Ha atteso la sua telefonata di auguri, nel giorno del suo compleanno. Ma quella
chiamata non è mai arrivata. Armanda Colusso parla a Repubblica del messaggio
mai arrivato da parte del figlio Alberto Trentini, il cooperante italiano di
Venezia detenuto da 395 giorni nel carcere El Rodeo I di Caracas senza che
nessuna accusa sia mai stata formalizzata. “Povero Alberto, si sarà illuso di
poterci chiamare. Lui non dimentica mai la data del mio compleanno. Io ho atteso
inutilmente quella telefonata perché avevo bisogno di sentire il timbro della
sua voce e di capire come vive questa situazione così dolorosa e ingiusta”.
Solo pochi giorni fa Armanda era intervenuta a Tutta la città ne parla per
sollecitare ancora una volta il governo a riportare a casa il figlio, dopo che a
metà novembre aveva di nuovo sottolineato – affiancata dall’avvocata Alessandra
Ballerini – l’immobilismo del governo italiano, in un’attesa diventata
insopportabile. “Non sono in grado di dare una risposta esatta, anche perché
probabilmente non conosciamo tutte le azioni intraprese – dice a Repubblica -.
Secondo me bisogna cambiare strategia: occorrerebbe designare una persona che
sappia rapportarsi con Maduro e con i suoi collaboratori, perché se dopo 395
giorni di prigionia non ci sono risultati, qualcosa non sta funzionando.
Sappiamo bene che i carcerieri di Alberto sono in Venezuela e non in Italia, ma
occorre convincerli a restituirci nostro figlio”.
“Questi 13 mesi di prigionia per Alberto sono stati una crudeltà quotidiana, per
lui e anche per noi – aggiunge -. Non oso immaginare i pensieri e le riflessioni
di mio figlio quando inizia un nuovo giorno: ‘In che Paese sono nato, se
permettono che io resti in cella senza colpa alcuna?’ si chiederà. Mi fa male
soltanto pensare che dolore e quanta delusione hanno segnato tutti questi mesi
di prigionia e di isolamento. Sofferenze così forti minano il fisico e l’animo
per sempre. Noi genitori ci sentiamo svuotati. Viviamo un’agonia che non si può
descrivere. Al mattino esco in terrazza ad accarezzare lo striscione di Alberto,
per salutarlo, perché all’aperto non ci sono barriere che possano trattenere i
miei pensieri, che vogliono infondergli coraggio. Ogni giorno esco a prendere
pane e giornale: cammino guardando per terra, perché non voglio incontrare lo
sguardo felice della gente che mi passa vicino. Le nostre attese sono nel
pomeriggio e nella sera, a causa del fuso orario, perché speriamo sempre in una
telefonata di Alberto che poi non arriva”. “La prigionia di Alberto – continua
Armanda – deve indignare gli italiani, le nostre istituzioni e i comuni
cittadini, perché è costretto in carcere per così tanto tempo senza avere alcuna
colpa – continua – Spero che sempre più voci si uniscano alle nostre proteste.
Io, se necessario, griderò finché avrò fiato. Nessuna energia può essere
risparmiata per riavere Alberto a casa”.
(immagine di repertorio)
L'articolo La madre di Alberto Trentini: “Ho aspettato la sua chiamata per il
mio compleanno, l’ho attesa inutilmente” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Alberto Trentini
Chiede ancora una volta al governo di intervenire per fare tornare a casa suo
figlio Alberto, che da oltre 13 mesi è nelle mani del governo di Maduro. Armanda
Colusso Trentini, madre del cooperante 46enne detenuto in Venezuela dal 15
novembre 2024, in un messaggio vocale inviato a Tutta la città ne parla, su Rai
Radio3 ha nuovamente espresso la sua angoscia per la situazione in cui versa il
figlio, che ha finora avuto pochissimi contatti con la famiglia. “Sono ormai 13
mesi che Alberto è in prigione e noi non sappiamo darci pace. Mi chiedo ogni
mattina, quando inizia un nuovo giorno, cosa penserà del suo Paese che sembra
averlo abbandonato?”. Poiha proseguito: “Ringrazio la trasmissione – riferendosi
a Tutta la città ne parla – e tutti coloro che si stanno unendo a noi per
chiedere al nostro Governo un’azione incisiva per riportare a casa Alberto,
perché ogni giorno di detenzione in più ci risulta insopportabile”. Meno di un
mese fa, a metà novembre, Armanda, in conferenza stampa a Milano insieme
all’avvocata Alessandra Ballerini, le famiglie Regeni e Rocchelli, aveva di
nuovo sottolineato l’immobilismo del governo italiano, in un’attesa diventata
insoportabile. Lo stallo è stato in parte compensato dalla mobilitazione della
famiglia Trentini con Ballerini – e l’aiuto dell’associazione Articolo 21, la
parrocchia, gli amici – entrati a contatto con “politici, diplomatici, artisti e
negoziatori perché Alberto potesse tornare a casa”. Faceva ben sperare la
stretta di mano tra il capo di Stato Sergio Mattarella e la ministra
dell’Istruzione venezuelana durante la canonizzazione dei santi José Gregorio
Hernández e María Carmen Rendiles, ma Alberto non è ancora tornato. E poco
c’entrano i venti di guerra che soffiano al largo del Venezuela, vista la
liberazione di decine di detenuti colombiani (che hanno riferito di aver visto
Alberto). Su questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani era
intervenuto il 14 novembre, ribadendo lo sforzo italiano per “sollecitare la
liberazione” dei connazionali detenuti in Venezuela, facendo però riferimento a
“una tensione crescente” che coinvolge Caracas, “anche a livello
internazionale”. Nelle scorse settimane 39 eurodeputati hanno lanciato un
appello per il rilascio del cooperante, ma secondo quanto risulta a
ilfattoquotidiano.it la trattativa non sta procedendo, anche a causa di tensioni
politiche interne.
