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Manovra, Alleanza contro la povertà sul taglio all’Assegno di inclusione: “Per fare cassa colpite 400mila famiglie”
L’Alleanza contro la povertà ha espresso forte preoccupazione l’emendamento del governo alla legge di Bilancio che dimezza l’importo della prima mensilità dell’Assegno di inclusione (Adi) al momento del rinnovo. Una delle iniziative introdotte dall’esecutivo nel pacchetto di riformulazioni in vista del voto definitivo sulla manovra, atteso tra Natale e Capodanno. La modifica interviene sull’articolo della legge di bilancio che aveva precedentemente eliminato la mensilità di sospensione tra il primo periodo di fruizione dell’Adi e la proroga. Ma “l’importo della prima mensilità di rinnovo è riconosciuto in misura pari al cinquanta per cento dell’importo mensile del beneficio economico rinnovato ai sensi del primo periodo”, è scritto nell’emendamento, che punta a un risparmio per le casse statali di circa 100 milioni di euro. “L’ennesimo accanimento del governo contro i poveri” denuncia l’Alleanza contro la povertà, criticando sia il metodo che il merito della decisione. Nel merito, perché si introduce un taglio secco e immediato del reddito proprio nel momento di maggiore fragilità dei nuclei familiari, trasformando lo strumento di inclusione in una misura incerta e punitiva. “Si stima che circa 350-400 mila famiglie, a partire dal 2026, si troveranno a subire questa riduzione”, spiega l’Alleanza in un comunicato. Secondo l’Alleanza, il dimezzamento significherebbe una perdita media stimabile tra i 250 e i 300 euro per questi nuclei, rischiando di compromettere il pagamento di spese essenziali come affitto, utenze e cure. Quanto al risparmio di 100 milioni: “Una cifra modesta se rapportata alla spesa complessiva della manovra, ma che viene ottenuta scaricando il costo su famiglie che già vivono sotto o a ridosso della soglia di povertà assoluta”. “Proprio recentemente siamo stati auditi dal governo in merito alla legge di Bilancio: abbiamo presentato le nostre proposte e le nostre analisi, frutto del lavoro dei nostri esperti – ricorda il portavoce Antonio Russo – Abbiamo anche pubblicato e presentato un documento sulla povertà, in cui emerge chiaramente quanto le misure di contrasto siano già gravemente insufficienti per rispondere al bisogno e alle gravi fragilità. Ora, non possiamo credere che si intenda davvero procedere con l’ennesimo taglio, colpendo proprio chi si trova in maggiore difficoltà. Chiediamo quindi l’immediato ritiro dell’emendamento. Il contrasto alla povertà non può essere affidato a interventi opachi e regressivi, né può diventare un capitolo su cui fare cassa in silenzio”, conclude Russo. A denunciare il contesto in cui si inserisce l’intervento governativo era stata già nei giorni scorsi la Comunità di Sant’Egidio, che ha ripreso i dati Istat, secondo cui 5,7 milioni di italiani, pari al 9,8% della popolazione, vivono sotto la soglia della povertà assoluta, inclusi 1,283 milioni di minori, ovvero il 13,8% del totale. La crisi è aggravata dall’incremento del costo della vita: dal 2021 ad oggi i prezzi dei generi alimentari sono aumentati del 25%. Parallelamente, alla fine di settembre 2025, gli stipendi lordi reali risultavano ancora inferiori di oltre l’8% rispetto a gennaio 2021, con l’Italia tra i pochi paesi europei dove i redditi diminuiscono. L’emergenza abitativa è critica, con i canoni di affitto che superano in media il 40% del reddito familiare medio, mentre la lista d’attesa per gli alloggi popolari coinvolge circa 650 mila nuclei. Inoltre, ben il 9,9% delle persone, corrispondente a 5,8 milioni di individui, ha dichiarato di aver rinunciato a curarsi a causa di liste d’attesa, difficoltà economiche o scomodità delle strutture sanitarie, dai 4,5 milioni dell’anno precedente. Per questo Sant’Egidio ha proposto anche di allargare la platea dei beneficiari dell’Adi e di facilitare l’integrazione del sussidio con redditi da lavoro bassi. L'articolo Manovra, Alleanza contro la povertà sul taglio all’Assegno di inclusione: “Per fare cassa colpite 400mila famiglie” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il Paese dei pensionati che aiutano i nipoti. Impoveriti, invecchiati e con l’incubo Sanità: l’Italia del Censis 2025
