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L’AI ci sta già rubando il lavoro? Negli Usa 1,1 milioni di licenziamenti da inizio anno, ma dietro c’è soprattutto l’ossessione per i margini di profitto
L’intelligenza artificiale ci sta già rubando il lavoro? L’ondata di licenziamenti annunciati negli ultimi mesi negli Stati Uniti da grandi gruppi di settori che vanno dalla tecnologia al retail rende la domanda inevitabile. Ma dietro i massicci piani di ridimensionamento del personale ci sono quasi sempre ragioni più banali rispetto all’adozione di chatbot in grado di sostituire i colletti bianchi. Vedi preoccupazioni per l’andamento dell’economia complici i dazi voluti da Donald Trump, vendite in calo causa pressione sui prezzi (vero tallone d’Achille dell’amministrazione del tycoon) e consumi stagnanti, errori gestionali a cui occorre rimediare. E la vecchia tentazione di tagliare i costi per migliorare i margini e così compiacere gli investitori. Basti dire che nei primi undici mesi dell’anno, se si considerano anche la pubblica amministrazione e l’industria manifatturiera, oltreoceano sono stati ufficializzati oltre 1,1 milione di esuberi, di cui 153mila solo a ottobre: è il livello più alto dal 2020. Ma, secondo una ricognizione della società di outplacement Challenger, Gray & Christmas solo in 55mila casi l’AI è stata citata come esplicita “giustificazione” della riduzione della forza lavoro. Le motivazioni prevalenti sono invece legate a condizioni di mercato, chiusure e ristrutturazioni. Seguite dall’impatto dei licenziamenti collettivi targati Doge. OBIETTIVO “SNELLIMENTO” PER COMPIACERE GLI AZIONISTI Tra le Big tech, Amazon è il caso più eclatante. A cavallo della pandemia ha più che raddoppiato la forza lavoro in scia al boom dell’e-commerce. A fine ottobre è arrivato il primo brusco dietrofront, con l’annuncio di 14.000 tagli nella divisione corporate. Parte, secondo Reuters, di un più ampio piano che potrebbe prevedere in tutto fino a 30mila esuberi. Se è vero che una parte dei posti eliminati saranno sostituiti da nuove mansioni legate all’AI, i tagli puntano soprattutto a snellire l’organizzazione per convincere Wall Street che il gruppo, a fronte dei 125 miliardi investiti quest’anno in infrastrutture cloud e data center per la stessa intelligenza artificiale, resta attento all’efficienza e a salvaguardare i margini di profitto. Obiettivo “dimagrimento” anche per Microsoft, che nonostante ottimi risultati di bilancio sta portando avanti un piano da 15mila esuberi mirato a “ridurre i livelli gestionali”, le procedure e i ruoli interni. Sul modello di Google, che nell’ultimo anno – mentre destinava 85 miliardi di spese in conto capitale agli impianti necessari per alimentare nuovi servizi di intelligenza artificiale – ha silenziosamente eliminato un terzo dei manager che gestivano piccoli team e offerto buonuscite agli impiegati di una decina di divisioni. A sua volta Oracle, prima del maxi accordo da 300 miliardi di dollari con OpenAI per la vendita di potenza di calcolo e dell’annuncio di corposi investimenti per rispondere alla “crescente domanda di servizi AI”, ha deciso di compensare il boom dei costi con una ristrutturazione senza precedenti. Previsti almeno 3mila licenziamenti tra Usa, Canada, India e Filippine nelle business unit dedicate a cloud e servizi finanziari, ma gli analisti prevedono che il numero potrebbe salire a 10mila. TAGLI COME REAZIONE A UNA CRISI Poi c’è chi taglia per salvare i bilanci a fronte di un business in calo, o dopo errori di valutazione e crisi reputazionali. Intel ridurrà la forza lavoro di oltre il 20% (più di 20mila persone) rispetto a fine 2024 per salvare il salvabile dopo aver perso il treno del boom dei chip per AI, comparto dominato da Nvidia e AMD, e investito troppo in progetti che non hanno portato