Intanto prosegue la mobilitazione a favore di Alberto Trentini. Uno striscione
per chiederne la liberazione è stato esposto all’esterno della sede del Comune
di Vigonovo (Venezia), a seguito della Deliberazione del Consiglio Comunale del
2 ottobre scorso, approvato all’unanimità, con cui Vigonovo ha aderito
all’appello nazionale per il suo ritorno a casa, unendosi ai numerosi enti
locali che hanno sposato la causa. Vigonovo in una nota “rinnova l’appello
affinché si proseguano con determinazione tutte le azioni necessarie per
garantire i diritti umani e processuali di Trentini, favorire un rapido rilascio
e assicurare il suo ritorno in Italia”. Anche l’università Cà Foscari di
Venezia, dove il cooperante si è laureato nel 2004, ha esposto sul Canal Grande
lo striscione ‘Alberto Trentini libero’, in concomitanza con un appello letto in
apertura di un convegno sull’immigrazione veneta in Sudamerica. “Siamo fieri di
Alberto, della sua vita spesa nell’impegno concreto per la solidarietà
internazionale e per i diritti umani. Oggi, chiunque attraversa il Canal Grande,
veneziano o turista che sia, vede affisso al balcone della nostra sede centrale,
lo striscione con le parole Alberto Trentini libero: un segnale della nostra
adesione all’appello della famiglia perché il Governo italiano metta in campo
tutte le azioni possibili per l’immediata liberazione di Alberto”, ha dichiarato
la rettrice Tiziana Lippiello.
L'articolo “Cosa penserà dell’Italia che sembra averlo abbandonato?”: la madre
di Alberto Trentini, da 13 mesi ostaggio di Caracas proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il fattore Usa potrebbe giocare un ruolo decisivo per la liberazione di Alberto
Trentini, il cooperante veneto detenuto da 385 giorni nel penitenziario de El
Rodeo I – che di recente ha ricevuto la visita dell’ambasciatore Giovanni
Umberto De Vito -, e degli altri connazionali reclusi in Venezuela, tra cui il
giornalista con doppio passaporto Biagio Pilieri. L’opzione prende piede dopo il
recente colloquio telefonico nel quale il segretario di Stato Usa Marco Rubio ha
assicurato al titolare della Farnesina, Antonio Tajani, l’impegno di Washington
per riportare a casa l’operatore umanitario e gli altri italiani detenuti in
Venezuela, insieme ad altri stranieri, usati dalle autorità di Caracas come
pedine di scambio con i loro relativi governi. “Lavoriamo senza sosta per la
loro liberazione”, ha scritto Tajani su X in un post di ringraziamento a Marco
Rubio.
QUALE RELAZIONE TRA CARACAS E WASHINGTON
Di primo acchito la notizia può lasciare perplessi, considerata l’escalation Usa
al Largo del Venezuela, il blocco unilaterale dello spazio aereo e marittimo di
Caracas. Washington ha anche innalzato a livello 4, quello più alto, l’allerta
viaggio sul Venezuela, esortando i concittadini Usa ad “abbandonare
immediatamente il Paese”, denunciando il pericolo di “detenzioni arbitrarie”,
“torture” e “trattamenti inumani”. Si registrano anche costanti violazioni dello
spazio aereo, con i sorvoli dei B-52, e personalità come lo stesso Rubio negano
ogni possibile dialogo con Maduro: “Non ha mai rispettato un accordo. Ha
ingannato Biden, ma non potrà ingannare Trump”, ha dichiarato il segretario di
Stato. Tuttavia il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato mercoledì
sera di aver “parlato con il presidente Usa Donald Trump” sottolineando i “toni
rispettosi” e “cordiali” di un colloquio che preannuncia “passi in avanti” nel
dialogo fra i due Stati. Lo stesso numero due del chavismo Diosdado Cabello è
intervenuto cercando di smentire le ricostruzioni di testate come Wall Street
Journal e Infobae attorno alla telefonata: “Nessuno di voi c’era. Perciò non
potete dire com’è andata”. Neppure Trump si sbilancia più di tanto: per lui non
è andata “né bene, né male”, ma è stata “solo una telefonata”. Nel frattempo la
petroliera Chevron sostiene Caracas con 200mila barili di greggio giornalieri e
vanta una licenza permanente, secondo l’inviato per l’America Latina Mauricio
Clavier, e i voli di rimpatrio dei migranti espulsi dagli Usa hanno ripreso il
loro corso, dopo l’ultima sospensione. Quella tra Caracas e Washington è
senz’altro una relazione tossica e ambivalente, ma a livello diplomatico risulta
più efficace della linea di gelo e di non interazione decisa dal governo Meloni
su Caracas.
GLI OSTAGGI RECUPERATI DALLA CASA BIANCA
In fondo gli Stati Uniti sono l’unico Paese ad aver ottenuto, a più riprese, il
rilascio dei suoi concittadini detenuti in Venezuela, facilitando anche la
scarcerazione di ottanta prigionieri politici locali a metà luglio, durante la
trattativa a tre tra Caracas-Washington-El Salvador. Ma non solo. Nell’ultima
settimana la Casa Bianca ha ottenuto il rilascio di 39 prigionieri politici del
Nicaragua esercitando pressione – non è ancora chiaro di che tipo – sul governo
Ortega-Murillo.
I primi rilasci ottenuti dall’amministrazione Trump si sono verificati a fine
gennaio – con Trentini in cella da due mesi e mezzo – e hanno visto il ritorno
di sei statunitensi a casa su mediazione dell’inviato speciale Usa Ric Grenell.