Nel suo nuovo Rapporto 2025 sulla situazione sociale del Paese, il Censis, l’istituto di ricerca socio-economica italiano, dipinge un quadro di profonda incertezza e declino del benessere, con il ceto medio in affanno, i lavoratori più anziani a sostenere l’occupazione e un aumento record del debito pubblico, in un contesto di forte disillusione e timori crescenti sulla tenuta del Servizio Sanitario Nazionale. 4 pensionati su 10 aiutano figli e nipoti – L’Italia continua a invecchiare, con gli over 65 che rappresentano il 24,7% della popolazione. I pensionati svolgono un ruolo economico cruciale per le famiglie: il 43,2% fornisce aiuti economici regolari a parenti e il 61,8% ha contribuito o intende contribuire a spese importanti di figli o nipoti, come l’acquisto della casa. La consapevolezza di questo necessario supporto a figli e nipoti giustifica, per il 54,2% degli italiani, l’indicizzazione all’inflazione anche delle pensioni lorde superiori ai 2.500 euro. E vista l’incertezza economica, il 94,2% degli anziani risparmia per malattia o non autosufficienza e l’82,2% monitora il bilancio familiare. Non solo: il 72,6% degli attuali pensionati vorrebbe continuare a lavorare, purché non ci siano penalizzazioni fiscali. Tra lavoratori anziani e robot – Il mercato del lavoro è soggetto a una progressiva “senilizzazione“. L’incremento di 833.000 occupati nel biennio 2023-2024 è dovuto per l’84,5% (704.000 unità) alle persone con 50 anni e oltre. Nei primi dieci mesi del 2025, il saldo positivo (206.000 occupati in più) è dovuto esclusivamente agli over 50 (+410.000 unità), a fronte di cali tra i 35-49enni (-1,1%) e gli under 35 (-2,0%). Tra i giovani, gli inattivi sono in forte aumento (+3,0%). Questa crescita del lavoro (+3,7% occupati, +5,3% ore lavorate) supera il Pil (+1,7%), causando una riduzione degli indicatori di produttività: -2,0% del valore aggiunto per occupato. In parallelo, l’Italia è 14° per intensità di automazione e 6° nel mondo per robot industriali installati nel 2023. Nel settore automotive (1995-2022), segnala il rapporto, la produzione è aumentata del 61,4% con una riduzione del 21,3% della forza lavoro, ma a fronte di un aumento del valore aggiunto per occupato del 48,8%, i salari sono cresciuti solo del 9,3%. Sfiducia e incubo sanità – Il 78,5% degli italiani teme di non poter contare su servizi sanitari adeguati in caso di non autosufficienza. Lo stesso contesto sanitario è difficile: in un anno si sono registrati 22.049 casi di aggressione agli operatori. Il 91,2% dei medici ritiene il lavoro nel SSN più stressante. Il 66,0% dei medici non ha tempo per dialogare con i pazienti, il 65,9% opera in strutture con carenze di personale e il 51,8% usa attrezzature obsolete. Il 41,2% non si sente sicuro a causa della violenza e il 71,8% si sente un capro espiatorio delle carenze del sistema. La percezione di inadeguatezza dell’intervento pubblico si estende anche ai rischi ambientali, con il 72,3% che crede insufficienti gli aiuti statali in caso di eventi estremi. Di conseguenza, il 54,7% si dichiara disposto a spendere fino a 70 euro al mese per tutelarsi, e il 52,3% considera la possibilità di ridurre i consumi per l’acquisto di strumenti assicurativi. Tuttavia, il 70% degli italiani non intraprende azioni concrete sul piano finanziario o assicurativo. Tra le alternative, il 37,2% rimanda la decisione, il 34,5% punta sui risparmi e il 22,0% sul welfare pubblico. C’era una volta il ceto medio – Il ceto medio è in grave affanno e rischia di perdere il proprio status. Le retribuzioni annue medie reali nel 2024 sono inferiori dell’8,7% rispetto al 2007, e nello stesso periodo il potere d’acquisto pro capite è calato del 6,1%,. Tra il 2004 e il 2024, il numero di titolari d’impresa è diminuito del 17,0%, con quasi 585.000 imprenditori in meno. Particolarmente colpita la fascia giovane, dove gli imprenditori under 30 sono calati del 46,2%. Tra il 2011 e il 2025, la ricchezza delle famiglie italiane è diminuita in termini reali dell’8,5%. Il ceto medio è il più penalizzato: il 50% delle famiglie più povere ha perso il 23,2% della propria ricchezza, mentre il 10% delle famiglie più ricche l’ha vista aumentare del 5,9%. Il 48% della ricchezza è detenuto dal 5% delle famiglie più abbienti. L’inflazione ha aggravato la situazione: nel 2024 i prezzi erano più alti del 17,4% rispetto al 2019 e il carrello della spesa del 23,0%. Nonostante la spesa maggiore, il volume di generi alimentari acquistati è diminuito del 2,7%. Il debito pubblico più alto di sempre – A settembre il debito pubblico italiano ha toccato la cifra record di 3.081 miliardi di euro, in crescita del 38,2% rispetto al 2001,. La spesa per interessi nell’ultimo anno è stata di 85,6 miliardi, corrispondenti al 3,9% del Pil, il valore più alto tra i Paesi europei dopo l’Ungheria e ben oltre la media Ue dell’1,9%. Questi costi superano gli investimenti pubblici (78,3 miliardi) e la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi). La vulnerabilità è accresciuta dal fatto che il 33,7% del debito è in mano a creditori esteri (più di 1.000 miliardi), mentre le famiglie detengono il 14,4%,. Nel contesto del G7, dove il debito è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil tra il 2001 e il 2024, l’Italia è passata dal 108,5% al 134,9%. Si prevede che entro il 2030 il rapporto debito/Pil nel G7 supererà il 137%. Il