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Iran, la Nobel per la Pace Narges Mohammadi due volte al pronto soccorso per le manganellate ricevute durante l’arresto
Arrestata e picchiata da poliziotti in borghese, con “violenti e ripetuti colpi di manganello alla testa e al collo”. Queste le pesanti accuse che la Fondazione Narges Mohammadi ha rivolto al regime iraniano dopo l’arresto della vincitrice del Premio Nobel per la Pace avvenuto la settimana scorsa. Nei giorni seguenti, la famiglia di Mohammadi non ha avuto sue notizie, fino a una breve e concisa telefonata in cui sono emerse le pessime condizioni fisiche dell’avvocata e attivista iraniana che è stata portata due volte al pronto soccorso per le violente percosse ricevute dagli agenti durante l’arresto a Mashhad. Parlando al telefono con i suoi familiari, Mohammadi ha raccontato di essere stata accusata di collaborare con il governo israeliano. Oltre a ciò, non sono ancora chiare le imputazioni rivolte a lei e alle altre persone arrestate, 39 in totale secondo Teheran. L’attivista ha poi chiesto alla sua famiglia di presentare una denuncia formale contro le modalità violente dell’arresto e la sua detenzione. Sul secondo punto, il New York Times ha riportato che a Mohammadi non è ancora stato comunicato quale autorità la stia trattenendo e in generale non le sono state fornite delle spiegazioni. Lo scorso sabato, il procuratore di Mashhad, Hasan Hematifar, ha dichiarato ai giornalisti che Mohammadi e Javad Alikordi avevano incoraggiato i manifestanti a inneggiare slogan che violano le norme del governo. Nei giorni scorsi, il Comitato per il Nobel ha dichiarato profonda preoccupazione per il brutale arresto subìto da Mohammadi. Nessun commento invece da parte delle autorità del regime iraniano. L'articolo Iran, la Nobel per la Pace Narges Mohammadi due volte al pronto soccorso per le manganellate ricevute durante l’arresto proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Così l’Egitto controlla e reprime i gruppi della società civile
Anche dopo la chiusura del famoso “caso 173” contro le organizzazioni non governative locali – un’indagine durata 13 anni e archiviata un anno fa – le autorità egiziane continuano ad accanirsi contro i gruppi della società civile. Attraverso interviste con esponenti di 12 ong e l’analisi di documenti ufficiali, Amnesty International ha reso noti una serie di casi in cui, servendosi della legge 149 del 2019 sulle associazioni, il governo del Cairo continua a imporre un controllo pressoché totale sulle organizzazioni della società civile. L’Unità per le associazioni e il lavoro civile del ministero della Solidarietà sociale, responsabile della regolamentazione e del controllo delle organizzazioni non governative, impone un processo preventivo di registrazione completamente arbitrario: può ritardarla o rifiutarla se ritiene che i fini statutari violino le leggi (il che vuol dire tutto e nulla), fare ispezioni senza preavviso, bloccare i finanziamenti e interferire nella composizione degli organi direttivi al punto da obbligare alle dimissioni i loro componenti. Questo organismo può anche sciogliere le associazioni o confinarle nell’ambito del cosiddetto “sviluppo sociale”, impedendo loro di svolgere attività in favore dei diritti umani. Questo bavaglio è reso più stretto dall’azione dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (i famigerati servizi segreti interni), che minaccia le attiviste e gli attivisti delle associazioni attraverso telefonate, convocazioni illegali e pesanti interrogatori ma che spesso usa metodi più pesanti, come le sparizioni forzate e le torture. Un emendamento dell’anno scorso alla legge del 2019 consente di avviare procedimenti penali nei confronti di coloro che ricevono finanziamenti dall’estero per “atti ostili contro l’Egitto”: è prevista addirittura la pena di morte. L’effetto di tutto questo è raggelante: i centri congressi rifiutano di ospitare eventi senza l’autorizzazione delle autorità competenti e anche quando questi si svolgono sono pesantemente presidiati da agenti in borghese. Ogni contenuto audiovisivo che s’intende mostrare dev’essere prima visionato e approvato. Le banche rifiutano di lavorare sui conti correnti delle associazioni senza l’ok dalle autorità: ci sono stati casi in cui l’attesa è durata fino a 15 mesi, impedendo così alle associazioni di svolgere attività e pagare gli stipendi ai loro dipendenti. L'articolo Così l’Egitto controlla e reprime i gruppi della società civile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Arrestata ancora la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi: stava partecipando a una cerimonia