i ritorni sperati. Meta, le cui spese in infrastrutture per l’AI hanno superato i 70 miliardi, secondo il Wall Street Journal si prepara a ridurre dal 10 al 30% il personale della divisione dedicata al metaverso, che dal 2020 ha bruciato oltre 60 miliardi di dollari non ha mai generato i risultati attesi. Dal canto suo UPS, che quest’anno ha ridotto del 50% il volume delle consegne effettuate per Amazon perché poco redditizie, ha eliminato 48.000 posizioni tra impiegati e addetti operativi: licenziamenti che dipendono per la maggior parte dalla chiusura di un centinaio di magazzini e dalla riduzione dei volumi nel tentativo di difendere i profitti minacciati dalla politica tariffaria di Trump. Hanno tutta l’aria di tagli vecchio stile, per tagliare i costi a fronte di risultati finanziari non brillanti, anche quelli di big come Target e Starbucks. A fine ottobre Michael Fiddelke, nuovo ad della catena di grandi magazzini dell’abbigliamento, ha annunciato come primo atto il taglio di 1.800 ruoli corporate – circa l’8% del personale che lavora nella sede centrale – per “semplificare la struttura” e alleggerire i costi fissi proteggendo i margini. La multinazionale del caffè, alle prese con un business in rallentamento, ha reagito a sua volta con chiusure e due round di licenziamenti tra i colletti bianchi, per un totale di 2mila persone. Da questo lato dell’Atlantico pure il colosso del cibo confezionato Nestlé, reduce dallo scandalo del licenziamento dell’amministratore delegato causa relazioni improprie con un subordinato, progetta di uscire dall’angolo e spingere ulteriormente profitti già elevati con una cura da cavallo a base di maggiore “efficienza” somministrata dal nuovo numero uno Philipp Navratil, che lascerà a casa 16mila dipendenti. QUANDO L’AI SOSTITUISCE COMPITI RIPETITIVI Molto più circoscritti i casi in cui l’AI viene davvero già utilizzata per sostituire forza lavoro umana. ServiceNow, piattaforma di servizi cloud per le aziende che hanno necessità di gestire flussi di lavoro digitali, utilizza agenti AI per gestire 24 ore al giorno compiti ripetitivi nell’Information technology, nel customer service, nello sviluppo software e negli acquisti. Salesforce (servizi di gestione delle relazioni con i clienti) a settembre ha deciso di ridurre di 4mila unità i lavoratori dedicati al supporto ai clienti perché secondo l’ad Marc Benioff “servono meno teste”: oltre il 50% del lavoro è già stato automatizzato. Mentre il colosso tecnologico Hp a fine novembre ha ufficializzato tra 4mila e 6mila tagli (circa il 10% della forza lavoro) nell’ambito di un piano per “snellire” la struttura e incorporare nei suoi processi l’intelligenza artificiale per accelerare lo sviluppo di nuovi prodotti e gestire il supporto ai clienti. E ancora: nel settore legale, come ha raccontato il Financial Times, grandi studi come Clifford Chance e Bryan Cave Leighton Paisner hanno ridotto rispettivamente del 10 e dell’8% le posizioni nei servizi di staff, citando come motivazione anche una maggiore adozione di strumenti di intelligenza artificiale. Non mancano però i casi in cui il tentativo di rimpiazzare lavoratori con chatbot finisce con un buco nell’acqua: la fintech Klarna, nota per i pagamenti rateizzati (“Buy now, pay later”), contava di sostituire 800 impiegati full-time del customer service, ma la scorsa primavera ha dovuto fare marcia indietro perché la qualità del servizio si è rivelata troppo bassa. Speculare la parabola di Ibm, che due anni fa aveva congelato 7.800 assunzioni per ruoli di back office da sostituire con assistenti virtuali: ha ottenuto risparmi per 4,5 miliardi e nel frattempo ha aumentato la forza lavoro in settori come l’ingegneria del software, il marketing e le vendite, in cui l’interazione tra esseri umani è premiante. Bicchiere mezzo pieno per il