calo della produzione industriale – L’indice della produzione industriale ha segnato un dato negativo per trentadue mesi consecutivi, con l’eccezione di tre lievi rimbalzi. La produzione manifatturiera ha registrato un calo del -1,6% nel 2023, del -4,3% nel 2024 e del -1,2% nei primi nove mesi di quest’anno. Solo quattro comparti (elettronica, alimentare, farmaceutica, legno e carta) mostrano segnali di ripresa nel 2025. In controtendenza, la fabbricazione di armi e munizioni ha registrato un incremento del 31,0% nei primi nove mesi dell’anno rispetto all’anno precedente. Torna il sogno del pubblico impiego – La disaffezione verso il lavoro privato è evidente, con solo il 29,4% degli occupati dipendenti nel settore privato che si sente molto motivato. La motivazione è maggiore negli over 55 (37,5%) rispetto agli under 44 (24,0%). Il disimpegno è legato al disallineamento tra competenze e mansioni. La maggioranza dei lavoratori (46,4%) preferirebbe un impiego dipendente nel settore pubblico, mentre solo il 30,6% opterebbe per il privato e l’11,0% per la libera professione. La stabilità (63,0%), la certezza del reddito fisso (55,1%) e l’evitare il rischio di licenziamento (35,2%) sono le principali ragioni di questa preferenza. La permanenza media nello stesso lavoro in Italia è di 11,7 anni, superiore alla media Ue di 9,9 anni. Tuttavia, solo il 38% dei lavoratori italiani ritiene il proprio ambiente professionale psicologicamente ed emotivamente salubre. E intanto sul lavoro si continua a morire – Nel 2024 sono stati denunciati 518.497 infortuni sul lavoro in Italia, 22 ogni 1.000 occupati, con 1.191 esiti mortali. Negli ultimi dieci anni gli occupati sono aumentati del 9,2% e gli infortuni diminuiti del 10,7%, ma quelli mortali sono in lieve aumento (+0,8%). Nel primo semestre 2025, gli infortuni mortali sono aumentati del 7,1%, arrivando a 495 casi. Le malattie professionali sono state 88.384 nel 2024, un dato in crescita del 54,1% nell’ultimo decennio. Il genere è un fattore di rischio primario, con il 92,0% dei morti sul lavoro di sesso maschile. Anche i lavoratori stranieri e i giovani sono più esposti: gli stranieri, che sono il 10,5% degli occupati, hanno subito il 23,0% di tutti gli infortuni; i giovani 15-24enni, il 4,8% degli occupati, hanno registrato il 12,0% degli infortuni. L'articolo Il Paese dei pensionati che aiutano i nipoti. Impoveriti, invecchiati e con l’incubo Sanità: l’Italia del Censis 2025 proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’odore della povertà che vi disturba tanto? E’ solo colpa della politica. Io, che do da mangiare ai senzatetto, vi racconto perché
di Raffaele Galardi* La povertà non chiede nulla, occupa lo spazio con corpi, oggetti ma anche odore, molte volte puzza. L’odore resta, non si relativizza è acre, sgradevole a volte da i conati, è proprio lì che la società mostra la sua natura, quella vera. Una persona entra in un’attività commerciale, sente quell’odore, si ritrae per istinto non lo nasconde, lo dice apertamente, educatamente con parole ricercate e forbite, in quelle parole c’è l’intero dispositivo del nostro tempo, parole che fanno male alle orecchie ed alla sensibilità di alcuni, non tanto l’odio perché non è odio, non il giudizio morale, ma il rifiuto del contatto. La miseria diventa corpo estraneo, un qualcosa che disturba la tranquillità e la spensieratezza, anche quella di una semplice pausa pranzo, il rifiuto, purtroppo, legittimo da parte di alcuni di condividere la stanza con qualcuno che puzza di povertà, di miseria, di abbandono. La domanda resta, perché quell’odore? Non basta la frase comoda, “non possono lavarsi”, “vogliono vivere così”, la verità è che non possono perché noi come società, come comunità, li vogliamo così, sporchi, lerci, maleodoranti. L’odore funziona come marchio, definisce il dentro e il fuori, l’accettato e il rifiutato. Quasta esperienza che racconto, la descrivo per conoscenza diretta, per aver provato sulla mia pelle la violenza psicologica dell’aut aut, o me o loro, ambo le parti avevano ragione, sia chi aveva fame sia chi voleva gustare il proprio pasto senza lo sgradevole olezzo della puzza di merda e piscio e dello sporco di mesi se non anni di marciapiede. Questa cosa mi ha turbato… dimenticavo, faccio il cuoco, conduco una piccola attività ed offro il pasto agli ultimi, senza badare dall’odore, li faccio anche accomodare a tavola talvolta, per restituire loro qualche minuto di dignità. Quel bivio di scelta mi ha messo in condizione di riflettere: a me non piacciono le imposizioni, ma anche la mia in fin dei conti lo era, chi sono per obbligare un’altra persona a consumare il pasto tra olezzi sgradevoli? Ho preso una decisione, interessare la comunità, intesa come clientela e come istituzione, ho chiamato le istituzioni, perché se io, noi, posso sfamare