“Le necessità della difesa non devono diventare occasione per contribuire al
riarmo globale di questi anni, distraendo risorse dalla costruzione di una
comunità più umana”. La Conferenza Episcopale Italiana torna a parlare di pace e
mette in guardia dalla corsa al riarmo avviata dai Paesi europei (e non solo).
Nella nota pastorale “Educare alla pace disarmata e disarmante“, approvata
dall’assemblea generale che si è svolta ad Assisi, la Cei rilancia gli appelli
di Papa Leone e richiama alla necessità di formare le coscienze per uscire dalla
logica della guerra. Una nota nella quale i vescovi toccano diversi argomenti:
dal web all’obiezione di coscienza – per una difesa non militare – fino al
servizio civile obbligatorio. La Cei propone anche di rivedere la figura dei
cappellani militari proponendo forme differenti “non legate” agli ambienti della
forze armate.
“UN’ALTRA STRADA È POSSIBILE”
I vescovi ricordano che l’Europa – che è stata “costruita in questi settant’anni
non con rivendicazioni o sopraffazioni, ma come cammino condiviso” – “va
coltivata espandendone tutte le potenzialità di pace”. Ma “appaiono invece
contraddittorie rispetto a tale orizzonte”, scrive la Cei, “quelle proposte di
pesanti investimenti sul piano degli armamenti e delle tecnologie militari che
hanno fatto seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia”. Per
questo l’Europa deve ricordare le proprie origini e tornare alla sua essenza:
“In un tempo in cui si tornano a invocare il conflitto e la guerra, guardando
all’altro solo come nemico e minaccia, l’Unione Europea testimonia che un’altra
strada è possibile, che la logica della violenza non è inevitabile”.
OBIEZIONE DI COSCIENZA E SERVIZIO CIVILE
“In un tempo in cui governi, attori politici e perfino opinioni pubbliche
considerano la guerra come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti,
occorre il coraggio di vie alternative per dare sostanza al realismo
lungimirante della cura della dignità umana e del creato. Vale allora la pena –
si legge nella nota pastorale – di far memoria di esperienze civili di grande
spessore, cui i cattolici hanno contribuito. Una di queste è quella che ha
portato a scoprire che la difesa della patria non si assicura solo con il
ricorso alle armi, ma passa per la cura della civitas, attraverso l’obiezione di
coscienza e il servizio civile”, scrive la Cei per la quale “un servizio civile
obbligatorio sarebbe un investimento per dare alle prossime generazioni
l’occasione di praticare la cura per la dignità della persona umana e per
l’ambiente, per opporsi all’ineguaglianza che si fa sistema sociale,
all’inimicizia come qualifica delle relazioni fra esseri umani e popoli, alla
soggezione dell’altro alle proprie ambizioni”.
I CAPPELLANI MILITARI
La Cei, tra le proposte concrete, parla anche dei cappellani militari e della
necessità di pensare a figure alternative: “C’è anche una forma di difesa della
patria che si compie nelle Forze armate ed essa non può lasciare indifferente la
Chiesa: anche qui occorrono forme di assistenza spirituale che esprimano
un’attiva sensibilità di pace”. Da qui la proposta di ” forme nuove di
assistenza spirituale per le Forze armate, che tengano anche conto dei
cambiamenti che hanno interessato il ruolo delle donne e degli uomini che
compiono questa scelta”. “Ci chiediamo anche se non si debbano prospettare
diverse forme di presenza in tali contesti, meno direttamente legate a
un’appartenenza alla struttura militare: esse consentirebbero maggior libertà
nell’annuncio di pace specie in contesti critici”, scrivono i vescovi.
