L’Italia scivola indietro: lo spazio civico è “ostruito”. Per la prima volta, il
Belpaese entra nella fascia degli Stati dove lo spazio civico è “fortemente
contestato”. È il verdetto del Civicus Monitor 2025, un’alleanza globale di
organizzazioni della società civile e attivisti che lavorano per rafforzare
l’azione dei cittadini e la società civile in tutto il mondo. Da “limitato” a
“ostruito”, ponendo l’Italia nello stesso gradino occupato dall’Ungheria di
Viktor Orbán. Una definizione che non parla di autocrazie conclamate ma di
democrazie dove associazione, protesta e libertà di stampa esistono ma
inciampano in ostacoli crescenti.
Il rapporto – Power Under Attack 2025, pubblicato martedì 9 dicembre – inserisce
l’Italia tra i 39 Paesi su 197 dove la partecipazione civica è compressa da
restrizioni legali, pressioni amministrative e un clima politico sempre più
avverso al dissenso. A spingere verso il basso l’Italia è soprattutto il decreto
sicurezza, ribattezzato all’estero “norma anti-Gandhi”: un testo approvato a
giugno che introduce nuovi reati e inasprisce le pene per forme di disobbedienza
civile non violenta. Blocchi stradali fino a due anni di carcere, proteste
contro infrastrutture fino a sette, resistenza a pubblico ufficiale fino a
venti. Più dure anche le norme su occupazioni, sit-in e contestazioni nei centri
per migranti.
“La legge sulla sicurezza è solo una delle misure che hanno ristretto lo spazio
civico”, afferma Tara Petrović, ricercatrice per l’Europa di Civicus.
Nell’elenco confluiscono episodi che hanno segnato le cronache degli ultimi
mesi: interventi repressivi contro i movimenti climatici, mobilitazioni su Gaza
ostacolate, proteste per il diritto alla casa trattate come problemi d’ordine
pubblico. Poi le pressioni sulle ong impegnate nei soccorsi in mare, querele
temerarie contro giornalisti e campagne pubbliche contro magistrati ritenuti
scomodi.
Nel capitolo sulla libertà di espressione entra anche il caso Paragon: a
febbraio diverse inchieste hanno rivelato che giornalisti e attivisti erano
stati monitorati, da un soggetto ancora sconosciuto, tramite uno spyware venduto
solo a istituzioni statali e classificato come tecnologia militare. Civicus
parla apertamente di una “normalizzazione della sorveglianza politica”. Un
campanello d’allarme che si aggiunge alle richieste di rettifica aggressive,
sequestri di telefoni a cronisti e rallentamenti nell’accesso agli atti. La
retrocessione italiana non arriva isolata. Francia e Germania scendono anch’esse
nella categoria “ostruito”: Parigi per le limitazioni all’associazionismo,
Berlino per le misure contro le mobilitazioni pro-Palestina. Un segnale europeo:
la retorica securitaria delle destre – ordine pubblico, criminalizzazione della
protesta, sospetto verso le ong – sta diventando un linguaggio politico comune.
Nel caso italiano pesano tre fronti. Il primo quello del dissenso sotto
pressione. Fogli di via, Daspo urbani, vecchie norme sulle manifestazioni
riattivate anche quando la pericolosità è zero. Niente repressione dichiarata,
ma una serie di micro–ostacoli che diventano prassi: chi protesta viene
spostato, identificato e sanzionato. Un “test di resistenza” continuo che,
avverte il report, finisce per raffreddare la partecipazione. Il secondo fronte
è la libertà di informazione. Non c’è censura, ma una costellazione di pressioni
indirette: querele bavaglio, proprietà dei media sempre più concentrata, limiti
al lavoro dei cronisti nei tribunali. Il diritto di cronaca resta formalmente
solido, nota Civicus, ma si muove dentro un ambiente più ostile e più
intimidatorio. Il terzo e ultimo riguarda l’ecosistema delle associazioni. Qui
il rapporto parla di “retoriche delegittimanti” verso ong e gruppi civici,
soprattutto quelli che lavorano su migranti, clima e diritti. Non esistono
divieti espliciti, ma un clima politico che produce incertezza operativa e
spinge molte realtà a rallentare, a ritrarsi, a scegliere la prudenza invece
della partecipazione.
“Il declassamento dell’Italia a ‘Spazio civico ostacolato’ è il risultato di
scelte politiche deliberate che limitano la partecipazione e dimostrano il
pericoloso impatto del nuovo decreto”, avverte Martina Corti, di Solidar. “Il
decreto sicurezza anziché proteggere le persone, viene utilizzato per punire il
dissenso. Quando la criminalizzazione delle proteste pacifiche e le
intimidazioni nei confronti dei giornalisti vengono normalizzate, lo spazio
civico non solo viene ostacolato, ma viene smantellato”.