gruppo. Non per gli impiegati – “circa 200” nelle risorse umane, secondo il ceo Arvind Krishna – il cui lavoro viene ora svolto da agenti AI. Il fatto che AI e automazione non siano ancora la ragione principale dei licenziamenti non significa ovviamente che nel medio periodo l’impatto non si vedrà. Goldman Sachs prevede nei prossimi tre anni una potenziale riduzione della forza lavoro dell’11% da parte delle aziende Usa, soprattutto nei servizi ai clienti. L'articolo L’AI ci sta già rubando il lavoro? Negli Usa 1,1 milioni di licenziamenti da inizio anno, ma dietro c’è soprattutto l’ossessione per i margini di profitto proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Amazon si accorda con l’Agenzia delle Entrate e versa 723 milioni. Per la Procura avrebbe dovuto pagare 3 miliardi
Per la Procura di Milano, a causa di alcune condotte illecite tra il 2019 e il 2020, il gruppo Amazon ha commesso una frode fiscale da 1,2 miliardi di euro. E per questo, tra sanzioni e interessi, avrebbe dovuto versare al fisco italiano un cifra intorno ai 3 miliardi. Adesso però il colosso statunitense di Jeff Bezos ha raggiunto un accordo con l’Agenzia delle Entrate per versare 511 milioni di euro a cui si aggiungono 212 milioni definiti da Amazon logistica e Amazon Italia transport, già versati nei giorni scorsi. Amazon verserà quindi all’Agenzia delle Entrate un importo complessivo di 723 milioni di euro, usufruendo anche di meccanismi rateali. Nel mirino degli inquirenti milanesi, in particolare, c’era l’algoritmo predittivo di Amazon che, secondo le accuse, non terrebbe in considerazione gli obblighi tributari in capo a chi mette in vendita sul proprio market-place in Italia merce di venditori extraeuropei, in questo caso prevalentemente cinesi, senza però dichiararne l’identità e i relativi dati all’Agenzia delle Entrate ai fini del pagamento del 22% di Iva da parte dei venditori extraeuropei. L'articolo Amazon si accorda con l’Agenzia delle Entrate e versa 723 milioni. Per la Procura avrebbe dovuto pagare 3 miliardi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Stati Uniti, il fronte anti data-center mette i bastoni tra le ruote di Big Tech: bloccati progetti per 18 miliardi di dollari
L’IA muove cifre da bilancio statale: nel 2024 l’industria ha investito 500 miliardi di dollari in data center. Quest’anno “solamente” Microsoft prevede di spenderne 80. E Bloomberg conta sedici nuovi miliardari legati al segmento infrastrutturale della filiera. In concreto, un data center è un enorme edificio in cui vengono stipati migliaia di computer. Ciascun server esegue miliardi di calcoli al secondo, alimentando i grandi modelli linguistici (come Chat GPT): è il motore della rivoluzione industriale in corso. I governi di tutto il mondo dispensano incentivi e sgravi fiscali per attrarre hyperscaler – i grandi gestori – e impiantare “gigafactory” nel territorio: l’obiettivo è tenere il passo con l’innovazione, per non essere tagliati fuori dalla corsa all’IA. Tra gli effetti benefici attesi, la creazione di posti di lavoro e il rilancio di aree economicamente depresse. Le aziende che vincono le commesse pubbliche accumulano fondi, gonfiando i listini di borsa. Mentre gli investitori più avveduti, che hanno fiutato l’affare prima degli altri, si fregano le mani. Bolle e cataclismi finanziari a parte, beninteso. Ma dove i governi centrali scorgono opportunità – dando credito alle promesse di Big Tech – le comunità locali ravvisano pericoli. I data center consumano acqua, suolo ed energia; generano inquinamento sonoro e luminoso; sovraccaricano la rete elettrica. Negli USA, l’avanguardia della quarta rivoluzione industriale, sta montando la rivolta contro l’industria tecnologica. Da Nord a Sud, dalle coste alle aree interne, prende forma e si consolida un movimento che affonda le radici