WEB, ANTISEMITISMO E ISLAMOFOBIA
Nella nota si parla an che di web e media “luoghi in cui la pace va coltivata
quotidianamente”, secondo la Cei. “Portare nei social media una visione
nonviolenta significa contrastare la polarizzazione, promuovere linguaggi
rispettosi, educare al discernimento critico e aprire spazi di dialogo
autentico. Le grandi potenzialità della comunicazione digitale possono così
essere orientate all’incontro, alla ricerca comune della verità e alla
costruzione di comunità più giuste, nelle quali la cura reciproca prevalga sulla
logica dello scontro”, scrive la Conferenza episcopale nel documento. Infine i
vescovi lanciano l’allarme sull’aumento della diffusione di “antisemitismo,
islamofobia e cristianofobia“: “È drammaticamente cresciuto l’antisemitismo, che
riprende antiche falsità contro gli ebrei e che viene oggi alimentato da una
fallace identificazione della realtà ebraica con inaccettabili recenti pratiche
dello Stato d’Israele” mentre con “l’islamofobia” “si alimenta l’idea confusa di
una minaccia di islamizzazione dei popoli europei o di una ‘sostituzione
etnica’, per instillare nella quotidianità paura”. “Nei due casi, slogan e
campagne politiche favoriscono attacchi violenti contro le rispettive comunità“,
denuncia la Cei.
L'articolo I vescovi contro la corsa agli armamenti: “Necessità di difesa non
siano occasione per contribuire al riarmo globale” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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Negli stessi giorni in cui il Parlamento europeo votava prima (26 novembre) per
respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi Ue, ammettendo in esso
anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’uranio impoverito, al
fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27
novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump
perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo
un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la
Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli
stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note,
pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere
citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e
libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media.
“È con stupore – scrive Morin – che una parte degli umani considera il corso
catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con
incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata
una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli
Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente
l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se
fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto
sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere
l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di
guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un
compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle
proposte del libro Di guerra in guerra del 2023, nda], gli europei
contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la
policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire
nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla
autodistruzione”.
Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese,
generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del Sindaci francesi (merito dei
militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive
città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché
la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al
prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale
francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27
novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani
francesi il servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che
sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile.
Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha
annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva
militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo
in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria),
per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in
aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come
evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente
contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per
questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria,
al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale.
Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova
massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per l’”attacco preventivo” alla
Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale
Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica. Al quale
bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per
la guerra”.
Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi
azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è
necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla
guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella
dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i
fronti delle guerre in corso (1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai
centri di reclutamento) – nella dimensione interna promuove il rifiuto
preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della
guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi.
E’ una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare
l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro grande
saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti:
“Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto
essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della
ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le
questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine.
Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo
del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di
tutto il mondo, uniamoci” (Il terso assente, 1989). Per difenderci dalla guerra,
anziché nella guerra.
L'articolo Edgar Morin contro riarmo ed escalation militare: non un soldo, né un
soldato per la guerra proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il videomessaggio sul grande schermo di Kaja Kallas alla “Maratona per la Pace”
della Cisl, nel quale dice che “se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla
guerra” sembra tratto da una pagina di 1984 di George Orwell, dai cui schermi il
Grande Fratello ribadiva le formule “la pace è guerra, la libertà è schiavitù,
l’ignoranza è forza”.
La proposta della Kallas, ripetuta ossessivamente dall’establishment della Ue e
dai vertici della Nato, non è proprio innovativa e tantomeno ragionevole: deriva
dalla massima latina si vis pacem para bellum, ampiamente superata dal moderno
pensiero razionale europeo, laico e religioso, che ne rivela la sperimentata
controproduttività. Che pure l’Alta rappresentante per gli affari esteri e
vicepresidente della Commissione europea, che non perde occasione di citare i
“valori” europei, dovrebbe conoscere.
Da Erasmo da Rotterdam, “La guerra piace a chi non la conosce” (Adagia), ad
Immanuel Kant, “Gli eserciti permanenti devono col tempo scomparire del tutto.