qualcuno, le istituzioni, lo Stato diramazioni periferiche comprese, li possono lavare e vestire, possono restituire loro la dignità dell’odore. Ho scoperto in questa maniera l’esistenza delle docce pubbliche, ho scoperto che sono a pagamento per tutti, compresi i senza fissa dimora, senza reddito, senza soldi. Docce a pagamento, con tariffe che raddoppiano nel weekend, servizi pubblici trasformati in gabbie tariffari, chi non può pagare deve portare addosso il segno della sua condizione. Un marchio olfattivo, più efficace di qualunque documento. La scena è questa, il senzatetto che puzza ed ha fame, il cliente che giustamente vuole godere la sua personale esperienza in un ambiente confortevole ed in mezzo io, e quelli come me, uno che cucina, lavora, serve, uno che non dovrebbe sostituire lo Stato e invece lo fa. Perché qualcuno deve farlo, anche solo per il semplice fatto che la fame non aspetta il bilancio comunale. La politica osserva, calcola. fa la cosa che le riesce meglio, non agisce, salvo sporadiche eccezioni. Il tema dei poveri risorge molte volte solo durante la campagna elettorale, comizi, promesse, piani, poi dopo il voto… il silenzio. La miseria torna sottoterra, insieme ai volantini elettorali e l’odore resta per strada, sulla pelle, nelle narici. Una politica che produce povertà e pretende decoro che parla di ordine mentre costruisce esclusione che usa i poveri come spauracchio, ma non li riconosce come cittadini. L’odore non viene dai corpi sporchi che dormono per strada senza nemmeno poter pisciare con dignità, viene dalle politiche pubbliche, dalla scelta deliberata di tagliare, chiudere, ridurre, monetizzare, dall’abitudine del potere a esternalizzare la colpa su chi quella colpa la subisce. Non c’è convivenza possibile in un sistema costruito per dividere, non c’è dignità possibile dove l’igiene diventa merce, non c’è pace possibile tra un tavolo di ristorante e un corpo abbandonato, finché la politica resterà un esercizio di linguaggio e non atto concreto. La lotta sta qui, o si accetta il modello della segregazione, o si rompe! Noi lo abbiamo rotto, abbiamo stressato il sistema, telefonate, messaggi e poi ancora telefonate ed altri messaggi, cosa abbiamo ottenuto? Ci è stata data la possibilità di condividere, di poter acquistare una doccia calda, una saponetta, una dose di bagnoschiuma, di shampoo e donarla consegnando un voucher. “Mi perdoni, avrei un’osservazione” “Dica” “Ma una volta lavati, se reindossano i panni sporchi che avevano, tornano a puzzare come prima!” “Un cambio di abiti, lo metteremo a disposizione noi”, uno scatto di reni delle istituzioni, wow! un sussulto piccolo piccolo ma che è sempre una speranza. “Ancora una cosa” “Dica” “Riusciamo a portare il prezzo della doccia del sabato uguale a quello del venerdì?” “Eh! Una passo alla volta!” Condividere è un atto politico. Lo è sempre. Lo è soprattutto quando dà fastidio, ma ancor di più quando smuove le coscienze, anche fosse solo una. *l’autore è un imprenditore nel settore della ristorazione L'articolo L’odore della povertà che vi disturba tanto? E’ solo colpa della politica. Io, che do da mangiare ai senzatetto, vi racconto perché proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Davanti alle crescenti disuguaglianze, una patrimoniale non sarebbe altro che una misura di salute pubblica
di Sara Gandini e Paolo Bartolini L’1% più ricco della popolazione mondiale detiene una ricchezza maggiore di quella complessivamente posseduta dal 95% più povero. E le disparità economiche continuano a crescere: da un lato aumentano le persone che scivolano nella povertà, dall’altro cresce anche il numero dei grandi ricchi, con una concentrazione di patrimonio senza precedenti. Negli ultimi anni la povertà è tornata a crescere in modo preoccupante anche in Italia. Il nuovo Rapporto Caritas 2025 mostra come fasce sempre più ampie della popolazione scivolino ai margini, spesso invisibili alle narrazioni ufficiali. La povertà assoluta coinvolge ormai milioni di persone: un segnale inequivocabile di un sistema economico che non redistribuisce, non protegge e non garantisce più le condizioni di base per una vita dignitosa. Per affrontare queste inaccettabili contraddizioni anche l’Oxfam suggerisce con vigore di adottare una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Tassare i ricchi e ristabilire la progressività fiscale non è uno slogan comunista ma è un principio indicato dalla nostra Costituzione. E paradossalmente la maggioranza dei cittadini che sta lentamente scivolando verso la soglia della povertà teme queste proposte perché non si fida delle istituzioni. Eppure, mai come oggi, mentre l’establishment insiste con il riarmo e l’economia di guerra, si tratta di rianimare un principio fondamentale per chiunque voglia ridare a parole come socialismo e democrazia il