giorni. Obiettivo: consultare tutti i gruppi negoziali sui punti di frizione per un allineamento, ridefinire le bozze e riuscire ad adottare i testi entro domani sera, quando arriverà anche il presidente Lula. Faranno parte del Belém Political Package, insieme ai dettagli più tecnici da adottare entro la fine della Cop. In una nota di sintesi pubblicata domenica dalla presidenza della Cop si faceva riferimento a “un elevato grado di convergenza e allineamento” tra le 194 Parti, ma finora non è stato trovato l’accordo sulle due grandi questioni, l’uscita dai combustibili fossili e la finanza per l’adattamento climatico dei Paesi più vulnerabili. Su cui, però, qualche progresso è stato fatto. La seconda settimana – quella delle discussioni politiche – è iniziata con il segmento di alto livello e l’arrivo dei ministri. A Belém è arrivato anche ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin. PICHETTO FRATIN: “AMBIZIONE SUL TAGLIO ALLE EMISSIONI, MA SENZA IDEOLOGIA” E sull’uscita dai combustibili fossili, il ministro sembra avere le idee chiare: All’assemblea plenaria della Cop, Pichetto Fratin ha ricordato che “l’Italia, insieme all’Unione Europea” è a Belem per continuare a costruire “quel percorso ambizioso di riduzione delle emissioni che riteniamo prioritario per la nostra salute, i nostri territori e la nostra autonomia strategica”. Ma con paletti precisi: “Lo facciamo nella convinzione, confermata dopo gli ultimi passaggi anche a Bruxelles, che per avanzare in questo percorso occorre non replicare approcci ideologici che rischiano di danneggiare i nostri sistemi economici e sociali”. Dallo stesso palco, il ministro britannico dell’Energia e del Net Zero, Ed Miliband, ha spronato invece i colleghi dei governi presenti a non cedere al pessimismo e a non aver “paura” di coloro che negano i cambiamenti climatici o mirano a una politica del rinvio. IL ‘BELÉM PACKAGE’ E LA ‘MUTIRÃO DECISION’ Una prima parte del Belém Package, con le decisioni politiche, dunque, dovrebbe essere adottata già mercoledì in seguito al Mutirão, la grande sessione collettiva (ispirata alla tradizione brasiliana) con ministri e capi delegazione per cercare punti di convergenza. Le questioni più tecniche, invece, costituiranno la seconda parte, da approvare entro la fine della Cop. E una delle bozze pubblicate dalla presidenza riguarda proprio la Mutirão Decision, il testo politico che dovrebbe comprendere i quattro temi su cui è ruotato il negoziato finora: la finanza climatica e il ruolo dei donatori, le misure unilaterali sul commercio (leggi guerra della Cina al Cbam europeo), la risposta alla mancanza di ambizione degli Ndc (Piani di riduzione delle emissioni a livello nazionale) e i rapporti biennali sulla trasparenza. Si tratta dei temi su cui alcuni Paesi vogliono dettare condizioni prima di dare il loro sostegno alla grande scommessa della Cop 30. LE SFIDE PRINCIPALI: L’USCITA DAI COMBUSTIBILI FOSSILI Il punto politico più atteso della settimana, infatti, è certamente un accordo su un percorso, una roadmap credibile, che acceleri la transizione dai combustibili fossili nei prossimi anni, nel rispetto del principio di responsabilità comuni ma differenziate. Un obiettivo che darebbe per la prima volta concretezza all’impegno preso alla Cop di Dubai del 2023 in un testo passato alla storia sulla “transitioning away from fossil fuels” che – già frutto di un compromesso rispetto al “phase out” che il Sud del mondo si aspettava – oggi molti Paesi vorrebbero dimenticare. Quella della roadmap è un’idea della ministra dell’ambiente brasiliana, Marina Silva. Cresce il sostegno alla proposta: 62 Paesi hanno espresso appoggio, ma un accordo resta complesso. Tra