Erano reclusi a El Rodeo I. Il ritorno dei primi ostaggi è stato salutato
positivamente da Trump mentre Maduro parlava di un “nuovo inizio” dopo aver
raggiunto “una serie di accordi”, sempre attorno al petrolio. Quasi cinque mesi
dopo, il 20 maggio, gli Stati Uniti sono andati a riprendersi il veterano di
guerra Joseph St. Clair. “Il suo rilascio era previsto a gennaio, con il primo
gruppo, ma quando sono venuti a prenderlo lui ha opposto resistenza, perché non
si fidava dei carcerieri”, racconta Zulima Quiñones, attivista per i diritti
umani, a Ilfattoquotidiano.it. Ma non era finita. A El Rodeo I c’erano ancora
dieci statunitensi: tutti loro rilasciati a metà luglio nell’inedito scambio tra
gli Stati Uniti, Venezuela ed El Salvador, che ha visto il rimpatrio dei 252
migranti venezuelani che erano trattenuti al Cecot, il Centro de confinamiento
del terrorismo, e anche il rilascio di oltre 80 prigionieri politici del Paese
sudamericano. Sia gli Stati Uniti che il Venezuela si sono ritenuti
“vittoriosi”, dopo il risultato, nonostante lo scambio di “terroristi per
ostaggi”.
Il penitenziario del Distretto federale, gestito dal Controspionaggio militare
venezuelano, si rivela dunque un importante crocevia di trattative, scambi e
diplomazia degli ostaggi tra la Casa Bianca e Palazzo di Miraflores. Potrebbe
essere forse il turno di Trentini, da più di un anno lì dentro, e perché no, di
Pilieri e di tutti gli altri.
L'articolo Alberto Trentini, perché gli Usa possono giocare un ruolo decisivo
per la liberazione del cooperante italiano e altri detenuti in Venezuela
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Prima e dopo l’anniversario di prigionia di Alberto Trentini nel maxi-carcere de
El Rodeo I, il governo venezuelano ha rilasciato una decina di detenuti, tra cui
il suo vicino di cella, il francese Camilo Castro, e l’ex-presidente di
Fedecamaras – la Confindustria di Caracas – Noél Alvarez. È la quinta ondata di
scarcerazioni, nel giro di un anno, ma il cooperante del Lido di Venezia non
viene liberato, nonostante quello che appariva come un recente riavvicinamento
tra Roma e Caracas. “Non perdiamoci in questioni di contorno, qui il problema di
fondo è politico: lotte e divisioni interne impediscono il rilascio di Trentini,
perché in tanti vorrebbero intestare a sé stessi l’eventuale il risultato”, è il
commento lapidario di uno dei negoziatori, che denuncia a Ilfattoquotidiano.it i
passi indietro dell’Italia nelle trattative con il Venezuela. “Trentini non può
tornare a casa se Roma e Caracas non si parlano, perché nulla si sostituisce al
rapporto tra gli Stati, men che meno eventuali trattative a latere”.
Nello stesso tempo i vertici di Palazzo Chigi agiscono come se dovessero
chiedere il permesso a Paesi terzi, come gli Stati Uniti, rinunciando di default
a ogni sorta di interlocuzione con la controparte. “Già da anni le comunicazioni
con Caracas vengono lasciate in mano a Madrid e Lisbona. Persino la sinistra
italiana è colta da una strana sorta di timidezza, mentre l’opposizione
venezuelana si è molto radicalizzata negli ultimi anni”, ha sottolineato
l’interlocutore a Ilfatto.it.
La fonte smentisce inoltre eventuali concessioni da parte di Roma al fine di
aprire le porte a Caracas. “Non hanno neppure provveduto all’estradizione di
Rafael Ramírez, che era doverosa, e hanno spostato il caso sul piano politico”,
ha chiarito in riferimento all’oligarca e ministro del petrolio vincolato a
trame di corruzione, che però risulta impossibile da espellere in quanto
rifugiato in Italia e sposato con un’italiana. Vale la pena sottolineare che
Ilfatto.it ha provato a contattare Ramírez in diverse occasioni ma lui, dopo una
prima disponibilità, ha scelto di interrompere i contatti. A questo punto
Trentini, arrestato nell’ambito delle retate post-elettorali che si sono
registrate in Venezuela dopo l’elezione presidenziale del 2024, là dove Maduro
temeva l’incursione di mercenari stranieri, permane bloccato dal gelo tra Italia
e Venezuela.
“È normale che Maduro si chieda come mai l’Italia sia stata in grado di parlare
con gli ayatollah per riportare Cecilia Sala a casa e ora, per ragioni di
orgoglio, il suo governo eviti ogni interlocuzione”, ha proseguito,
sottolineando che, così facendo, lo Stato trascura la presenza di oltre un
milione di oriundi, di cui circa 200mila con doppio passaporto, e interessi come
quelli dell’Eni e altre aziende presenti in Venezuela. Quello di Meloni è
infatti un unicum là dove esecutivi come quello di Romano Prodi hanno riportato
a casa personalità come Daniele Mastrogiacomo dall’Afghanistan e altri numerosi
esempi che caratterizzano la storia repubblicana.
“Qui invece abbiamo a che fare con una intransigenza che blocca ogni possibile
svolta nelle trattative”, ha ribadito la fonte, secondo cui, in generale, “i
governi cercano interlocutori fidati nei diversi Paesi del mondo”, anche se
ostili, pratica diffusa soprattutto da parte di Tel Aviv. L’Italia invece snobba
le potenziali voci di connazionali “notabili” presenti in Venezuela, com’è il
caso di Rafael Lacava, attuale governatore di Carabobo, e Camilla Fabri, moglie
del ministro Alex Saab e a capo della missione di rimpatrio con gli Usa “Vuelta
a la patria” (ritorno in Patria).