nelle comunità locali, nei sobborghi e nelle città di provincia ma ormai, viste le dimensioni e la pressione che è in grado di esercitare, ha assunto portata nazionale. Negli ultimi due anni il fronte “anti data-center” ha bloccato o rinviato gare, bandi e mega-progetti; in ballo ci sono 64 miliardi di dollari. Il “Data Center Watch” ha messo in fila i numeri. E danno la misura del fenomeno: l’ondata di proteste lambisce 24 Stati, per un totale di 142 organizzazioni impegnate nelle campagne contro queste infrastrutture – sponsorizzate da Amazon, Google, Meta e altri colossi. Verosimilmente la Virginia (che è il più grande hub di data center al mondo) ne costituisce l’epicentro: soltanto in questo stato l’osservatorio segnala 42 associazioni. Di frequente si tratta di gruppi che si sviluppano dal basso in maniera spontanea, coagulandosi attorno a singole iniziative (mailing list, pagine Facebook dedicate, petizioni online). Talvolta, la fronda è guidata da capitoli locali di organizzazioni preesistenti e più strutturate, che si articolano su scala federale. Nel movimento sono confluite istanze di destra e di sinistra, suggellando un “raro allineamento bipartisan nella politica infrastrutturale” che ha diffuso preoccupazione nei corridoi della West Wing. Anche perché la partita si gioca sul piano locale, nel sottobosco della burocrazia statale; se le municipalità si mettono di traverso, su pressione della cittadinanza, i progetti – vincolati ad autorizzazioni comunali o licenze – rischiano di saltare. “Da un’analisi delle dichiarazioni pubbliche rilasciate dai funzionari eletti nei distretti che stanno valutando data center”, si legge nel report, “è emerso che il 55% dei politici che hanno preso posizione pubblicamente contro tali progetti erano repubblicani, mentre il 45% erano democratici”. A Goodyear e Buckeye (Arizona) i residenti hanno bloccato un investimento da 14 miliardi. Le autorità locali di Peculiar (Missouri) hanno approvato un’ordinanza che rimuove i data center dalle destinazioni d’uso consentite, stroncando un’iniziativa da 1,5 miliardi. Poi ancora Chesterton (Indiana), 1,3 miliardi, Richmond (Virginia), 500 milioni. Il bilancio finale fà impressione: progetti per 18 miliardi cancellati (e per 46 congelati). Per militanti e cittadini di osservanza democratica la questione ambientale è in cima alle priorità. In base alle proiezioni dell’International Energy Agency entro il 2030 i data center assorbiranno metà della crescita della domanda di elettricità negli USA. L’energia, intuitivamente, alimenta la potenza di calcolo. Non solo; i server, infatti, lavorano senza sosta: per mantenere simili ritmi ed evitare guasti è necessario raffreddarli a cadenza regolare. A tale scopo gli impianti sparano aria condizionata industriale ad altissima potenza e drenano grandi volumi d’acqua dalle riserve idriche locali. Le associazioni ambientaliste catalogano altre esternalità negative come l’occupazione di suolo agricolo e la produzione di rifiuti elettronici. Ma il tema solleva preoccupazioni trasversali, a cominciare dai rialzi in bolletta: all’aumentare del fabbisogno di elettricità dell’area, difatti, crescono i prezzi per famiglie e imprese della zona. I movimenti “nimby” (not in my back yard) non sono un fenomeno nuovo; questa etichetta inquadra le manifestazioni locali contro le grandi infrastrutture (come discariche o inceneritori). Ma gli USA, dove questa rivoluzione è ad uno stato avanzato, prefigurano fenomeni di protesta che, con l’avanzare dell’innovazione, potrebbero comparire anche in altre aree del pianeta (inclusa l’UE). Condizionando l’elezione e la carriera di politici, cacicchi e funzionari locali. L'articolo Stati Uniti, il fronte anti data-center mette i bastoni tra le ruote di Big Tech: bloccati progetti per 18 miliardi di dollari proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Amazon sotto inchiesta: per la Procura è il “cavallo di Troia” del contrabbando cinese. Sequestri a Milano e Bergamo