i sostenitori ci sono Francia, Danimarca, Regno Unito, Germania, Messico, Kenya, Colombia, Corea del Sud, ma sono contrari i Paesi Arabi e sono da convincere Cina e India. Nella bozza appena pubblicata “ci sono due opzioni. Una è quella di avere un tavola rotonda ministeriale – spiega Luca Bergamaschi, direttore esecutivo e cofondatore del think tank Ecco – che possa dare il via allo sviluppo di percorsi di transizione per superare progressivamente la dipendenza dai combustibili fossili”. Ed è la richiesta formulata da Lula. “La seconda è di stabilire un momento annuale – aggiunge Bergamaschi – per vedere dove si è arrivati sugli Ndc e affrontare il divario emissivo per allinearli all’obiettivo di non superare la soglia di 1,5°, includendo l’accelerazione della transizione dalle fossili”. Sul sostegno dell’Italia alla road map valgono le parole di Pichetto, a margine del suo intervento alla Cop: “Dipende dalla road map. Se prevede a chiusura delle centrali a carbone per tutti al 2035 la sottoscrivo”. In questo contesto, però, la Corea del Sud ha annunciato il suo piano di abbandonare il carbone e di aderire alla Powering Past Coal Alliance, un gruppo di governi e aziende impegnati a eliminarlo gradualmente. Australia e Indonesia, che potrebbero ospitare la Cop 31, sono attualmente i suoi principali mercati. Senza progressi su questo punto, la percezione sarà quella di una Cop fallita sulla questione chiave, anche se più controversa, data la situazione geopolitica. LA FINANZA SULL’ADATTAMENTO CLIMATICO Il secondo tema centrale di questo vertice è quello del finanziamento per l’adattamento climatico e riguarda, in particolare, l’adozione di una lista di indicatori per valutare i progressi sull’Obiettivo Globale sull’Adattamento, che dovrebbe essere adottato alla Cop 30. Ma gli indicatori arrivati alla Cop 30, tra l’altro dopo un lungo lavoro di tagli e cuci, sono comunque un centinaio. Troppi. Un altro problema riguarda il finanziamento stesso. Come certificato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) attraverso l’Adaptation Gap Report 2025, a fronte di un fabbisogno per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo di oltre 310 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, questa cifra è 12 volte superiore agli attuali flussi. I Paesi in via di sviluppo chiedono che il pacchetto finale contribuisca a ristabilire un equilibrio tra finanza per l’adattamento, mitigazione e perdite e danni all’interno del nuovo Obiettivo Globale Collettivo di Finanziamento di 300 miliardi di dollari all’anno, per poi mobilitarne 1300 l’anno entro il 2035, con un impegno ad ampliare significativamente il sostegno. Tra le proposte sul tavolo, sostenuta da tutti i Paesi in via di sviluppo, c’è quella di triplicare la finanza per l’adattamento entro il 2030, fino ad almeno 120 miliardi di dollari l’anno. LE PROPOSTE E I PROGRESSI Ma da cosa dipenderà il fatto di trovare o meno l’accordo? La partita si gioca anche su tavoli, ossa su quattro temi diventati centrali nelle discussioni più accese. Uno di questi è l’Articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi, che stabilisce che i Paesi sviluppati devono fornire risorse ai Paesi in via di sviluppo e invita anche altri Paesi a contribuire volontariamente. Da tempo si chiede più chiarezza su chi debbano essere i Paesi donatori. “I Paesi sviluppati hanno segnalato disponibilità a migliorare la prevedibilità e il volume della finanza – racconta Ecco – includendo la possibilità di promesse indirizzate a contribuire all’obiettivo di 300 miliardi di dollari all’anno del nuovo Obiettivo Globale Collettivo di Finanziamento. Durante il dialogo con i contributori, nel