La sua aristocratica solitudine è il paradigma del genio dorato che ogni
scrittore vorrebbe abitare. Jane Austen per chi scrive è uno scandaglio da cui
discendere. Un poggio a cui guardare. Una traduzione romantica del mestiere di
scrivere. Anche se lei non cercava il sentimento, il suo, dicono i bibliografi e
certa critica, era il romanzo della conoscenza. Per altri, l’elemento vacuo,
estetico, prevaleva sul contenuto. Ma Jane doveva salvarsi, utilizzando –
riferiscono studi accademici – la misura formale. Dunque a metà. Salvarsi da una
sensibilità estrema. Malgrado fossero romanzi connotati da un dichiarato
antiromanticismo, in lei riscontriamo molto romanticamente piuttosto i tratti di
una eroina ribelle, emancipata, proprio come vorremmo immaginarci un’artista del
tempo.
Una vita quieta, di una pacificità agiata, annoiata sì, con un paio di rinunce e
un amore straziato, interrotto da una morte precoce. Basta a rendere la
malinconia epica e struggente che la circonda, complice la nostra
intenzionalità. Crinoline e miniature di un mondo alto-borghese passato al
monocolo: è riuscita a nutrire un sogno corale, la leggerezza della lettura
avrebbe permesso al lettore una fuga salvifica, può darsi l’identica fuga che
moveva la creatività fervida di una giovane donna, la scrittrice che rifiutò il
matrimonio e le banali pratiche quotidiane in luogo di una vita breve,
incompiuta, confacente a restituirci una figura perciò leggendaria.
Eppure ricordiamo meglio lei, che altre donne femme de lettres, visto che il
secolo aveva fornito un tale primato: Eliza Haywood, Fanny Burney. E Jane. Jane
pare si fosse ispirata a una frase di un personaggio della Burney per Orgoglio e
pregiudizio. Il personaggio era Cecilia: “Tutta questa sfortunata faccenda è
stato il risultato di orgoglio e pregiudizio”.
Sfortunata faccenda, con quella noia colta, detta superficialità mondana, che in
realtà sprofondava in elevatissime certezze: l’amore. Sempre conficcato in una
qualche iconica fragilità. Una impossibilità. Una lettera non recapitata. Un
ballo mancato.
La Austen non amava la mondanità di provincia. Si racconta del deliquio che la
colse, quando ancora era una giovinetta, appreso che avrebbe dovuto trasferirsi
a Bath, una innocua, tediosissima città termale. Non amava quel luogo, non amava
la gretta civettuola socialità. Da lì ne trasse il romanzo Northanger Abbey. Una
accusa celata all’universo grasso e fastoso di una mediocre cittadina di
provincia.
Per me che ho coltivato la scrittura nella identica solitudine, rinuncia e
avversione noiosa, la Austen era un modo di essere necessario per raccontare la
vita. Romanticamente dicevo, di quel romanticismo, ironico e amaro insieme, o
anche del suo esatto contrario. Un antiromanticismo che giocando con la soglia
più a buon mercato del sentimento ne enuncia la tragicità segreta.
Figure sottili, delicate, eleganti. La Austen ne è il simbolo. Ogni scrittrice,
chissà, avrà pensato un po’ anche a lei, lungo la strada di solito erta degli
inizi, alla sua giovinezza, tradita dal destino che non si è fermato in tempo a
renderla felice, amata di quell’amore necessario a vibrare dentro un’esistenza,
finanche vita: che non sia soltanto uno scorrere ordinato e feroce di silenzi o
ripetute quotidianità.
Così morirà abbastanza presto, in anticipo sullo sfiorire irreparabile. Una
grazia in fondo.
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necessario proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Quando caddero le prime bombe, ero sdraiato a pancia in giù sul tappeto in
camera mia ad ascoltare la radio – trasmettevano Suffragette City di David
Bowie: di colpo uno stridio metallico squarciò l’aria e un’esplosione si abbatté
sulle nostre tende, spazzandole via dal loro binario. La pressione fu così
violenta che mi sentii svenire, come se fossi rimasto appeso a testa in giù alla
sbarra troppo a lungo. Tutti gli impianti d’allarme della strada andarono nel
panico, io invece no. Non ancora. Ben presto sarei stato in preda a un panico
costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero
tutt’al più sbalordito.
Sarajevo, 1992. Il mondo, si sa, non è mai stato un posto particolarmente
rassicurante, ma di solito i disastri arrivano con un certo preavviso, un
telegiornale allarmato, magari una mezza crisi internazionale. Non per Tijan
Sila, che a undici anni si ritrova il fracasso della storia (quella vera, quella
con le bombe) a sfondargli la finestra di casa mentre in sottofondo gracchiava
un pezzo di David Bowie. Un’immagine che da sola basterebbe a definire l’intera,
perversa assurdità del conflitto balcanico: la musica pop occidentale che fa da
colonna sonora all’esplosione della civiltà.