L'articolo Libertà e dissenso, l’Italia è declassata: lo spazio civico è
“ostruito” come in Ungheria. Il report del Civicus Monitor proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Decreto Sicurezza
La Corte costituzionale giudicherà la legittimità costituzionale dell’articolo
18 del decreto sicurezza, approvato dal governo Meloni il 4 aprile. È la norma
per mettere al bando la cannabis light, con il divieto di lavorare e vendere il
fiore della canapa a prescindere dall’effetto drogante. Peccato abbia travolto
anche i coltivatori – bacino elettorale delle destre – innescando sequestri
delle forze dell’ordine ai danni di legittime aziende, con indagini per
detenzione di stupefacenti: gli imprenditori della canapa rischiano 20 anni di
galera. Per il governo, del resto, le infiorescenze sono un pericolo per la
sicurezza (soprattutto stradale), anche se il thc (il cannabinoide psicotropo) è
assente o nei limiti di legge, sotto l’asticella dello 0,5 per cento.
IL SEQUESTRO E IL RICORSO
L’ordinanza per sollevare la questione di legittimità costituzionale è stata
firmata da un giudice di Brindisi. Alla toga si era rivolta un’azienda italiana
con coltivazioni in Bulgaria, dopo il sequestro di un suo carico di cannabis
light nel porto di Brindisi, da parte dell’agenzia delle dogane. Non una
manciata di chili bensì diverse tonnellate, destinate dall’impresa
prevalentemente all’esportazione sui mercati esteri. Il pubblico ministero ne
aveva già ordinato la distruzione, ma il ricorso dell’azienda (firmato
dall’avvocato Lorenzo Simonetti) ha fermato il falò. Ieri è stata depositato il
verdetto del giudice per le indagini preliminari: prima di decidere sul
sequestro di Brindisi, serve un chiarimento della Corte costituzionale
sull’articolo 18 del decreto sicurezza.
DUBBI DI INCOSTITUZIONALITÀ SU TRE FRONTI
Gli addetti ai lavori ne erano certi: era solo questione di tempo, prima che il
bando al fiore della canapa arrivasse alla Consulta. Da settembre, non si
contano i casi di sequestri finiti nel nulla, bocciati dai tribunali del riesame
ma anche dai pubblici ministeri. Già il massimario della Cassazione, il 26
giugno, aveva indicato le contraddizioni tra il decreto sicurezza e il dettato
della Carta. Il costituzionalista Alfonso Celotto, interpellato dalle
associazioni, aveva stilato un elenco di 40 profili di incostituzionalità, solo
per l’articolo 18. L’11 novembre il Consiglio di Stato ha rinviato il dossier
alla Corte di Giustizia europea, esprimendo forti dubbi sulla coerenza tra il
diritto europeo e le leggi italiane sugli stupefacenti, dal Testo unico fino al
decreto sicurezza.
Nell’ordinanza di Brindisi, il giudice esamina il decreto sicurezza indicando 3
punti in bilico sull’incostituzionalità. In primis, la scelta del governo di
procedere per decreto, malgrado l’assenza del carattere d’urgenza e
l’eterogeneità dei contenuti del provvedimento. Poi la violazione del principio
di offensività, poiché il bando colpisce anche il fiore privo di thc, dunque
senza effetto drogante. Infine, la violazione del diritto europeo: il fiore
della canapa è legale in tutti i Paesi del Vecchio continente e le imprese del
settore ricevono finanziamenti pubblici.
IL LEGALE: “NON CI FERMIAMO”
L’avvocato Lorenzo Simonetti rivendica il risultato ma non vuole fermarsi qui,
mentre la minaccia dei sequestri incombe sugli imprenditori della canapa . “Lo
scopo è ottenere ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale anche in altri
tribunali, speriamo sia solo l’inizio”, dice il legale a ilfattoquotidiano.it.
“Se i giudici non fossero convinti dei dubbi di costituzionalità, almeno
dovrebbero sospendere i procedimenti in attesa del verdetto della Consulta”,
aggiunge l’avvocato. Raffaele Desiante dell’associazione Ici (Imprenditori
canapa italia) non nasconde la soddisfazione per “la svolta attesa da tutto il
comparto della canapa industriale”. “Lo sosteniamo da mesi – prosegue Desiante –
un’intera filiera non può essere cancellata con un tratto di penna senza una
motivazione concreta, proporzionata e basata su dati scientifici”.
Anche Coldiretti, ascoltatissima a palazzo Chigi, dopo aver smarrito la voce
accoglie con favore il ricorso alla Consulta. “La canapa e le infiorescenze sono
fondamentali per lo sviluppo di alcune filiere e limitarle danneggerebbe
pesantemente chi ha investito nel settore – commenta l’associazione – Siamo
contrari a qualsiasi uso ricreativo della canapa fuori dalle norme comunitarie,
ma difendiamo le imprese agricole che operano nella legalità e nel rispetto dei
regolamenti europei. Non si possono bloccare attività su cui le aziende agricole
hanno investito legittimamente”. Chissà che Meloni non si lasci convincere.
L'articolo Cannabis light, il decreto Sicurezza arriva alla Consulta: il
tribunale di Brindisi solleva dubbi sul bando alle infiorescenze proviene da Il
Fatto Quotidiano.