frattempo, il Fondo per l’Adattamento ha raccolto 133 milioni di dollari in nuovi impegni per sostenere i Paesi più vulnerabili. “Tra i contributori – racconta Ecco – ci sono Germania, Spagna, Svezia, Irlanda, Lussemburgo, Svizzera, la Regione Vallonia del Belgio, Corea del Sud e Islanda. Dall’Italia non arrivano fondi dal 2021”. BRACCIO DI FERRO SU CBAM ED NDC Uno dei dossier più divisivi nei negoziati (anche questo al centro di pretese e condizioni poste da alcuni Stati) riguarda le Misure commerciali unilaterali, strumenti di politica commerciale adottati da un singolo Paese o gruppo di Paesi per introdurre criteri climatici negli scambi internazionali. E la ragione dei contrasti si intuisce da quello che è l’esempio più noto: la tassa di importazione fissata dall’Unione Europea o Carbon border adjustment mechanism (Cbam), che applica un prezzo sul carbonio alle importazioni di prodotti ad alta intensità emissiva (Leggi l’approfondimento). La Cina e molti Paesi in via di sviluppo temono che possano trasformarsi in barriere commerciali, di fatto penalizzando le loro economie e la loro produzione industriale. Altri, invece, le considerano strumenti necessari per evitare la rilocalizzazione delle emissioni e garantire condizioni di concorrenza più eque. Un altro punto di scontro sono gli Ndc, che i Paesi devono presentare ogni cinque anni sotto l’Accordo di Parigi. Nel 2025 i Paesi dovevano presentare il terzo ciclo di Piani con orizzonte temporale 2035. Lo hanno fatto quasi due terzi degli Stati, ma l’ambizione non è ancora sufficiente per limitare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi. E si discute molto di cosa fare per rispondere a questo deficit, mentre l’Unep osserva che le emissioni globali di metano sono ancora in aumento e, sebbene l’attuale serie di Ndc e Piani d’Azione possa portare a una riduzione dell’8% entro il 2030, i paesi devono fare molto di più per rispettare l’impegno preso di ridurre le emissioni del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. L'articolo Cop 30 accelera su un accordo politico. La grande scommessa? Una road map per uscire dai combustibili fossili proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Tutte le contraddizioni del Brasile (che la Cop30 non risolverà): la sfida contro povertà e crisi climatica frenata dalle scelte controverse in nome dell’export
Il Brasile che ospita la Conferenza delle Parti sul Clima ha molti volti e davanti ha diverse sfide che conducono a scelte controverse. È la determinazione delle comunità locali, l’arrivo davanti a Belém della Flotilla degli indigeni dell’Amazzonia, è la Cúpula dos Povos, il vertice dei popoli alternativo alla Cop 30, è la grande manifestazione con 40mila persone che attraversano la città chiedendo giustizia. Ma non bastano gli annunci sul fondo per le foreste tropicali per fare di questa la Cop delle foreste. Il Brasile è il presidente, Luiz Inacio Lula da Silva, che se la prende con i negazionisti (“Controllano gli algoritmi, seminano odio, diffondono paura”), ma è anche la sua difficoltà a staccarsi dalla produzione dei combustibili fossili. Nonostante un mix energetico tra i più puliti al mondo, il Paese è nono produttore globale di greggio ed è questa la realtà con cui bisognerà fare i conti una volta spente le luci della Conferenza delle Parti sul clima. Chi può opporsi ai piani di investimento della compagnia statale Petrobas? Può farlo il capo tribù Raoni Metuktire, principale leader indigeno del Brasile, ma per Lula, presidente di un’economia emergente con quasi 60 milioni di abitanti in stato di povertà, è un’altra storia. “Dio è brasiliano!” dichiarò nel 2006, di fronte alla scoperta al largo della costa