Le forze dell’ordine italiane hanno condotto perquisizioni e sequestri in due siti di Amazon in Italia lunedì 24 novembre, nell’ambito di un’indagine che ipotizza il reato di contrabbando di prodotti provenienti dalla Cina. La Procura di Milano, con il pm Elio Ramondini, sta indagando su responsabili del colosso dell’e-commerce per presunte irregolarità nella movimentazione di prodotti giunti dalla Cina sui quali non sarebbero stati pagati l’Iva e i dazi doganali. Secondo le fonti di Reuters, che ha anticipato la notizia, l’indagine ipotizza che Amazon abbia agito come una sorta di “cavallo di troia”, consentendo a merci cinesi di circolare nel Paese senza la tassazione appropriata. Le operazioni condotte dalla Guardia di finanza di Monza in collaborazione con l’Agenzia delle Dogane, hanno portato al sequestro di circa cinquemila prodotti presso un polo logistico gestito da Amazon a Cividate al Piano, in provincia di Bergamo. perquisizioni sono state effettuate anche nella sede milanese di Amazon (alcuni responsabili sarebbero indagati) con sequestri di materiale informatico per le indagini. I militari hanno anche identificato il manager della società responsabile del trasporto delle merci all’interno del territorio italiano. L’indagine è nata dal filone principale di un’altra inchiesta coordinata dalla Procura di Milano su una presunta evasione fiscale da 1,2 miliardi di euro relativa alle vendite online in Italia tra il 2019 e il 2021. Proprio nel contesto della precedente inchiesta sono già stati effettuati sequestri di centinaia di migliaia di prodotti e le Fiamme Gialle avevano già effettuato perquisizioni e acquisizioni di documenti per ricostruire, a partire dal 2019, la tipologia di business del colosso statunitense, a partire dalla suddivisione dei venditori e tracciando i percorsi della merce. Gli inquirenti sospettano che le merci cinesi vengano introdotte nell’Unione Europea, e quindi in Italia, attraverso canali attualmente sconosciuti, senza il versamento delle imposte sulle vendite o dei dazi doganali dovuti. I prodotti, che si ipotizza siano stati portati in Italia attraverso uno schema societario complesso e mediante l’uso di decine di società italiane, molte delle quali ritenute società di comodo, sarebbero stati successivamente movimentati e venduti attraverso il marketplace di Amazon. In base all’indagine, proprio l’algoritmo di Amazon favorirebbe la vendita in Italia di prodotti extra-Ue senza adeguata identificazione, consentendo così l’evasione dell’Iva di cui Amazon sarebbe corresponsabile in base alla legge italiana sugli intermediari. L’Agenzia delle Entrate ha proposto un accordo che l’azienda dovrebbe valutare entro dicembre. La Procura indaga sia sul sospetto contrabbando sia sulle violazioni del codice doganale Ue. A causa della complessità nella gestione dei flussi di merci negli hub logistici del gigante dell’e-commerce, le indagini procedono con la collaborazione di Amazon. L’indagine è inoltre destinata ad essere estesa al resto dell’Ue. “I magistrati di Milano sono stati convocati a luglio nella sede dell’Eurojust all’Aia, dove hanno illustrato l’ampiezza della loro indagine ai colleghi di diversi Paesi Ue, tra cui Germania, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Belgio, Svezia e Irlanda”, ha scritto Reuters, e l’EPPO, la Procura europea, ha avviato verifiche sui conti del gruppo dal 2021 al 2024. L'articolo Amazon sotto inchiesta: per la Procura è il “cavallo di Troia” del contrabbando cinese. Sequestri a Milano e Bergamo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Agli italiani auguriamo un Natale con una politica più responsabile, dai toni più sereni e più attenzione agli ultimi”: così Luisa Ranieri Alessandro Gassmann
