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UE valuta una proroga di cinque anni per le auto ibride prima dello stop ai motori termici nel 2035
L’Unione Europea sta riflettendo sulla possibilità di concedere altri cinque anni di vita ai motori a combustione all’interno delle auto ibride, posticipando così alcuni effetti del divieto previsto per il 2035. L’eventuale scelta arriverebbe dopo settimane di pressioni da parte di Paesi come Italia e Polonia e di diversi costruttori, che temono un’accelerazione eccessiva nella corsa all’elettrico, con possibili ricadute sull’intero comparto automobilistico. La Commissione europea presenterà una proposta che consentirebbe a plug-in hybrid ed extended-range electric vehicles (EREV) di restare sul mercato fino al 2040, a condizione che utilizzino biocarburanti avanzati ed e-fuel, combustibili sintetici prodotti con CO₂ riciclata e energia rinnovabile. L’idea è di mantenere l’obiettivo delle emissioni zero per le nuove auto entro il 2035, introducendo però una fase di transizione più morbida per i costruttori e per i Paesi più legati alla produzione tradizionale. Molti aspetti restano, tuttavia, da definire. Bisogna stabilire quante ibride potranno essere vendute dopo il 2035 e fissare parametri chiari sulla qualità dei carburanti alternativi. Gli e-fuel promettono neutralità climatica, ma sono ancora costosi e di difficile diffusione; i biocarburanti, invece, suscitano dubbi riguardo alla reale sostenibilità e all’impatto sulle coltivazioni alimentari. Nel pacchetto atteso nei prossimi giorni (forse il 16 dicembre, ma potrebbe essere ulteriormente posticipato) dovrebbe rientrare anche il rinvio della revisione del sistema che misura le emissioni reali delle ibride plug-in, oggi basato su dati di laboratorio poco rappresentativi dell’uso quotidiano. La possibile proroga offrirebbe respiro all’industria europea, impegnata nella trasformazione verso l’elettrico. Ma per le associazioni ambientaliste rischia di diventare una porta aperta a nuove deroghe, rallentando la decarbonizzazione del settore e mettendo l’Europa in una posizione meno competitiva rispetto alla Cina, ormai leader nel mercato delle batterie. L'articolo UE valuta una proroga di cinque anni per le auto ibride prima dello stop ai motori termici nel 2035 proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Stop ai motori termici nel 2035, cresce il fronte UE per rivedere tempi e regole della transizione
Il percorso europeo verso lo stop ai motori termici dal 2035 torna in discussione. Sei leader dell’Unione – tra cui la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e il premier polacco Donald Tusk – hanno inviato una lettera alla Commissione europea per chiedere una revisione della normativa che impone la vendita esclusiva di veicoli a zero emissioni entro la metà del prossimo decennio. Una posizione che, secondo fonti diplomatiche, è condivisa anche dalla Germania, ormai sempre più aperta a un allentamento della scadenza per proteggere la propria industria automobilistica. Nel documento, indirizzato a Ursula von der Leyen, i premier di Italia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca e Bulgaria chiedono che anche dopo il 2035 restino consentite soluzioni come ibridi plug-in, sistemi range extender e celle a combustibile. L’obiettivo è evitare un bando totale della combustione interna, favorendo un approccio più graduale e tecnologicamente neutrale. “La competitività europea non può trasformarsi in un deserto industriale”, avvertono i leader, sottolineando che nessuna tecnologia rappresenta da sola la via alla decarbonizzazione e che imporre un’unica soluzione rischia di soffocare ricerca e competizione. La pressione sul tema arriva in un momento complesso per l’automotive europeo. Il rallentamento della domanda di elettrico, l’ascesa dei costruttori cinesi e i dazi statunitensi pesano sulle strategie di colossi come Stellantis, Volkswagen e Renault, che devono pianificare investimenti miliardari senza avere certezza sul quadro regolatorio. Anche i costi energetici e del lavoro nell’UE stanno spingendo alcune aziende verso tagli e delocalizzazioni. La Francia, in controtendenza, punta invece su una “preferenza europea” per i veicoli elettrici per difendere la produzione interna. La Commissione sta preparando un pacchetto di misure a sostegno dell’industria automobilistica, inizialmente atteso per il 10 dicembre ma ora probabile per il 16 dicembre, con la possibilità di un ulteriore slittamento a gennaio. Tra le ipotesi, anche una revisione – più o meno ampia – del phase-out del 2035. Il ripensamento riflette il cambio di scenario: quando la normativa fu approvata nel 2023, le prospettive dell’elettrico apparivano più ottimistiche. Oggi, la realtà di un mercato più lento del previsto e della crescente concorrenza asiatica obbliga l’UE a interrogarsi sul ritmo della transizione. I prossimi mesi diranno se Bruxelles confermerà la linea dura o aprirà alla flessibilità chiesta da una parte crescente degli Stati membri, Germania inclusa. L'articolo Stop ai motori termici nel 2035, cresce il fronte UE per rivedere tempi e regole della transizione proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La classe operaia dimenticata: o l’Italia fa il salto o perderà la sua politica industriale