brasiliana dei bacini petroliferi di pre-sal. Il ‘tesoro’ era ad almeno 5mila metri di profondità, sotto uno spesso strato di sale formato nel corso di milioni di anni. Certo, accadeva nove anni prima dell’Accordo di Parigi. Ma quando Lula è risalito al potere, Petrobas era la società al mondo che distribuiva più dividendi ai propri azionisti. L’EXPORT, CROCE E DELIZIA DEL BRASILE Quella scoperta ha reso il Brasile un importante attore nel mercato energetico globale, anche perché il petrolio pre-sal è un tipo di greggio di alta qualità, leggero e a basso contenuto di zolfo, caratteristica che ne facilita la raffinazione. Così, anche se il Brasile spinge, insieme ad altri Paesi, per mettere nero su bianco l’impegno per l’uscita dai combustibili fossili, Lula è accusato di ipocrisia, per aver autorizzato poche settimane fa le prime perforazioni esplorative di Petrobas al largo del Rio delle Amazzoni. L’obiettivo sono soprattutto le esportazioni, di cui il Brasile è da sempre schiavo. Non c’è solo il petrolio: zucchero, caffè, soia (Leggi l’approfondimento). E ogni volta le comunità locali hanno dovuto pagare un prezzo. Gli anni del governo di Jair Bolsonaro hanno segnato il Paese e l’Amazzonia. È stato al potere dal 2019 alla fine del 2022 e, anno dopo anno, l’estensione delle terre sottratte alla foresta pluviale è aumentata sempre più. Era rimasta al di sotto dei 5mila chilometri quadrati fino al 2017, con un minimo raggiunto nel 2013 (poco più di mille). Nel 2018 sono spariti 5mila chilometri quadrati di foresta, nel 2019 ne sono scomparsi più di 6mila, nel 2020 si è arrivati a 8mila e nel 2021 a più di 10mila. Il ritorno di Luiz Inácio Lula da Silva ha segnato un passaggio, ma il Brasile è ancora una potenza emergente: secondo l’Istituto nazionale di statistica quasi 9 milioni di persone sono uscite dalla condizione di povertà nel 2023, nella quale ancora oggi si trovano 59 milioni di abitanti, il 27,4% della popolazione. QUEL LEGAME CON L’AGROBUSINESS Allo stesso tempo, secondo il Rapporto annuale 2024 sulla deforestazione prodotto da MapBiomas, la perdita di vegetazione autoctona si è ridotta del 32,4% rispetto al 2023, ma lo scorso anno il Brasile ha comunque perso in media 3.403 ettari di foreste ogni giorno, 142 ettari l’ora. Di fatto, il pascolo rappresenta tuttora oltre il 90% di tutte le aree deforestate dell’Amazzonia brasiliana. Ad agosto scorso, per soddisfare la domanda (anche cinese) le autorità brasiliane hanno sospeso la moratoria che imponeva alle aziende di non acquistare soia da terreni deforestati in Amazzonia e che, dal 2006, aveva protetto circa 17mila chilometri quadrati di foresta. Ma la soia serve come mangime per gli allevamenti intensivi. In Brasile, in Cina e pure in Europa. Come soluzione per la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate, poi, il Brasile punta sui biocombustibili. Tra i leader mondiale nella produzione e nell’utilizzo di biocarburanti, in particolare etanolo da canna da zucchero e biodiesel, il Brasile ha promosso, insieme a Italia, India e Giappone, l’iniziativa ‘Belém commitment for sustainable fuels’ che punta a quadruplicarne entro il 2035 produzione e uso globale. Solo che le colture destinate alla produzione di biocarburanti, occupano attualmente circa 32 milioni di ettari a livello mondiale (tolti all’agricoltura a scopo alimentare) e soddisfano appena il 4% della domanda energetica dei trasporti, emettendo più Co2 rispetto ai combustibili fossili, soprattutto per gli impatti indiretti di agricoltura intensiva e deforestazione. Alla Cop29 di Baku, il Brasile aveva annunciato di voler ridurre le emissioni tra il 59% e il 67% entro il 2035 (rispetto a quelle del 