loro senso più pieno: ridistribuire la ricchezza verso il basso e far pagare di più a chi ha accumulato patrimoni ingenti approfittando delle diseguaglianze fomentate dal neoliberismo imperante. Una cultura democratica e solidale non può rinunciare a riflettere in modo serio sulla differenza scandalosa di ricchezza tra i pochi e i moltissimi, diseguaglianze che aumentano nel tempo e che la pandemia ha fatto esplodere. E’ evidente che il mito del “libero mercato” si rivela per quello che è: retorica funzionale alla conservazione dei privilegi e a ostacolare qualsiasi politica economica a favore dei ceti deboli. La lotta di classe, come ricordò prima di morire il sociologo Luciano Gallino, è stata momentaneamente vinta da multinazionali, centri finanziari e ricca borghesia. Ma invertire la tendenza è decisivo, non solo per una questione di equità minima, ma anche per trovare denaro da investire nella sanità pubblica e in tutti i campi della vita associata che necessitano di un sostegno pubblico. In un mondo dove suona come un’eresia porre un tetto massimo alle ricchezze e adottare una patrimoniale che possa dare respiro alle casse dello Stato, bisogna avere il coraggio di ripensare la vera opposizione che conta: quella tra chi ha troppo e chi ha troppo poco. Le disuguaglianze economiche non producono solo ingiustizia sociale, ma anche un evidente divario nella salute. Le ricerche mostrano che chi appartiene ai ceti più poveri si ammala e muore di più di tumori evitabili. Redistribuire ricchezza, quindi, significa potenziare prevenzione, educazione sanitaria e accesso alle cure: una patrimoniale sulle grandi fortune non è un atto punitivo, ma una misura di salute pubblica capace di ridurre le “morti di classe” che il neoliberismo ha reso strutturali. Anche l’istruzione, che protegge da molti fattori di rischio e favorisce un uso più consapevole dei servizi sanitari, è distribuita in modo profondamente ineguale. Chi nasce in famiglie povere ha più probabilità di ammalarsi, di essere diagnosticato tardi e di curarsi peggio. Tra l’altro va ricordato che si laurea solo il 12% dei figli di non laureati mentre se almeno un genitore ha la laurea il 75% dei figli arriva alla laurea. Inoltre al liceo classico ci va solo l’8,3% di ragazzi che provengono da famiglie di classi sociali più basse e solo il 13% di studenti che viene da famiglie di classi medio-alte. Si tratta di discriminazioni sistemiche che si alimentano a vicenda. Una patrimoniale progressiva può finanziare stabilmente sia sanità sia scuola pubblica, interrompendo questo ciclo e trasformando la ricchezza concentrata nelle mani di pochi in maggiore aspettativa di vita per tutti. Investire in prevenzione e istruzione non è un costo, ma la condizione per ridurre davvero il peso di malattie che hanno un costo economico enorme per la sanità pubblica. Una patrimoniale, ovviamente, non basta da sola: richiede trasparenza e un chiaro indirizzo politico che destini le risorse alla prevenzione, alla medicina territoriale, e rilanci il sistema scolastico. Le obiezioni sulla “fuga dei capitali” vanno affrontate ricordando che molti paesi adottano forme di tassazione patrimoniale senza danni economici. L'articolo Davanti alle crescenti disuguaglianze, una patrimoniale non sarebbe altro che una misura di salute pubblica proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Avevo fame”: arrestato a Firenze per aver tentato il furto di un formaggio da 3,90 euro
“Ho rubato perché avevo fame”. È quanto ha dichiarato al giudice un cittadino brasiliano di 43 anni, arrestato a Firenze con l’accusa di aver tentato il furto di una confezione di formaggio e di aver aggredito, fuggendo, l’addetto alla vigilanza. Il fatto è avvenuto domenica 23 novembre in un supermercato in via Toselli, dove l’uomo ha prelevato da uno scaffale e nascosto nella sua giacca una confezione di formaggio da 3,90 euro. Dopo aver oltrepassato le casse, un vigilante è intervenuto invitando l’uomo a restituire o pagare la merce. La situazione si è però scaldata ed il brasiliano avrebbe tentato di forzare il blocco dell’addetto con una spinta ed cercando di tirargli un pugno. I carabinieri, intervenuti a seguito dell’accaduto, hanno arrestato l’uomo ma il giudice non ha adottato alcuna misura cautelare. Il sudamericano è da 15 anni in Italia e godeva dell’indennità di disoccupazione dopo aver perso il lavoro. Ha un precedente per guida in stato di ebbrezza. L’avvocata dell’uomo, Chiara Lombardo, ha dichiarato che l’imputato “è ritornato in libertà, ma non ha più casa e sarà accolto da un amico. In tribunale arrivano ogni giorno persone spinte a compiere reati perché in stato di povertà o in condizioni psichiatriche precarie”. L'articolo “Avevo fame”: arrestato a Firenze per aver tentato il furto di un formaggio da 3,90 euro proviene da Il Fatto Quotidiano.