La cronaca giornaliera è percorsa dalle manifestazioni degli operai ILVA di Genova e Taranto, da diffuse vertenze sull’occupazione in molte parti del Paese, ma l’opinione pubblica ne è colpevolmente distratta. Quella che era una volta una componente centrale della nostra società – la classe operaia – sembra svanire nelle preoccupazioni di una società in affanno e pericolosamente trascinata sul crinale irresponsabile di un riarmo in previsione di una guerra. Diversamente da quanto abitualmente trattato su questo blog, questa volta vorrei porre all’attenzione dei commenti dei lettori la venuta meno di una politica industriale in un Paese manifatturiero come il nostro, spinto da un governo imprevidente ad occuparsi della notizia dell’oggi che spinge via quella di ieri, senza che ci si ponga in una dimensione di futuro desiderabile. Come è possibile, mi chiedo, che decine di milioni di lavoratrici e lavoratori si rechino in fabbrica, in ufficio, nei capannoni della logistica o dei supermercati, a scuola o nei campi coltivati, con salari inadeguati e senza più un’idea di affrancamento sociale, di riconoscimento di ruolo di “liberazione” di un lavoro che occupa un’intera porzione della propria vita? Gli scioperi generali e le manifestazioni che le organizzazioni sindacali stanno organizzando in questi giorni avranno pure a riferimento un obbiettivo per l’intera classe politica italiana che riguardi le condizioni non solo materiali, ma la sicurezza e la sensazione di essere utili alla società con una prestazione lavoro che liberi energie, anziché esporre a frustrazioni e precarietà? Questa fine d’anno percorsa da vertenze bistrattate serva allora a riflettere sulla crisi dell’attuale sviluppo italiano, incapace di cogliere nelle emergenze e nella crisi di questo cambio d’epoca uno spazio di rilancio di solidarietà che non può che fare riferimento ad una componente sociale che sacrifica ogni giorno energie non solo per se stessa. Come non riflettere sulla crisi climatica e sull’inadempienza delle classi politiche nazionali e globali che continuano a riprodurre il modello industriale dei fossili e non colgono nella transizione energetica verso le rinnovabili una chiave anche di un riscatto del senso del lavoro? Cosa ha da dire Pichetto Fratin su un orizzonte nucleare da lui auspicato, ma tutt’altro che praticabile, privo di indipendenza energetica per il Paese, quando molte delle crisi in corso potrebbero avere uno sbocco in una politica industriale che veda nel vento, nel sole, nelle batterie e nei pompaggi la soluzione anche occupazionale per le nuove generazioni? Cosa significa per l’attuale politica la vertenza pluriennale dell’ex-GKN o dell’eolico offshore a Civitavecchia o il taglio dei finanziamenti alle comunità energetiche, colpevolmente ritardati a danno non solo dell’occupazione e dell’ambiente locale? Non ho dubbi sul fatto che possiamo uscire dalla stretta attuale rimettendo mano – come accennavo – alla politica industriale nazionale e ad una mobilitazione positiva del mondo del lavoro. Proprio ciò che intendono fare i rappresentanti sindacali che sanno bene quanto costi scioperare per un futuro che è tutt’altro che a disposizione in un oggi così spiazzante, eppure da perseguire con un’urgenza e un’attesa praticabili. Non sarebbe male se un salto di prospettiva fosse chiesto ad un governo che rimuove le emergenze con conseguenze inquietanti per le nuove generazioni che hanno il diritto di sperare. E’ proprio una prospettiva nuova in cui collocare il mondo del lavoro in pace e non in guerra che può costituire un salto nella dimensione politica e sociale cui il Paese è chiamato. Ed allora, anche una politica industriale ed energetica che incoraggi il mondo del lavoro – e non solo – in una direzione coraggiosa e riconoscibile potrebbe rimuover tutte le pigrizie che fanno del periodo attuale uno dei più insidiosi di questo inizio secolo. L'articolo La classe operaia dimenticata: o l’Italia fa il salto o perderà la sua politica industriale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Se volete dare un occhio al futuro verde del pianeta, fatevi un giro in Cina