2005). Eppure quest’anno, su indicazione del governo brasiliano hanno ricevuto le credenziali per accedere alla cosiddetta zona blu (dove si svolgono i negoziati), anche dirigenti delle compagnie agroalimentari come il colosso brasiliano della carne la Jbs che, solo nel 2023, ha emesso più di 240 milioni di tonnellate di Co2 equivalenti, come raccontato dalla Bbc News del Brasile. Stesse credenziali ricevute, per inciso, da dirigenti di compagnie petrolifere come Petrobras ed Exxon Mobil e minerarie, come Samarco e Vale, la società responsabile (insieme a BHP) della tragedia di Mariana, nel Minas Gerais, oltre che del disastro della diga del Brumadinho del 2019 (Guarda il video del momento del crollo della diga). Sia Vale sia Jbs, poi, sponsorizzano la copertura di diversi media presenti alla Cop 30. RINNOVABILI IN CASA, COMBUSTIBILI FOSSILI DA ESPORTARE “Sebbene il Brasile possa contare su un mix energetico tra i più puliti al mondo – spiega Giulia Signorelli, ricercatrice sulla decarbonizzazione del Think tank Ecco – con il 90% della generazione di elettricità proveniente da fonti rinnovabili (soprattutto idroelettriche) e una rapida espansione di eolico e solare, il Paese è ancora un grande produttore – il nono al mondo – ed esportatore di combustibili fossili”. Nel 2024 sono stati prodotti 3,358 milioni di barili al giorno, 1,29% in meno rispetto al record del 2023 (3,4 milioni) proveniente per oltre il 75% dai bacini petroliferi di pre-sal. Più della metà della produzione, poi, viene esportata, soprattutto in Usa e Cina. A febbraio 2025, il Brasile ha aderito all’OPEC+, il cartello dei Paesi produttori di petrolio. Attirando critiche da tutto il mondo. “Certamente è una contraddizione – spiega a ilfattoquotidiano.it Antonella Mori, responsabile del Programma America Latina dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) – ma, d’altro canto, la sfida di Lula è quella di dare una prospettiva di sviluppo a milioni di brasiliani. E, in un mondo che continua a chiedere petrolio, diventa complicato non esportarlo, rinunciando a una risorsa economica”. I PIANI DI PETROBAS E L’AUTORIZZAZIONE A TRIVELLARE La stessa ministra dell’Ambiente, Marina Silva, ha dovuto mettere da parte le sue preoccupazioni. Recentemente ha dichiarato che “il Brasile ha l’esperienza necessaria per esplorare in modo sicuro le proprie riserve di petrolio, riducendo le emissioni”. Secondo il bollettino dell’Agenzia nazionale brasiliana di petrolio, gas e biocarburanti, a luglio 2025 la produzione di greggio ha raggiunto un massimo storico di 3,958 milioni di barili al giorno, con un aumento del 22,5% rispetto a luglio 2024. Quasi il 90% della produzione arriva da giacimenti gestiti (anche in consorzio) da Petrobras (circa il 25% da quelli che ha in esclusiva). La compagnia statale prevede di investire 111 miliardi di dollari entro il 2029 per arrivare dagli attuali 4 milioni di barili equivalenti di petrolio al giorno a circa 5,2 milioni entro il 2030. La stragrande maggioranza arriverà dai giacimenti pre-sal. Il 20 ottobre scorso, Petrobras ha ricevuto il via libera dall’Istituto Brasiliano per l’ambiente per le perforazioni petrolifere esplorative nel bacino di Foz do Amazonas, a 170 chilometri dalla costa dell’Amapá e a 530 chilometri dal delta del Rio delle Amazzoni, nel cosiddetto Margine equatoriale. Una licenza che arriva dopo due anni di battaglie e dopo che l’Ibama aveva negato l’autorizzazione a causa delle mancate garanzie per la salvaguardia della fauna in caso di perdite di petrolio. La storia, però, l’hanno scritta le pressioni politiche, i ricorsi e le modifiche al piano di salvataggio della fauna. Insomma, Lula ha deciso che doveva andare