Sila, oggi scrittore, insegnante e membro di una band punk, in questo Radio
Sarajevo (traduzione di Cristina Vezzaro; Voland) non fa prigionieri e non cerca
la facile commozione. Ci sbatte in faccia la verità con la brutalità onesta di
chi quella realtà l’ha vissuta, cresciuto – per forza di cose – tra i brandelli
di una quotidianità andata in pezzi. È un romanzo di formazione, certo, ma uno
di quelli che ti lasciano addosso il cattivo odore della polvere da sparo e il
sapore agrodolce della sopravvivenza.
Il punto nevralgico, quello che fa tremare le fondamenta morali del lettore
benpensante, è il modo in cui la guerra, dopo lo shock iniziale, si trasformi in
una “quasi abitudine”. L’orrore si banalizza, diventa sfondo, e in quel vuoto si
insinua la noia. E qui Sila centra il bersaglio, come solo uno che ha giocato a
nascondino tra le rovine può fare: mentre i genitori, simboli dell’inadeguatezza
adulta, si rivelano inermi di fronte al crollo del loro mondo, l’undicenne Tijan
e i suoi amici Rafik e Sead si rimboccano le maniche.
Non c’è spazio per la retorica dell’infanzia rubata. C’è solo l’urgenza cinica,
pragmatica, di campare. Saccheggi, mercato nero, e lo scambio più beffardo e
geniale: riviste pornografiche barattate con i soldati per dolciumi. È
un’economia di guerra che smaschera ogni ipocrisia: l’eros come merce di
scambio, l’innocenza dei bambini che si contamina per un po’ di zucchero. La sua
è la generazione dei “dimenticati,” come lui stesso la definisce, quella che ha
imparato a leggere il mondo non sui libri di scuola (chiusi) ma sui bossoli in
terra.
Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e iniziammo a lanciare il pallone contro
una delle porte dei garage. Dovevamo farlo rimbalzare in modo che ci ritornasse
dritto tra le braccia. La guerra si notava anche dal fatto che nessun vicino
apriva di colpo la finestra per lamentarsi del rumore – ormai eravamo abituati a
decibel ben più alti di quelli di uno Spalding che sbatteva contro una lamiera
d’acciaio, e poi era un suono di pace: il pallone e la porta si scontravano come
i piatti di un’orchestra, come grandi cimbali nascosti nella penombra,
nell’odore di fieno marcio.
Lo stile è avvincente, diretto, con quel tono tragicomico che disinnesca il
patetismo e lo trasforma in una risata strozzata, in un sardonico atto di
resistenza. Non è un libro “commovente” nel senso consolatorio del termine, è un
libro necessario. Non ci spinge a piangere, ma a svegliarci, a guardare il volto
della catastrofe senza i filtri del perbenismo occidentale. Il prestigioso
Premio Ingeborg Bachmann, vinto da Sila nel 2024, non è un riconoscimento
letterario qualsiasi, è una consacrazione alla Verità, quella verità cruda e
inopportuna che questo romanzo restituisce pienamente.
Radio Sarajevo è una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe, un monito
che suona forte tra le macerie. Se volete una fotografia lucida e senza sconti
di cosa significhi crescere quando il mondo decide di mettersi a sparare, questo
è il libro da leggere.
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catastrofe proviene da Il Fatto Quotidiano.
Gojko Božović è nato nel 1972 a Pljevlja, in Montenegro, e vive a Belgrado, dove
si è laureato alla Facoltà di Filologia. Poeta, saggista, critico letterario,
editore e fondatore della casa editrice Arhipelag, possiede una rara proprietà
della parola che ha sperimentato il senso dell’esperienza nelle sue pieghe più
nascoste, in cui ogni cosa vissuta è potenziale parola poetica. Il contenuto è
collegato al titolo stesso delle poesie e chiarisce il concetto della
originalità stilistica del verso. Poeta minimalista malinconico, Gojko Božović,
con temi che sembrano ovvi, ha creato una riflessione profonda sulle cose e sul
nostro sguardo su di esse, per mezzo di una lingua metaforica moderna, sia nella
forma che nel contenuto.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesia tra cui: Cinema sotterraneo (1991),
Poesie sulle cose (1996), Arcipelago (2002), Gli dei vicini (2012), Mentre
scompariamo nel buio (2021). Tra i saggi pubblicati molti riguardano la storia
della poesia serba: I luoghi che amiamo. Saggi sulla letteratura serba (2009), I
regni senza confini. Saggi sulla poesia serba del XX e XXI secolo (2019),
Nascita della poesia (2023). Tradotto in diverse lingue, ha ricevuto premi
nazionali e internazionali tra cui il premio italiano “Europa Giovani
International Poetry Prize”. È ideatore e organizzatore del Beogradski festival
evropske književnosti (Festival belgradese di letteratura europea).