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È violento anche lo Stato che lascia sole le donne nella povertà e nella precarietà
Nella Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne si celebra soprattutto la lotta contro la violenza patriarcale familiare. Si invitano le donne ad alzare la loro voce, a dire no a ogni forma di atteggiamento o comportamento violento da parte di qualsiasi uomo da loro conosciuto. Molestie, stupri, aggressioni, così come un linguaggio che svaluta, insulta, ferisce. Ma poco si riflette, in questa giornata, sulla violenza di uno Stato che le donne non le aiuta in nessun modo, lasciandole sole e senza strumenti. Non le aiuta né dal punto di vista economico, né rispetto al sostegno sui compiti immensi e gravosi di cura che le donne hanno sulle proprie spalle. La povertà: le donne, specie quelle single con figli, ma non solo, sono spesso povere, nel senso che vivono con redditi minuscoli e precari. E anche quando magari il reddito del marito è più elevato e c’è un relativo benessere economico, questo non toglie che, seppure non povere formalmente, le donne si ritrovino a dipendere dall’altro, a chiedere, dunque non in condizione di libertà. E che difficilmente possano decidere liberamente di separarsi, se c’è una situazione pesante o molto pesante. A maggior ragione non sono libere le donne che vivono da sole con redditi bassi o nulle. Cosa dà il governo a queste donne, spesso con figli? Non c’è più un reddito antipovertà nel nostro paese, sostituito da un assai più restrittivo ed escludente Assegno di inclusione. Arriva qualcosa per i figli attraverso l’assegno unico, qualche bonus, e basta. Milioni di donne in Italia vivono questa condizione di assoluta precarietà, che corrisponde a un’ansia continua. Ma poi c’è la violenza di uno Stato che ti lascia fuori dagli asili nido, nonostante i bambini siano sempre di meno. Che non ti consente neanche di scaricare le spese, spesso immense di una babysitter. Che ti costringe – questa anche è violenza – a prenderti cura dei tuoi figli oppure lavorare. Si dirà che questa violenza è sulla famiglia in generale, quindi anche sugli uomini. Certo, è così. Ma poiché i lavori di cura sono soprattutto al femminile, le gravi carenze dello stato ricadono soprattutto sulle donne. Prendiamo il tema del caregiving. Oggi non c’è donna di mezza età che non abbia figli ancora da curare e anziani da assistere, con un carico enorme che spesso si traduce in esaurimenti psicofisici se non malattie. Ebbene, di recente il governo ha annunciato in pompa magna un piano per i caregiver che sarebbe “una svolta”. Come al solito, se poi si vanno a vedere i criteri ci si rende conto di cosa si tratta davvero. Anzitutto, i 250 milioni sono a partire dal 2027. Poi si prevedono 1.200 euro ogni 3 mesi solo per chi superi le 90 ore di carico settimana, stiamo quindi parlando di circa 15 ore al giorno. Ma attenzione, l’Isee deve essere sotto 15.000 e il reddito da lavoro sotto 3.000 lordi annui. Ci sono altre figure di caregiving con meno ore, che non hanno alcun contributo economico, pur magari dedicando 30 ore settimanali ad un parente malato. E allora, si torna sempre alla mancata assistenza, che è comunque una forma di violenza. Alla fatica del vivere stipendi miseri, inferiori a quelli degli uomini, anche a parità di mansioni, comunque tendenzialmente più precari; a questa fatica si aggiunge il carico di figli che hanno una quantità di esigenze e bisogni spaventosi, che comportano un carico psicologico ed economico senza pari, per il quale non c’è nessun sostegno dello stato, solo la giungla del privato (spesso con ottimi professionisti, ma tutto a pagamento). C’è poi la cura degli anziani, anche qui, come abbiamo visto, senza alcun sostegno statale. La questione si aggraverà quando le pensioni saranno sempre più minuscole, e tutti sanno quanto costa un’assistenza a un anziano con una o più patologie croniche: in termini di farmaci, in termini di visite mediche, in termini di assistenza in casa o in una struttura. A proposito di farmaci: è una violenza, piccola ma simbolica, lo penso da sempre, che tutti i farmaci per curare le infezioni vaginali o ginecologiche in senso lato siano a pagamento, così come la contraccezione ormonale. Ci vogliono in forma e in salute per lavorare e guadagnare, per fare figli, per assistere i cari malati, però neanche abbiamo diritto a crede anti-locali gratuite. Di nuovo, si potrebbe dire che tutto ciò è la violenza di questo sistema su tutti noi, ormai costretti a sopravvivere sapendo che nessun aiuto reale, se non prese per i fondelli come i bonus, arriveranno dal governo e dallo stato in generale. Però, ripeto, in questa situazione le donne sono più vulnerabili, perché considerate più adatte alla cura di figli e anziani: forse, chissà, potrebbe anche essere vero ma non è retribuita e allora qui c’è un problema enorme. Penso allora che riflettere anche su questo tipo violenza – che poi si somma agli tipi, perché anche chi è vittima di violenza fisica risente degli aspetti economici – sia importante. Se le donne sono costrette a vite all’insegna dell’angosciosa sopravvivenza, questo rappresenta una forma di maltrattamento, coercizione e sopruso di cui lo Stato, e chi ci governa, è per primo responsabile. Quello Stato che oggi taglierà molti nastri e parteciperà a tante – inutili? – cerimonie contro la violenza sulle donne. L'articolo È violento anche lo Stato che lascia sole le donne nella povertà e nella precarietà proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Giornata contro la violenza sulle donne
Non ci si riprende dal furto del futuro. Fortuna che ci sono i disertori
Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo 1984. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte ‘sud’ o ‘nord’ del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre 50 guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili. Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. ‘Della perdita del passato’, dice in un romanzo lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf, ‘ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende’. L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinuncie e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perchè non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento. Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera. L'articolo Non ci si riprende dal furto del futuro. Fortuna che ci sono i disertori proviene da Il Fatto Quotidiano.