Alessandro Gassmann e Luisa Ranieri presentano a FqMagazine il film delle feste di Prime Video “Natale senza Babbo”, disponibile sulla piattaforma dal 28 novembre. Protagonisti un Babbo Natale in piena crisi esistenziale, ovvero Alessandro Gassmann, e sua moglie Margaret, interpretata da Luisa Ranieri, una donna sempre pronta a supportare il marito. Tra i vari interpreti di questa commedia natalizia anche Caterina Murino e Valentina Romani, nei panni rispettivamente della Befana e di Santa Lucia. Ma anche Diego Abatantuono, esperto in terapie di recupero di Babbi Natale in difficoltà, e Angela Finocchiaro, nelle vesti di una psicologa. Il film è co-prodotto da Amazon MGM Studios con Gaumont Italia, diretto da Stefano Cipiani e scritto da Michela Andreozzi (qui presente anche nel cast) con la collaborazione di Filippo Macchiusi. “Abbiamo raccontato attraverso la metafora natalizia una coppia che sta divorziando- ha detto il regista-. Lui è un Babbo Natale che è un pò una rock star stressata da tutto questo consumismo”. Qual è la morale e l’insegnamento di questo film? Luisa Ranieri: Sicuramente che bisogna ritrovare lo spirito del Natale, perchè ci siamo un po’ persi dietro tutta la parte commerciale della festa. Poi c’è sicuramente l’insegnamento a chiedere aiuto e saper dire scusa fanno parte. Due elementi fondamentali all’interno di una famiglia, di un rapporto e di una società. Alessandro Gassmann: Ha detto tutto a lei in maniera straordinaria, in un italiano anche abbastanza elevato! Un aneddoto divertente accaduto sul set? Luisa Ranieri: Abbiamo girato una scena nello studio della psicologa e non so che cosa ci fosse in quello studio, ma a me ha cominciato a prudermi qualsiasi cosa… Gli occhi, il naso, le orecchie, non riuscivo a recitare! Ero completamente in balia di questo prurito (ride, ndr) che non era divertente per me, ma penso sia stato divertente per voi. Alessandro Gassmann: No, io ero francamente un po’ in pena per te. Luisa Ranieri: Ma io mi chiedevo ‘ma cosa mi dà fastidio? Non soffro di nessuna allergia, però insomma è stata una scena un po’ così… Alessandro Gassmann: Ma nel film non si vede eh… Luisa Ranieri: Secondo me qualcosa si vede… Il vostro Natale più bello? Luisa Ranieri: Quando sono nati i figli, sono stati i Natali più belli. Alessandro Gassmann: Sì anche per me chiaramente. Ha riassunto quella importanza che aveva quando eravamo bambini, quindi chiaramente ho fatto anche io Babbo Natale, lasciavo le impronte delle gnomo con le mani sulla neve. Insomma il Natale è divertente anche per i genitori. Luisa Ranieri: Sì, anche perché un po’ è bello regalare il sogno ai propri figli. Però anche noi abbiamo affittato un Babbo Natale, un anno sì anche l’altro. Alessandro Gassmann: Io sono a disposizione, se volete (ride, ndr). Che cosa regalereste all ‘Italia e agli italiani questo Natale? Beh, tante cose. Luisa Ranieri: Sicuramente mi piacerebbe regalare un Natale dai toni più sereni, una dialettica più elevata, mi piacerebbe che la nostra classe politica si comportasse in una maniera più responsabile perché stiamo vivendo un momento storico in cui abbiamo bisogno di toni calmi, di toni pieni di sapienza. Alessandro Gassmann: Aggiungerei anche forse un po’ più di attenzione verso gli ultimi. Sappiamo che il nostro Paese ha fasce sociali in grave sofferenza più che in passato Poi insomma anche cercare in tutti i modi in maniera diplomatica di lavorare sulla cessazione delle guerre che ci circondano, quindi la pace. L'articolo “Agli italiani auguriamo un Natale con una politica più responsabile, dai toni più sereni e più attenzione agli ultimi”: così Luisa Ranieri Alessandro Gassmann proviene da Il Fatto Quotidiano.
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