Infatti pronti come sono a mostrarsi sempre armati a questo scopo minacciano
costantemente gli altri Stati e spingono questi a superarsi a vicenda nella
quantità degli armati…“ (Per la pace perpetua); da Bertrand Russell, “La
preparazione alla guerra, lungi dall’essere un mezzo per prevenire la guerra, è
in realtà la causa principale delle guerre. (…) Gli armamenti e le alleanze
militari creano un clima di sospetto e paura che porta inevitabilmente al
conflitto” (Common Sense and Nuclear Warfare), a Papa Giovanni XXIII, “La guerra
è aliena alla ragione” (Pacem in terris), la deterrenza militare è disvelata
nella sua infondatezza e logica perversa che alimenta la minaccia che dichiara
di voler prevenire. E’ il dilemma, o paradosso, della deterrenza, come ho
spiegato più volte.
Del resto, già nella lettera che Albert Einstein inviò a Sigmund Freud nel
luglio del 1932, quattordici anni dopo “l’inutile strage” della Grande guerra e
sette anni prima della Seconda guerra mondiale, ponendo al padre della
psicoanalisi la domanda cruciale su come liberare l’umanità dalla guerra – già
consapevole che la risposta a questa domanda “è una questione di vita o di morte
per la civiltà da noi conosciuta” – attribuisce la causa principale delle guerre
“al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi in ogni Stato e incuranti di
ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella
fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro
interessi personali e ampliare la loro personale autorità”.
E’ quel gruppo di potere, sia interno ad ogni Stato che trasversale ad essi, che
il presidente (ed ex generale) Usa Dwight D. Eishenhower, nel discorso di addio
alla presidenza del 1961, avrebbe definito “complesso militare-industriale”, che
dal riarmo globale per la preparazione della guerra ha tutto da guadagnare,
tanto quanto dal disarmo per la preparazione della pace ha tutto da perdere.
Ma, si chiedeva Einstein scrivendo a Freud, com’è possibile che questa minoranza
che fa affari con le guerre “riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa
del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e perdere?” Anche su questo lo
scienziato delinea nella lettera a Freud una risposta che ha pienamente valore –
o addirittura maggiore – anche per il nostro presente: “La minoranza di quelli
che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la
stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose.
Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli
strumenti della propria politica”. Salvo che per la chiesa cattolica, che man
mano si è posizionata dalla parte del pacifismo anziché della “guerra giusta”,
per il resto la lettera di Einstein mette a fuoco i dispositivi formativi e
informativi che ancora sovraintendono alla riconversione bellicista delle menti,
necessaria alla riconversione bellica dell’economia e del lavoro al servizio
della guerra. Alimentando la costruzione di un nemico minaccioso che, intanto,
disarma i paesi di fronte alle minacce reali.
Mentre per preparare la guerra la spesa militare italiana ha superato nel 2025
la cifra dei 35 miliardi di euro – puntando progressivamente a quel 5% del Pil
che significherà 140 miliardi di euro all’anno, sottratti agli investimenti
sociali e civili – ancora nel 2020 le organizzazioni per la pace e il disarmo
denunciavano che per un caccia F-35 si spende la stessa cifra che serve per
allestire 3.244 posti in terapia intensiva (vedi ricerca Greenpeace): proprio
quell’anno l’Italia fu “attaccata” dalla pandemia da Covid e si trovò negli
hangar decine di caccia F35 – dentro un programma pluriennale di spesa che ne
prevede l’acquisto di 125 – e gli ospedali senza sufficienti posti di terapia
intensiva, costringendo i medici a dover scegliere tra chi curare e chi no.
Ne avevo parlato nel libro che proponeva di Disarmare il virus della violenza.
Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie (GoWare),
pubblicato nel 2021, ma sono stato ampiamente smentito dai fatti. Peccato che
oggi anche la Cisl, ospitando la narrazione obsoleta, irrazionale e pericolosa
di Kaja Kallas, abbia iniziato a preparare, di fatto, i lavoratori
all’accelerazione della riconversione al militare dell’industria civile e della
riconversione alla guerra dell’economia sociale. Anziché a lottare per il
disarmo e la pace.
L'articolo Kaja Kallas alla Cisl invita a prepararsi alla guerra: una narrazione
pericolosa che ora colpisce anche i lavoratori proviene da Il Fatto Quotidiano.