“In queste condizioni è difficile trovare un accordo”, chiosa la fonte
ricordando che fu proprio Lacava – per intercessione del negoziatore – a fornire
un volo privato affinché il mediatore di Sant’Egidio, Gianni La Bella, potesse
raggiungere il Venezuela e riportare a casa Oreste Alfredo Schiavo, rilasciato
dopo cinque anni di prigionia nel carcere dell’Helicoide. Tuttavia ci è voluto
un miracolo affinché l’Italia – attraverso il viceministro degli Esteri Edmondo
Cirielli – rivolgesse il proprio ringraziamento alla controparte. Nel caos
provocato dalla designazione del Cartel de los soles a organizzazione straniera
terroristica da parte del Dipartimento di Stato Usa a Roma basterebbe
“assecondare le posizioni già assunte dai partner Ue, tra cui Francia, Germania
e Spagna”, che esortano al “rispetto del diritto internazionale”.
“Lo ha fatto anche il Regno Unito attraverso il governo Starmer e addirittura
Trump apre al dialogo”, ha ironizzato. Troppe le occasioni perse da Palazzo
Chigi, dai primi mesi a oggi: “Non bisognava perdere l’occasione della
canonizzazione dei primi santi venezuelani. Occorreva far partire nuovamente
l’inviato speciale Luigi Maria Vignali. E invece siamo ancora qui”, ha riferito.
Ma, se gli venisse chiesto, il negoziatore andrebbe in Venezuela, per dare una
mano? Lui frena: “Non mi ci manderebbero mai. Qui, lo ripeto, è rissa per chi si
prende il merito della vicenda”.
L'articolo “Passi indietro del governo su Alberto Trentini: se Roma e Caracas
non si parlano, non può tornare. Rissa per intestarsi il risultato” proviene da
Il Fatto Quotidiano.
Un appello trasversale per la liberazione di Alberto Trentini, il cooperante
italiano detenuto a Caracas da oltre un anno senza che nei suoi confronti siano
state formalizzate accuse. Gli unici benefici: tre chiamate brevi e una visita
consolare, concesse anche ad altri detenuti. A firmarlo 39 europarlamentari
italiani di Pd, M5S, Avs e Fdi, affinché si apra ogni canale disponibile nel
rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e dell’articolo 11 della
Costituzione italiana.
“Con uno spirito che guarda alla pace come orizzonte comune – si legge nel testo
– rivolgiamo un appello alle autorità della Repubblica Bolivariana del
Venezuela. Con rispetto per la sovranità del Paese, ma con altrettanta fermezza
nel richiamare i valori universali dei diritti umani, chiediamo un atto di
umanità: la liberazione di Alberto Trentini. Un gesto di clemenza e di apertura,
in questo momento segnato da tensioni regionali e da minacce di escalation
militare nelle aree vicine alle coste venezuelane, avrebbe un significato
profondo. Sarebbe percepito – prosegue l’appello – come un segnale di volontà
dialogante, un contributo alla costruzione di un clima più sereno e cooperativo,
un passo che risponde a un appello di pace con un gesto concreto di pace. Come
europarlamentari, esprimiamo inoltre apprezzamento per l’attenzione recentemente
mostrata dalle istituzioni europee nei confronti del caso Trentini. Sostenere
una soluzione positiva è responsabilità condivisa tra Roma, Bruxelles e tutti
coloro che credono nella diplomazia come strumento per superare anche le
situazioni più delicate. Rivolgiamo pertanto un appello affinché si apra ogni
canale disponibile nel rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e
dell’articolo 11 della costituzione italiana. Che possa tornare alla sua
famiglia. Che la sua storia trovi un epilogo di giustizia e umanità. Che un
gesto di apertura possa diventare un ponte di comprensione in un momento in cui
il mondo ha bisogno, più che mai, di segnali di pace”.
Nei giorni scorsi la famiglia di Alberto, in conferenza stampa, ha denunciato
l’immobilismo del governo italiano, sollecitando ancora una volta le autorità a
chiamare Caracas per dare impulso a un dialogo e alla trattativa finalizzata
alla liberazione del cooperante. Un’occasione di speranza, e di apertura di uno
spiraglio era stata la distensione dell’ultimo mese, con la stretta di mano tra
il capo di Stato Sergio Mattarella e la ministra dell’Istruzione venezuelana
durante la canonizzazione dei santi José Gregorio Hernández e María Carmen
Rendiles, ma Alberto non è ancora tornato. Una situazione che non si interseca
ai venti di guerra che da settimane soffiano al largo del Venezuela, vista la
recente liberazione di decine di prigionieri colombiani (che hanno riferito di
aver visto Alberto). Su questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani era
intervenuto il 14 novembre, ribadendo lo sforzo italiano per “sollecitare la
liberazione” dei connazionali detenuti in Venezuela, facendo però riferimento a
“una tensione crescente” che coinvolge Caracas, “anche a livello
internazionale”.
L'articolo “Caracas compia un atto di umanità e liberi Alberto Trentini”:
l’appello di 39 eurodeputati per il rilascio del cooperante proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“È troppo dura da raccontare. Non lo capirete mai. Preferisco non parlarne”.
Poche parole, scandite con dolore, quelle di Camilo Castro, il 41enne francese
rilasciato lo scorso 15 novembre, anniversario di prigionia di Alberto Trentini,
dal maxi-carcere El Rodeo I, dove si trova anche l’operatore umanitario di Lido
Venezia. Ora è libero, ma una parte di sé è rimasta dietro le sbarre, con gli
altri detenuti, compreso Trentini, che è stato il suo vicino di cella.
Lo si può notare al rientro all’aeroporto di Orly, visibilmente commosso, mentre
evocava i valori dell’Illuminismo e della Repubblica francese – libertà,
fraternità, uguaglianza –, evitando accuratamente di rispondere ai media
presenti. “Non vuole dire niente che metta a repentaglio la vita di coloro che
sono rimasti lì. Desidera invece lottare, anche nel silenzio, affinché tutti
possano ottenere la liberazione”, dice Yves Gilbert, patrigno di Camilo, a
Ilfattoquotidiano.it.