così. LE PERPLESSITÀ SUL FONDO PER LE FORESTE (CHE NON CONVIENE AGLI INDIGENI) Alla Cop30 di Belém è stato il leader indigeno Raoni Metuktire, 93 anni e una candidatura nel 2020 al Premio Nobel per la Pace, a riaccendere la polemica sulle trivellazioni e sul piano per le grandi infrastrutture. “Questi progetti distruggono fiumi e terre e continuano ad avanzare” ha dichiarato il capo della tribù Kayapó. Per denunciare lo sfruttamento dei fiumi amazzonici, ma anche l’impatto dell’espansione del settore agricolo sulla foresta, una flottiglia composta da circa 200 imbarcazioni ha sfilato nello specchio d’acqua davanti alla città di Belém, segnando l’apertura del vertice dei popoli indigeni e dei movimenti sociali che si svolge in parallelo alla Cop30, come spazio di protesta e confronto. Quanto mai necessario, anche sulle soluzioni presentate dal Governo brasiliano, che ha lanciato la Tropical Forest Forever Facility con un fondo (gestito dalla Banca mondiale). Ma il primo problema è raccogliere e investire davvero fino a 125 miliardi di dollari provenienti da fonti pubbliche, private e filantropiche e, missione ancora più ardua, riprendere il controllo di un’area infestata dall’illegalità. Dopo aver ripagato gli investitori e i Paesi donatori, il resto andrà ai Paesi in via di sviluppo dotati di foreste. Secondo Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione, il nodo principale è rappresentato dal fatto che il fondo “dipenderebbe dai profitti delle stesse aziende responsabili della distruzione delle foreste. Inoltre – sottolinea – solo il 20% dei suoi fondi verrebbe destinato ai popoli indigeni”. L'articolo Tutte le contraddizioni del Brasile (che la Cop30 non risolverà): la sfida contro povertà e crisi climatica frenata dalle scelte controverse in nome dell’export proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Alla Cop30 il numero più alto di sempre dei lobbisti dei combustibili fossili: secondi solo alla delegazione del Brasile
Alla Cop 30 del Brasile i lobbisti del settore dei combustibili fossili registrano la più alta percentuale di presenze di sempre: uno ogni 25 partecipanti, per un totale di 1.602. Si tratta, di gran lunga, del numero più alto di rappresentanti di quasi tutte le delegazioni nazionali presenti, a parte quella del paese ospitante. Solo il Brasile, infatti, ha inviato più persone (3805). In termini percentuali, c’è stato un aumento del 12% rispetto ai negoziati sul clima dello scorso anno a Baku, in Azerbaigian con la più grande concentrazione di lobbisti dei combustibili fossili alla Cop da quando la coalizione Kick Big Polluters Out analizza la lista dei partecipanti alla conferenza. Non si tratta di un semplice elenco di presenze. La scorsa settimana, il Guardian ha rivelato che il 57 per cento di tutta la produzione di petrolio e gas dello scorso anno, proveniva da 90 aziende del settore dei combustibili fossili che hanno inviato un numero sostanziale di lobbisti ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite dal 2021 al 2024. CHI FA AFFARI ALLA COP Si tratta di 5.350 lobbisti che si sono “mescolati” con leader mondiali e negoziatori climatici. Quelle 90 aziende rappresentano quasi due terzi (63%) di tutti i progetti di espansione dei combustibili fossili a breve termine che si stanno preparando per l’esplorazione e la produzione, secondo la Global Oil and Gas Exit List appena pubblicata (un set di dati che include più di 1.700 aziende che coprono oltre il 90% dell’attività globale del settore). Per la Conferenza delle Parti del Brasile i lobbisti dell’oil&gas hanno ricevuto il 66% in più di pass rispetto a tutti i delegati dei 10 paesi più vulnerabili al cambiamento climatico messi