Società
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Povertà
Investire di più nelle nostre rinnovabili ridurrebbe povertà e disuguaglianze (e la dipendenza dall’estero)
di Claudio Trevisan Nel 2005, circa 1,9 milioni di persone vivevano in povertà assoluta in Italia (3,3% della popolazione). Nel 2024, questo numero è aumentato a circa 5,7 milioni (9,7%), che indica un significativo peggioramento delle condizioni economiche per una parte crescente della popolazione italiana nel corso degli anni. In Italia nel 2015 erano presenti 62 miliardari aumentati a 74 nel 2024 (+19%). Il 5% più ricco delle famiglie italiane nel 2024 possedeva il 46% della ricchezza netta totale. Facendo un confronto con Islanda e Slovenia, il tasso di povertà relativa in Italia è circa il 22% (1 italiano su 5), invece in Islanda è il 4,5% e Slovenia il 12%. Le cause principali di queste differenze sono la disuguaglianza regionale (disoccupazione alta e salari bassi nel Sud rispetto al Nord), assicurazioni sociali più deboli (welfare e indennità di disoccupazione), alta disoccupazione giovanile (lavoro precario). L’Islanda ha alti livelli di occupazione (mercati del lavoro stabili con salari elevati e bassa disoccupazione) e fiscalità progressiva (la ricchezza viene ridistribuita efficacemente attraverso le tasse che finanziano i servizi pubblici). Inoltre, l’Italia ha più disuguaglianza economica (0.33 coefficiente di Gini, che varia da 0 perfetta uguaglianza a 1 estrema disuguaglianza) sia dell’Islanda (0,27) che della Slovenia (0,23). I motivi di questa discrepanza sono disomogenea distribuzione del reddito, limitata redistribuzione (evasione fiscale), pochi diritti e retribuzioni basse per i lavoratori temporanei e la concentrazione della ricchezza in mano a pochi. La Slovenia invece ha un settore pubblico forte (istruzione, assistenza sanitaria e edilizia popolare a basso costo che riducono le disparità), l’imposizione fiscale e trasferimenti efficaci, il governo ridistribuisce il reddito in modo efficiente e con differenze salariali moderate. La Slovenia ha un impegno culturale e politico per l’uguaglianza che enfatizza equità e inclusione. Per cercare di uguagliare l’Islanda e Slovenia con la riduzione della povertà e delle disuguaglianze economiche ci vorrebbe un forte cambio di cultura, difficile in una nazione capitalista/individualista come la nostra. A mio parere una possibile soluzione potrebbe essere quella di aumentare l’investimento nelle energie rinnovabili nostrane (geotermico/solare/eolico) per poter ottenere benefici economici/ambientali/sociali per tutti (specialmente le persone che vivevano in povertà assoluta). L’Italia importa circa il 75% dell’energia (gas/petrolio/carbone). Ogni anno spende oltre 40 miliardi di euro per acquistare combustibili fossili dall’estero. Se le rinnovabili coprissero anche solo il 50% del fabbisogno energetico si potrebbero risparmiare 15 miliardi di euro all’anno in importazioni. Questo ridurrebbe la nostra dipendenza geopolitica, meno vulnerabili ai rialzi dei prezzi internazionali e avremo una maggior stabilità economica interna. Inoltre, le rinnovabili generano molti più posti di lavoro per unità di energia prodotta rispetto alle fonti fossili con circa 5 volte più occupazione nei settori dei pannelli solari, turbine eoliche, batterie, sistemi di accumulo e ingegneria geotermica. Si stimano fino a 500mila nuovi posti di lavoro entro il 2035 se l’Italia dovesse accelerare la transizione energetica. Con un aumento della produzione rinnovabile si potrebbe ottenere una riduzione sia dell’inquinamento causato delle emissioni del settore energetico, sia dei costi sanitari dovuti all’inquinamento atmosferico. L’Italia sfrutta solo una parte del potenziale dell’energia geotermica nostrana. Ci sono sorgenti geotermiche in quasi tutte le regioni ma quasi solo la Toscana le sta utilizzando. Purtroppo, non sono stati convertiti in pozzi geotermici dei pozzi petroliferi abbandonati molto profondi (5.000 metri). Perché? Negli Usa l’Enel gestisce una centrale ibrida solare/geotermica, ma queste centrali non vengono costruite in Italia dove abbiamo tanto sole/energia geotermica. Perché? IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! 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Ambiente
Povertà
Energie Rinnovabili
Povertà, il rapporto Caritas: è aumentata del 43% in dieci anni. E le disuguaglianze crescenti cristallizzano i privilegi