A parlarci è lui, Yves, compagno di Hélène Boursier, mamma di Camilo, professore
di yoga, detenuto nella località di Paraguachón, al confine tra il Venezuela e
la Colombia, lo scorso 26 giugno. “Per lui raccontare i mesi di prigionia
significherebbe girare il coltello nella piaga”. La settimana post-rilascio è
stata accompagnata da numerose richieste di contatto: dalla stampa ai familiari
di altri prigionieri, ansiosi di ricevere informazioni utili sui congiunti
ancora in cella. Yves spiega a Ilfatto.it che Camilo è rimasto “inquieto e
scioccato” dopo la reclusione: “Era una persona stabile, aveva costruito la
propria vita, ma la prigione gli ha tolto tutto. E ora deve ripartire da capo”.
Castro ha condiviso la dura esperienza della prigionia con Trentini, che era suo
vicino di cella. Lo ha descritto come una persona “psicologicamente forte” e
“capace di reggere anche sotto condizioni difficili”, grazie anche agli “anni
dedicati al lavoro umanitario” nei Paesi del Sud del mondo. Il cooperante di
Lido Venezia appare quindi come “una persona consapevole, capace di leggere il
contesto in cui si trova”. Castro invece si è reso conto del pericolo che lo
circondava una volta dietro le sbarre, precisa Yves, sottolineando che “i
contatti fra i due erano quindi regolari, nonostante la differenza di
carattere”.
Ai detenuti vengono inoltre distribuiti dei farmaci e la maggior parte tende ad
abusarne. Il fine: mantenere la calma, nonostante tutto. Parlando a Ilfatto.it i
familiari di Camilo smentiscono eventuali trattamenti di favore rivolti ai
detenuti stranieri, sottoposti a condizioni detentive fatiscenti e a trattamenti
inumani e degradanti. “L’essere europeo non mette a riparo da torture e botte”,
spiega Hélène, attivista per i diritti umani.
Durante la prigionia di Camilo, Yves ed Hélène seguivano le notizie su Trentini:
gli appelli a suo favore, le dichiarazioni della mamma, Armanda Colusso, e altre
iniziative. Entrambi trattenuti dalle autorità venezuelane per motivi simili:
“Loro sono innocenti. A Camilo dicevano che era stato arrestato in quanto
‘agente della Cia‘, ma sappiamo tutti che è stato arrestato per costringere il
governo francese a trattare. Idem Alberto, arrestato perché italiano”.
L’obiettivo: costringere Parigi e Roma a trattare pur di riaverli.
In seguito i familiari sono stati interpellati da Ilfatto.it sui movimenti
diplomatici che hanno condotto al rilascio di Camilo. La svolta si è verificata
dopo la presa di posizione del ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot,
intervenuto al G7 per condannare l’escalation Usa nei Caraibi e chiedere “il
rispetto del diritto internazionale” nell’attuale controversia Usa-Venezuela.
Queste dichiarazioni hanno sbloccato la mediazione di Colombia, Brasile e
Messico che hanno ottenuto il rilascio di Camilo da parte di Palazzo di
Miraflores. “Pur non conoscendo tutti i livelli della trattativa, in parte
riservata, sappiamo che quel momento è stato decisivo per la scarcerazione di
Camilo”, hanno sostenuto i familiari.
Caracas attende dichiarazioni simili, in ottica distensiva, da parte di Palazzo
Chigi, chiariscono a Ilfattoquotidiano.it fonti vicine al dossier. Ma il governo
Meloni mantiene la linea della fermezza, dettata in parte dalla subordinazione
nei confronti di Washington. Lo percepiscono anche i familiari di Castro:
“Meloni è fautrice di una posizione politica estrema che le impedisce di
avvicinarsi a Maduro, come ha invece fatto la Francia in questi mesi,
avvalendosi anche del Parlamento europeo”. In questi casi – chiosa Yves – la
libertà di un cittadino “dipende esclusivamente dal suo governo”, il quale può
beneficiare della fitta rete di collaborazione che “unisce le rappresentanze
diplomatiche presenti a Caracas“.
Il rilascio di Camilo ha comportato anche la ‘liberazione’ di Yves ed Hélène,
reduci da mesi di mobilitazione riconosciuti anche dalle autorità francesi.
“Camilo non era un prigioniero politico. E nemmeno Alberto lo è. Entrambi sono
stati presi perché estranei alla vita politica del Venezuela”, ha concluso Yves,
commentando: “Anche María Corina Machado ci ha cercato in questi giorni, ma non
abbiamo risposto. Sappiamo che è pro-Trump e non sta a noi schierarci fra un
bando chavista o quello filostatunitense”.
L'articolo Trentini, il vicino di cella: “Torture anche agli occidentali. Ci
davano medicinali per calmarci, ma Alberto è forte psicologicamente” proviene da
Il Fatto Quotidiano.
di Paolo Gallo
Ci sono vicende che, pur nella loro complessità diplomatica, non possono essere
ridotte a un faldone che giace su una scrivania ministeriale. Restano, prima di
tutto, storie umane che interrogano un Paese intero sulla propria capacità di
cura. Una di queste è il caso di Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto
da mesi in Venezuela, circondato da un silenzio istituzionale che pesa come una
coltre immobile. Uno stallo che non si misura sui documenti, ma sulle vite. E su
una in particolare: quella di una madre che aspetta.
Al di là delle dinamiche diplomatiche e delle comunicazioni riservate, ciò che
colpisce oggi è la sensazione di sospensione che avvolge questa vicenda. Un
vuoto informativo che si traduce in un vuoto emotivo, lasciando la famiglia di
Alberto intrappolata in un’attesa senza appigli, senza date, senza spiegazioni.