Chi avesse voglia di dare un’occhiata al possibile futuro verde del pianeta e alla transizione ecologica prodotta dall’innovazione tecnologica, dovrebbe farsi un giro in Cina. La Cina, va detto, consuma più energia di qualsiasi altro paese al mondo. Ha un appetito vorace, alimentato per decenni dal carbone, che l’ha resa il più grande emettitore di CO₂ del pianeta. Ma da almeno dieci anni, questo gigante con una popolazione di un miliardo e 400 milioni di persone è impegnato in una svolta epocale. Il motivo? Raggiungere un obiettivo ambiziosissimo, il cosiddetto “doppio carbonio”: arrivare al picco delle emissioni entro il 2030 ed ottenere la neutralità carbonica entro il 2060. A che punto siamo? Nel 2024, per la prima volta, la capacità di energia non fossile installata in Cina ha superato il 60 per cento del totale nazionale, toccando i 2,2 miliardi di kW. Il resto, circa il 40 per cento, proviene ancora da fonti tradizionali, in primis il carbone, che rimane un pilastro per la stabilità della rete elettrica. Si tratta di una transizione dove le tecnologie avanzate vanno a braccetto con un ripensamento radicale dell’intero sistema, una vera e propria rivoluzione energetica in casa. E per capire come questo futuro stia prendendo forma, bisogna guardare a una provincia lontana dai centri del potere finanziario e politico cinese, lo Xinjiang: 450 miliardi di tonnellate di riserve di carbone (il 40 per cento del totale cinese), un potenziale di energia solare pari al 40 per cento del potenziale tecnico nazionale e uno eolico di 1 miliardo di kW. Siamo ad Urumqi, una cittadina vicina al confine nordoccidentale della Cina, sotto la Mongolia, a pochi kilometri dal deserto del Gobi. In una sala di controllo circondata da schermi olografici dove scorrono flussi di dati in tempo reale, pochi tecnici supervisionano 66 centrali energetiche sparse in una regione grande cinque volte l’Italia. È il Centro Operativo Intelligente di Urumqi, avamposto tecnologico e cervello operativo della più audace transizione energetica del pianeta. È infatti qui, in questa provincia remota battuta dai venti e bruciata dal sole, che si gioca una partita che potrebbe tra qualche decennio ridefinire gli equilibri energetici globali e per ora la Cina ha in mano tutti i jolly. La Cina, a differenza delle nazioni occidentali, ha infatti capito da tempo una verità semplice ma rivoluzionaria: chi controllerà l’energia del futuro controllerà l’economia del XXI secolo e l’energia del futuro sono le rinnovabili. Xinjiang, con le sue distese assolate dove soffia vento costantemente, è il Texas cinese e le rinnovabili il suo petrolio verde. Mentre l’Occidente dibatte sul costo della transizione ecologica, la Cina agisce and leads by example producendo una visione sistemica e comprensiva dello sfruttamento di diverse risorse. Il progetto “Energia dallo Xinjiang al resto della Cina” trasforma così l’abbondanza locale in uno strumento di politica nazionale. Corridoi a ultra-alta tensione (UHV) – come Hami-Zhengzhou e Zhundong-Anhui – sono le moderne arterie di un sistema circolatorio che pompa energia pulita verso le fabbriche e le città della costa orientale. Fino al 2024, hanno esportato oltre 800 miliardi di kWh, alimentando 22 province. È una strategia win-win: le regioni orientali ricevono energia a basse emissioni, lo Xinjiang si sviluppa e Pechino consolida il controllo su un’area strategicamente sensibile. Il Centro di Urumqi è il simbolo di questa regia centralizzata. Non è una semplice sala controllo, è un sistema nervoso digitale che, attraverso un’intelligenza artificiale avanzata, gestisce 170 impianti per una capacità di 11,12 milioni di kW. Trenta di questi funzionano già in modalità “presenza zero” o semiautomatica. Questo modello risponde a un’esigenza duplice: massimizzare l’efficienza e minimizzare l’errore umano in un territorio sterminato. È l’applicazione pratica di un principio di sviluppo: la fusione tra pianificazione statale e tecnologie d’avanguardia che crea un acceleratore di sviluppo senza pari. Perché la Cina ci riesce mentre l’Occidente arranca? La risposta non è solo tecnologica. È politica e sociale. Il vantaggio del ritardatario: la Cina si è industrializzata tardi, saltando fasi inquinanti che per l’Occidente sono state un costo irrecuperabile. La pressione sociale: i cinesi vogliono aria pulita. L’inquinamento non è più un prezzo accettabile per la crescita. Il calcolo economico dello Stato: l’inquinamento ha un costo sanitario enorme. Investire nel verde non è solo una questione ambientale, ma un modo per ridurre la spesa pubblica sanitaria. L’Occidente, d’altro canto, è intrappolato in un paradosso: ha firmato gli Accordi di Parigi, ma manca la volontà politica di affrontare i costi di una riconversione industriale radicale. Qui, invece, la transizione è una priorità nazionale assoluta. La lezione di Urumqi non è solo per la Cina. Questo modello è un prodotto esportabile nell’ambito della Belt and Road Initiative e per i partner dei Brics. Immaginate questo sistema applicato ai deserti dell’Arabia Saudita, dell’Iraq o del Nord Africa. Il centro di Urumqi è il prototipo di una futura rete energetica continentale, una “Via della Seta dell’elettricità” che potrebbe unire l’Eurasia con flussi di energia pulita. In un mondo dove Europa e Asia sono fisicamente un unico continente, questa non è fantascienza. È geopolitica. Mentre da noi si negozia e si rimanda, qui, nel deserto del Gobi, il futuro energetico del mondo è già in funzione. E dall’Occidente non arriva la concorrenza, ma solo i visitatori, come me, a guardare e a prendere appunti. L'articolo Se volete dare un occhio al futuro verde del pianeta, fatevi un giro in Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
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