Negli ultimi dieci anni la povertà assoluta in Italia si è radicata, allargata, strutturata. Le famiglie indigenti sono aumentate del 43,3%, un ritmo preoccupante. Che descrive non una crisi passeggera, ma un processo di sedimentazione: chi entra nella povertà fa sempre più fatica a uscirne, mentre nuove fasce di popolazione vi scivolano dentro. Intanto i patrimoni delle famiglie italiane si distribuiscono in maniera sempre più diseguale, segnando una vera e propria inversione delle fortune tra chi ha poco e chi ha molto. È l’immagine che emerge dal ventinovesimo Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale, intitolato “Fuori campo. Lo sguardo della prossimità”, che approfondisce i dati Istat diffusi a ottobre. Nel solo 2024 i Centri di Ascolto Caritas hanno sostenuto 277.775 famiglie, il 3% in più rispetto al 2023 e addirittura +62,6% rispetto al 2014. Non si tratta solo di povertà economica: oltre una famiglia su due porta con sé almeno due forme di disagio contemporaneamente e una su tre arriva a tre o più. Ed è in questo contesto che la povertà diventa, per ammissione della stessa Caritas, un fenomeno “cumulativo e interconnesso”: le persone che chiedono aiuto ai centri spesso sperimentano, accanto alla povertà, mancanza o perdita di un’abitazione, problemi legati alla salute mentale e alle dipendenze, povertà educativa e culturale, perdita di autosufficienza, condizione migratoria irregolare, svantaggi connessi alla ex-detenzione, violenze, abuso e sfruttamento. Sul fronte strettamente economico, ricorda Caritas, l’Ocse ha certificato che i salari reali in Italia restano inferiori del 7,5% rispetto all’inizio del 2021, nonostante un incremento relativamente consistente nell’ultimo anno dovuto al rinnovo di molti contratti collettivi. Tra il 1990 e il 2020 l’Italia è stato poi l’unico Paese dell’area con salari reali medi in calo (-2,9%), mentre la quota di lavoratori a basso salario è salita dal 25,9% al 32,2%. A farne le spese soprattutto donne, giovani tra i 16 e i 34 anni, residenti nel Mezzogiorno e chi ha contratti part-time. “Mettendo queste dinamiche reddituali nel contesto globale”, commenta il report, “si nota un vistoso arretramento della maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori italiani con redditi medio bassi all’interno della distribuzione globale dei redditi”. Se alla fine degli anni 80 le lavoratrici e i lavoratori italiani compresi nel 30% più povero della distribuzione salariale “mantenevano un vantaggio nella distribuzione mondiale dei redditi, nonostante lo svantaggio relativo nazionale”, oggi “tali redditi della medesima fascia della popolazione lavorativa permettono di stare appena al disopra dei redditi della metà dei lavoratori nel mondo”. Nel frattempo la forbice tra chi ha molto e chi ha poco si è ulteriormente allargata. Il patrimonio medio dei 50mila adulti più ricchi del Paese è più che raddoppiato dagli anni Novanta, mentre quello dei 25 milioni di italiani più poveri si è ridotto di oltre tre volte, fermandosi oggi a circa 7mila euro pro capite. Almeno 10 milioni di adulti dispongono di risparmi liquidi inferiori ai 2.000 euro, una soglia insufficiente a fronteggiare uno choc di reddito come la perdita del lavoro o una malattia, mentre stando alle ultime rilevazioni di Forbes i miliardari sono saliti a 65. Una disuguaglianza che “ha anche un effetto intergenerazionale“, ricorda il primo capitolo del report, firmato da Salvatore Morelli e Giacomo Gabbuti: “Gli svantaggi di oggi possono trasmettersi nel futuro, alimentando un circolo vizioso che riduce la mobilità sociale e cristallizza tanto i privilegi e i vantaggi quanto le marginalità e le esclusioni”. Il rischio tangibile di trasformare le crescenti disuguaglianze di oggi in maggiori disuguaglianze di opportunità nel futuro è rafforzato dai dati che suggeriscono “una crescita graduale del peso delle eredità e delle donazioni”. L’Ue-27 ha visto il peso relativo dei patrimoni ereditati raddoppiare, passando da 7% a 14% circa del valore complessivo dei redditi nazionali dal 1995 al 2020. Nello stesso periodo, la tassazione effettiva di tali trasferimenti di ricchezza è diminuita. L’aliquota media effettiva per l’Ue-27 si è ridotta di circa 1 punto percentuale dal 1995, fino a raggiungere il 2,4% nel 2020. In Italia flussi di eredità e donazione più che raddoppiano nello stesso periodo, superando oggi il 15% dei redditi nazionali, mentre l’aliquota media dell’imposta di successione viene più che dimezzata, a partire dall’1% del 1995, un livello già considerevolmente più basso della media Ue-27. Come previsto dall’economista francese Thomas Piketty ne “Il Capitale nel Ventunesimo Secolo”, chiosano Gabbuti e Morelli, “sta emergendo una forma di capitalismo patrimoniale in cui la ricchezza di origine familiare influenza sempre più i destini dei figli”. L'articolo Povertà, il rapporto Caritas: è aumentata del 43% in dieci anni. E le disuguaglianze crescenti cristallizzano i privilegi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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