In situazioni come questa, persino l’assenza diventa una notizia; persino il
silenzio assume il peso di una condanna.
È comprensibile che la diplomazia richieda prudenza, che non tutto possa essere
dichiarato pubblicamente e che alcune trattative si muovano solo nell’ombra. Ma
esiste una linea oltre la quale la prudenza rischia di trasformarsi in una
percezione di inerzia. E quando questa percezione arriva ai cittadini, e
soprattutto a una madre che non può più raggiungere suo figlio né sapere come
sta, lo Stato è chiamato a un gesto di prossimità prima ancora che a uno di
forza.
Nessuno pretende soluzioni immediate o gesti plateali. Le relazioni
internazionali non si governano con gli slogan. Ma è legittimo chiedere
continuità, chiarezza, visibilità dell’impegno. È legittimo pretendere che il
caso di Alberto Trentini non scivoli nella zona grigia delle storie sospese, né
venga lasciato a galleggiare in un limbo fatto di rassicurazioni generiche e
attese indefinite. Perché la sensazione di essere soli, quando è in gioco la
libertà e la salute di un cittadino italiano, è un peso che una famiglia non
dovrebbe portare da sola.
Finora, la voce più forte non è stata quella delle istituzioni, ma quella di una
madre che non chiede privilegi: chiede semplicemente che suo figlio non venga
dimenticato. E questo, in una democrazia, non è un favore: è un diritto. Lo
Stato deve proteggere i suoi cittadini, e deve farlo anche — e soprattutto —
quando la strada è complicata.
Un Paese non si misura soltanto dalla capacità di affrontare le grandi crisi
globali, ma dalla volontà di non lasciare indietro nessuno. Di non permettere
che il silenzio diventi la risposta definitiva. Di far capire che, anche quando
le soluzioni tardano, l’impegno non si ferma.
Perché nulla è più ingiusto dello stallo quando a pagarne il prezzo è chi ha già
perduto le certezze fondamentali: la serenità, il tempo, la voce del proprio
figlio. Oggi, più che mai, serve un segnale chiaro che lo Stato c’è. E che non
intende lasciare sola la famiglia di Alberto Trentini.
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L'articolo Alberto Trentini in Venezuela: lo Stato non lasci sola la sua
famiglia proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Un anno rubato”. Parole dure, pubblicate qualche ora fa sul profilo Facebook
“Alberto Trentini Libero”, raccontano la Via Crucis del cooperante veneto, da
365 giorni ostaggio in Venezuela e recluso nel maxi-carcere de El Rodeo I, e dei
suoi genitori, Armanda Colusso ed Ezio Trentini, che ogni giorno, insieme
all’avvocata Alessandra Ballerini, aspettano il suo ritorno. Quella dei 365
giorni, si sa, è una linea rossa che non andava superata; una frontiera
esistenziale tra l’impegno, finora mancato, e l’indifferenza, che ha avuto la
meglio a Palazzo Chigi e dintorni.
“Sono certa che per Alberto non si è fatto quel che era necessario e doveroso
fare per la sua liberazione”, ha denunciato Armanda, intervenuta oggi in
conferenza stampa a Palazzo Marino (Milano), insieme – fra gli altri – a
Ballerini che, dall’inizio, ne chiedono la liberazione. “Sono stata troppo
paziente ed educata. Ora la mia pazienza si è esaurita”, ha poi ammesso,
rinnovando il suo appello ai giornalisti: “Io andrò a casa con la convinzione
che parlerete e scriverete di Alberto e chiederete assieme a me a gran voce la
sua liberazione”. Non c’è dubbio che per la liberazione di suo figlio “doveva
esserci, e invece non c’è stato, un gruppo coeso e motivato di persone che
doveva mirare allo stesso risultato”.
Lo sanno bene Roma e Caracas, dove temporeggiano mentre i familiari di Trentini
vivono “notti insonni e giornate senza senso, con il pensiero fisso su Alberto,
ad immaginare come sta, cosa pensa, cosa spera, di cosa ha paura”, come denuncia
Armanda. Gli unici benefici: tre chiamate brevi e una visita consolare, concesse
anche ad altri detenuti. Del resto gli è “stato tolto un anno di vita” nel quale
“non ha potuto godere dell’affetto della sua famiglia“, prosegue Armanda.
Al Rodeo I si vive in “condizioni igieniche difficili”, come già raccontato da
un ex-prigioniero svizzero, che ha conosciuto Alberto e per il quale il governo
svizzero non ha risparmiato alcuno sforzo. È andata così anche per gli
americani, ora tutti liberi, i colombiani e altre persone che “hanno raccontato
le medesime condizioni terribili di detenzione“. Dal canto suo il governo
italiano – che all’inizio aveva imposto “il silenzio” ai familiari per “non
danneggiare la posizione” di Trentini – ha mantenuto, fino a poco tempo fa, una
sorta di linea di fermezza nei confronti delle autorità venezuelane, mai
telefonate nei primi nove mesi. “Mi sorge spontanea una domanda: fosse stato un
loro figlio l’avrebbero lasciato in prigione un anno intero?”, ha detto Armanda.
L’immobilismo italiano è stato in parte compensato dalla mobilitazione della
famiglia Trentini con l’avvocata Ballerini – e l’aiuto dell’associazione
Articolo 21, la parrocchia, gli amici – entrati a contatto con “politici,
diplomatici, artisti e negoziatori perché Alberto potesse tornare a casa”.