insieme. “A 10 anni dall’Accordo di Parigi, la presenza dei lobbisti fossili nelle Cop, dove non dovrebbero trovarsi, continua a crescere” commenta Elena Gerebizza di ReCommon, membro della coalizione internazionale Kick Big Polluters Out. I LOBBISTI DEL FOSSILE E I DELEGATI DEI PAESI PIÙ COLPITI DA EVENTI ESTREMI La Cop è il vertice nel corso del quale si dovrebbe discutere degli impegni e delle misure da prendere per tagliare le emissioni di gas serra e per affrontare gli effetti della crisi climatica. Stando ai numeri dei lobbisti, però, appare evidente che gli interessi in primo piano non sembrano quelli dei paesi più vulnerabili. Due esempi: i lobbisti dei combustibili fossili superano numericamente i delegati ufficiali delle Filippine di quasi 50 a 1, nonostante il paese sia colpito da devastanti tifoni mentre sono in corso i colloqui, più di 40 volte il numero di delegati della Giamaica, ancora scossa dall’uragano Melissa. Di fatto, il settore a ricevuto due terzi di pass in più rispetto a tutti i delegati delle 10 nazioni più vulnerabili al clima messi insieme che, insieme, arrivano a 1061. “L’ennesima invasione di una Cop da parte di manager del fossile è intollerabile. L’obiettivo è garantirsi altri decenni di petrolio, gas e mega infrastrutture per il Gnl, spacciate come transizione” commenta Daniela Finamore di ReCommon. SONO 164 I LOBBISTI DEI COMBUSTIBILI FOSSILI CON I BADGE GOVERNATIVI Le principali associazioni di categoria rimangono un veicolo primario per fare pesare la propria influenza, con l’International Emissions Trading Association che porta 60 rappresentanti, inclusi delegati dei giganti del petrolio e del gas ExxonMobil, BP e TotalEnergies. Ma c’è anche un altro aspetto: circa 599 lobbisti di vari settori hanno accesso tramite badge di overflow. Oltre agli osservatori accreditati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), infatti, ha modo di accedere anche chi ottiene questi pass rilasciati dai Paesi membri. La costante campagna della società civile ha portato la Cop 30 ad essere la prima Conferenza delle Parti sul clima in cui tutti i partecipanti non governativi sono tenuti a rivelare pubblicamente chi finanzia la loro partecipazione e a confermare che i loro obiettivi individuali sono in linea con quelli dell’Unfccc. Queste informazioni sono rese pubbliche a livello mondiale, ma non si applicano a coloro che hanno i badge governativi. Una carenza non da poco, considerando che il report mostra che 164 lobbisti dei combustibili fossili stanno ottenendo l’accesso tramite questo tipo di badge. Per la Francia ce ne sono 22, di cui cinque di TotalEnergies, tra cui l’amministratore delegato Patrick Pouyanné, per il Giappone ce ne sono 33 (anche da Mitsubishi Heavy Industries e Osaka Gas) e la Norvegia ne ha introdotti 17 nei colloqui, tra cui sei dirigenti senior del suo colosso nazionale del petrolio e del gas Equinor. I lobbisti italiani sono complessivamente 17, con tre esponenti della Fondazione Enrico Mattei, collegata a Eni, due di Confindustria, quattro di Acea, società che sta puntando con decisione su progetti per lo sfruttamento del gas, sei di Enel, uno di Edison, tra le società più attive nell’import di Gnl in Italia e uno della Venice Sustainability Foundation, fondazione con governance a guida fossile presente alla Cop con il direttore generale Alessandro Costa. E 12 di loro hanno “parties overflow” ossia sono accreditati attraverso il Governo Meloni. L'articolo Alla Cop30 il numero più alto di sempre dei lobbisti dei combustibili fossili: secondi solo alla delegazione del Brasile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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