S.Š
Odisseo
Una volta che me ne sono andato,
E non tornerò più.
Non tornerò più.
Verrà qualcun altro,
Con il mio nome e con il mio volto.
Parlerà con la mia lingua
E avrà la cicatrice
Sulla gamba destra.
Nessuno mi riconoscerà per questo.
Non tornerò più.
Musica per le tue orecchie
Le cose importanti sono trascorse.
Tutto ciò che doveva è già accaduto.
I re sono caduti, i miti raccontati,
La Repubblica distrutta con l’indifferenza nelle botti.
Il vino, instabile, matura nelle botti
I fiumi sono incanalati nei tubi
E i tubi buttati nella spazzatura.
Sono ancora lì, perché la spazzatura
Non butta niente, non si
Rimette in una posizione di alternativa.
Quello che non è accaduto
È la vita in cui non siamo entrati,
Sono alcune vite
Che non sono né nostre, né altrui,
Né dei nati, né dei non nati,
Né la vita, né la morte.
Bisogna rinnovare il racconto,
Alla foce soddisfare la sete
Sentire la voce del vento
Tra i corpi dei palazzi.
I giovani, uomini chiassosi
Distruggeranno le lettere del canone
Nel loro fischio sarà composto
Il concerto soltanto per le tue orecchie.
Quando tutto sarà passato
Una volta, quando tutto sarà passato,
E tutto passerà,
Tutto quello che dura per giorni
E per mille giorni,
E anni
E per mille anni,
Finirà in un giorno,
Quando tutti alzano la testa
Chinata dalla paura,
Di menzogne a poco prezzo
E di costosi prestiti,
In un primo momento,
Non ci sarà nessuno vicino,
Ci sarà lo spazio vuoto,
Libero spazio dove sarai solo,
E tutto ciò che saprai sarà: che sei solo,
Ognuno s’incontrerà
Solo con se stesso,
Un giorno, quando tutto finirà.
Il taglio
Quando sono nato
Avevo
Più anni di adesso
Prima di questo
La mia memoria
Era migliore
Solo che dopo
Perdevo tempo
Tra due parole
Tra due parole
Tra due secoli
Giaceva la poesia
La parola è troppo carnale
Per essere poesia
La poesia è bella
Quanto lo permettono
Le circostanze
Come in cielo
Così in terra
Teoria della discarica
Alla discarica incantata
Nella patria delle rose
È seduta bellezza la bestia
La discarica è
Tra sogno e realtà
Nel vecchio posto
Mia cara bellezza
Mia amata bestia
Parla
In una delle sue
Lingue mute
Parla
Mentre da tutte
Le parti del mondo
Ti saluta
Graziosa bruttezza
Il cimitero di casamatta
Dalla casamatta
Arriva l’umanesimo
Là è il posto
Di lavoro della Bibbia
Da lì arrivano
Divinità e i giusti
con l’agnello
Tra i denti
Dal cimitero di casamatta
Si va soltanto
In paradiso
Perché altre strade non ci sono
E neppure le casematte.
Il diluvio
Nel baule di Noè
È entrato tutto il mondo
Tempo e spazio
Uno di ciascuno
C’era
Tutto c’era
Perché
Le forme si ripetono
Il diluvio ha coperto tutto
Tranne le anime che sono
Nel mondo alluvionato.
La scelta
Noi non abbiamo scelta,
E la nostra scelta è facile.
All’alba raccogliere la rugiada.
A mezzogiorno entrare nell’ombra.
Al crepuscolo sapere che
Il mattino è più saggio della sera.
E riflettere
Mentre aspetti le notizie.
Mentre aspetti amici e nemici,
Mentre niente dici e ancor di più
Mentre parli,
Mentre gli altri parlano
E soprattutto mentre stanno zitti,
E mentre la città in cui vivi
È la stella solitaria
All’orizzonte lontano.
Dietro lo specchio dell’automobile
Conosco molto bene le immagini che passano
Da ambedue le parti della strada
Nella notte buia
Dietro lo specchio dell’automobile.
Il buio nasconde le immagini
Che chiare vedo nel ricordo.
Tante volte sono passato da quella parte
Che so esattamente dove sono le cose.
Sono io quel movimento
Tra le immagini nel buio
E le immagini nel ricordo.
L'articolo Gojko Božović, poeta minimalista (Traduzione di Stevka Šmitran)
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