Faceva ben sperare la distensione dell’ultimo mese, con la stretta di mano tra
il capo di Stato Sergio Mattarella e la ministra dell’Istruzione venezuelana
durante la canonizzazione dei santi José Gregorio Hernández e María Carmen
Rendiles, ma Alberto non è ancora tornato. E poco c’entrano i venti di guerra
che in queste ore soffiano al largo del Venezuela, vista la recente liberazione
di decine di detenuti colombiani (che hanno riferito di aver visto Alberto). Su
questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani era intervenuto il 14
novembre, ribadendo lo sforzo italiano per “sollecitare la liberazione” dei
connazionali detenuti in Venezuela, facendo però riferimento a “una tensione
crescente” che coinvolge il Venezuela, “anche a livello internazionale.
Ma in realtà l’ostacolo più grosso non è a stelle e strisce, bensì italiano, ed
è rappresentato da negoziatori entrati in scena per colmare il vuoto lasciato
dal governo Meloni e facendo perdere tempo e risorse, senza portare a casa
Alberto. “Si sono palesati dei negoziatori e la sensazione è che questi
mediatori millantassero un potere che non avevano. Quando sembrava che Alberto
potesse arrivare a casa, lui di fatto non è tornato”, ha detto Ballerini
rispondendo a Ilfattoquotidiano.it. “Io ho chiesto fin dai primi mesi il visto
per andare a Caracas, come avvenuto per Giulio Regeni in Egitto. Spero che il
visto venga finalmente concesso. Il mio scopo sarebbe quello di andare a trovare
Alberto in carcere”. E ha aggiunto: “Per mia sicurezza personale, approfittando
della presenza dell’inviato speciale per gli italiani in Venezuela, Luigi Maria
Vignali, affinché – previa autorizzazione – possa tornare nel Paese”. Quanto
alle invocazioni di pace di Maduro, la legale ha ricordato che “l’Italia ripudia
la guerra” e ha sottolineato il “valore del canale recentemente aperto” con
Caracas, dopo quattro anni di silenzi. L’Italia? “Pur lontana politicamente dal
Venezuela potrebbe rassicurare Caracas sul rispetto del Diritto internazionale,
anche dopo l’eventuale rilascio di Alberto“.
A Palazzo Marino c’erano anche Beppe Giulietti (Articolo 21), Paola Deffendi e
Giulio Regeni, genitori del ricercatore ucciso nel 2016 al Cairo, ed Elisa
Signori e Rino Rocchelli, il cui figlio, il fotografo Andy, è morto per mano
delle forze ucraine mentre svolgeva il proprio lavoro nel Donbass. La loro sete
di giustizia si unisce ora al clamore per la liberazione di Alberto, affinché,
almeno una volta, l’epilogo sia diverso. E la vita prevalga, al di sopra di ogni
calcolo e meschinità.
L'articolo “Un anno rubato a mio figlio Alberto Trentini. Non è stato fatto il
necessario per liberarlo, la pazienza è finita” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Oggi, 15 novembre, è trascorso un anno da quando il cooperante veneziano,
Alberto Trentini, si trova nelle carceri del Venezuela. Accusato di cosa?
Nessuno lo sa perché le autorità hanno ritenuto di non comunicarlo né alla
famiglia, né alla avvocata Alessandra ballerini, né tantomeno alla ambasciata,
anche perché l’Italia non ha riconosciuto i risultati elettorali.
Da quel momento solo tre telefonate alla mamma Armanda, poi silenzio.
Le amiche e gli amici che lo hanno conosciuto e che sono impegnati a suo favore,
ci hanno sempre parlato di una persona generosa, impegnata nella cura degli
ultimi, sempre dalla parte dei più deboli. Forse l’unico “reato” che potrebbe
aver commesso è quello di “solidarietà”, perché i regimi di ogni colore non
possono sopportare chi ascolta la voce dei più deboli e dona loro anche solo una
coperta.
Chi volesse saperne di più vada a leggere sul Fatto le puntuali cronache ed
analisi di Estefano Tamburrini, uno dei giornalisti che ha seguito e segue con
rigore e infinita passione civile la tragedia di Alberto e di altri detenuti
italo venezuelani.
“Siamo distrutti, non sappiamo più in chi e cosa credere”, ci hanno ripetuto
mamma Armanda e papà Ezio alla vigilia del primo anno di carcerazione. L’Italia,
e l’Unione europea non riconoscono i risultati in Venezuela, del resto Maduro
esibisce ogni giorno i suoi precari rapporti con i diritti politici, sociali,
civili.
Il mancato riconoscimento rende difficile qualsiasi trattativa tra Italia e
Venezuela. Sarà il caso di ricordare che, invece, l’Italia intrattiene relazioni
con la Libia, con l’Egitto, con l’Iran, basti pensare alla liberazione di
Cecilia Sala e non solo. A che punto sono le eventuali trattative? Nessuno lo
sa. Chi intrattiene i rapporti con il governo venezuelano? Nessuno lo sa. Quali
sono le iniziative “energiche” più volte annunciate da Meloni e Tajani? Tutto è
avvolto da mistero e da un buio simile a quello del carcere nel quale è
sequestrato Alberto Trentini. Se il buio è interrotto da qualche voce lo si deve
a chi, volontario, amico, legale, cronista, non a chi ha dimenticato e ha
impedito che la tragedia di Alberto potesse essere rapidamente archiviata.
Oggi mamma Armanda, Alessandra Ballerini – la loro legale- , Articolo 21
torneranno a chiedere la liberazione di Alberto. Quando tornerà a casa, sarà
comunque sempre troppo tardi.
L'articolo Cosa sta facendo l’Italia per riportare a casa Alberto Trentini? Un
anno dopo, nessuno lo sa proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un anno dietro le sbarre in Venezuela, senza nessuna accusa formale. Con
pochissimi contatti con la famiglia e con le rappresentanze diplomatiche
italiane. Da un anno Alberto Trentini, cooperante italiano di Venezia, è
ostaggio del governo di Caracas e ora detenuto nel carcere El Rodeo I di
Caracas. Era stato arrestato il 15 novembre 2024 nella località di Guasdualito,
mentre lavorava per l’ong Humanity & Inclusion. In Italia sono state tante le
iniziative della società civile per ricordare la sua detenzione e riportarlo a
casa, mentre si susseguivano attese disilluse, negoziati in stallo e un
interesse tardivo del governo italiano per intercedere a favore della sua
liberazione.
Palazzo Chigi per mesi ha temporeggiato, ignorando l’urgenza della situazione e
i ripetuti appelli della madre di Alberto, Armanda Colusso, finché ha capito che
l’immobilismo avrebbe soltanto allungato la prigionia e comportato rischi per la
salute dell’operatore umanitario e dei familiari, che lo aspettano. Lo Stato ha
reagito – certo in ritardo, talvolta disorientato – ma ha predisposto le
condizioni affinché Trentini venisse rilasciato, ricevendo un paio di volte i
diplomatici di Caracas. Loro hanno sfilato spavaldi durante la cerimonia di
canonizzazione dei santi venezuelani, José Gregorio Hernández e Carmen Rendiles,
nonostante le sanzioni Ue e il mancato riconoscimento italiano al governo di
Nicolás Maduro.
Anche i vescovi di Caracas erano intervenuti per chiedere misure di grazia per
“coloro che permangono detenuti per ragioni politiche” – inclusi altri
connazionali reclusi nel Paese sudamericano, come Biagio Pilieri – e le autorità
venezuelane aprivano non solo al rilascio di Trentini, ma anche di una decina di
detenuti. Era il 19 ottobre: ore liete, aperture, strette di mano, selfie e
ponti riallacciati. Caracas prometteva addirittura l’imminente scarcerazione del
cooperante, prima di raggiungere i 365 giorni di prigionia. Tuttavia, a ridosso
di un intero anno di carcere, senza accuse, a circa 9mila chilometri da casa,
Alberto è ancora a El Rodeo I e lo Stato italiano non è riuscito a farlo
tornare. Le trattative sono una tela di Penelope, sempre incompiuta, perché
strappata più volte, anche con premeditazione. Complice l’intervento di
negoziatori già noti ai circuiti italiani, che sono subentrati nel vuoto
lasciato dal governo italiano – quando non voleva neppure telefonare a Caracas –
per accreditarsi come interlocutori dei presunti interessi di Maduro nella
Penisola, senza però riuscire a riportare a casa Alberto.
Altri faccendieri si sono insinuati anche dall’altra parte, in Venezuela,
assicurando di rappresentare gli interessi legali di Trentini, senza il consenso
dei suoi familiari. Hanno pure presentato, per conto loro, un ricorso alla
Commissione interamericana dei Diritti umani – organo osteggiato da Palazzo di
Miraflores – con l’obiettivo di alzare la posta in gioco. Ilfatto.it è entrato
in contatto con questi gruppi, vicini agli ambienti dell’intelligence
venezuelana, che gestisce El Rodeo I. “Non siamo un’organizzazione, ma amici di
Alberto”, dicevano a Ilfatto.it, per poi millantare accesso privilegiato alla
struttura penitenziaria e ai detenuti – come Nahuel Gallo e Joseph St. Clair,
rilasciato da mesi – ma anche risorse legali per intraprendere “altre azioni”.
Ci è voluta una diffida, da parte della famiglia Trentini e dell’avvocata
Ballerini, per fermarli.
Non sono poi mancate informazioni pilotate attraverso alcuni organi di stampa
che si sono prestati per parlare di una presunta “vendetta” da parte di Maduro,
presentando una miriade di casi sconnessi dalla vicenda come l’esilio
dell’ex-magnate di Pdvsa Rafael Ramírez, ora rifugiato in Italia. Altri puntano
al depistaggio paragonando il cooperante al resto dei prigionieri venezuelani,
ovvero “un caso in più tra tanti esempi di repressione in Venezuela”, o
attribuendo ai venti guerra nei Caraibi la ragione dello stallo diplomatico.
Eppure lo sanno che Alberto non è dietro le sbarre per le sue idee politiche ma
è un ostaggio, che nulla c’entra con la crisi politica venezuelana, e che
Bruxelles, al vertice Ue-Celac di Santa Marta, si è smarcata dalle operazioni
militari Usa nei Caraibi esortando al “rispetto del Diritto internazionale”.
L’Ue ha quindi accolto l’istanza di Maduro, che in una lettera rivolta ai
partecipanti al vertice di Santa Marta, datata 9 novembre, ha evocato il
“rifiuto assoluto di ogni violenza” e la “difesa incondizionata della
sovranità“. Non sono quindi mancate concessioni italiane ed europee a Caracas,
anche grazie allo sforzo dell’inviato speciale per gli italiani in Venezuela,
Luigi Maria Vignali. Il problema riguarda semmai la mancata capacità, da parte
di Roma, di governare l’intricata vicenda e salvare Alberto. Non risultano
neppure richieste di aiuto all’alleato della Casa Bianca, Donald Trump, che –
malgrado le tensioni – continua a ricevere petrolio venezuelano e a rispedire,
in voli di Stato, migranti espulsi a Caracas.
Nel frattempo mobilitazione della società civile è intatta: il digiuno a
staffetta è piedi da 253 giorni, la raccolta firme su Change.org ha superato le
110mila adesioni e a un anno dalla detenzione è prevista una conferenza stampa a
Palazzo Marino (Milano) con gli interventi di Colusso, Ballerini e altre voci.
Anche Diane Foley, madre del giornalista James Foley, ucciso a Raqqa, in Siria,
nel 2014, ha aderito all’appello per Trentini esortando il governo italiano a
“compiere ogni sforzo possibile per riportarlo a casa”.
L'articolo Alberto Trentini in carcere da un anno in Venezuela senza accuse. I
depistaggi dei faccendieri e la lentezza di Palazzo Chigi proviene da Il Fatto
Quotidiano.