L’avvocata e attivista iraniana Narges Mohammadi, vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2023, è stata arrestata – di nuovo – durante una cerimonia pubblica e portata in una località sconosciuta. Oltre a lei, sono stati arrestati molti altri attivisti, tra cui Sepideh Gholian, Hasti Amiri, Pouran Nazemi e Alieh Motalebzadeh. L’arresto è avvenuto a Mashhad, città situata nel Nord-Est dell’Iran. A renderlo noto sono stati alcuni gruppi per i diritti umani, inclusa la Fondazione Narges Mohammadi. L’arresto avviene dopo mesi di pressione a Mohammadi da parte delle autorità iraniane: nei mesi scorsi, l’attivista ha dichiarato di aver subìto anche pedinamenti e minacce di morte. Oggi Mohammadi sta scontando una pena detentiva di 13 anni e nove mesi al carcere di Evin a Teheran per le accuse di sicurezza nazionale, ma ultimamente era stata congedata per motivi di salute. Prima di essere arrestata dagli agenti di sicurezza e di polizia, Mohammadi stava partecipando a una cerimonia per il lutto dell’avvocato e dissidente politico Khosrow Alikordi, la cui morte in circostanze sospette nel suo ufficio a Mashad ha generato indignazione nell’opinione pubblica iraniana. I suoi sostenitori da mesi avvertivano che Mohammadi rischiava di essere rimessa in prigione. Sebbene dovesse durare solo tre settimane, il periodo di libertà di Mohammadi si era poi prolungato, forse per le pressioni sul governo dell’Iran degli attivisti e delle potenze occidentali. Era libera anche durante la guerra di 12 giorni tra Iran e Israele nel mese di giugno. Mohammadi ha continuato la sua attività di attivista con proteste pubbliche e apparizioni sui media internazionali, arrivando persino a manifestare davanti al famigerato carcere di Evin a Teheran, dove era stata detenuta. La vincitrice del premio Nobel ha più volte accusato il regime iraniano di reprimere il dissenso di attivisti, giornalisti e critici, specialmente dopo il cessate il fuoco con Israele. A confermare la notizia dell’arresto è stato anche Javad Alikordi, fratello di Khosrow Alikordi, riferendo inoltre che degli agenti in borghese hanno picchiato le persone arrestate prima di portarle via. . L'articolo Arrestata ancora la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi: stava partecipando a una cerimonia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Mattarella: “L’Italia ripudia la guerra. Legame inscindibile tra diritti umani e pace. La violenza non prevalga sulle regole”
C’è il diritto (internazionale e degli individui) al centro del discorso del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani. Un diritto costantemente violato soprattutto in questi ultimi anni di guerre, ma che, sostiene il capo dello Stato, non può essere scisso dalla pace. Un messaggio chiaro, il suo, ai leader mondiali che in questi giorni stanno di nuovo cercando un accordo per mettere fine a quasi quattro anni di guerra in Ucraina e di avviare la fase 2 del piano di pace a Gaza, nonostante le violenze in Palestina da parte di militari e coloni israeliani continuino quotidianamente. Il capo dello Stato, che si è sempre espresso in sostegno a Kiev, parlando davanti al Bundestag il 16 novembre scorso aveva lanciato un avvertimento sul rischio di escalation nucleare e sui “nuovi dottor Stranamore che amano la bomba”. “La Repubblica Italiana, in questa Giornata, rinnova il suo convinto sostegno a un ordine internazionale basato sul rispetto dei diritti umani – ha dichiarato Mattarella nel suo messaggio – È un impegno che discende dalla nostra storia e dai valori scolpiti nella Costituzione: il ripudio della guerra, la promozione della giustizia, l’affermazione della solidarietà, dell’uguaglianza e della libertà. Sono gli stessi valori che hanno ispirato la costruzione europea, divenuta nel tempo uno spazio di pace e di diritti senza precedenti”. Il riferimento all’Europa non sembra essere casuale, dato che Bruxelles in entrambi i principali fronti di conflitto non è riuscita a imporsi come attore di primo livello e, soprattutto, a chiedere il rispetto del diritto internazionale, anche quando sono stati sferrati attacchi diretti ai vertici delle Nazioni Unite. Il presidente ha poi voluto ricordare, e il riferimento sembra essere alla crisi di Gaza, che “la centralità dei diritti umani non significa indulgere nella memoria del dolore, ma assumere quella memoria come guida per l’azione. È a questa responsabilità che siamo chiamati: impedire che la violenza prevalga sulle regole, affermare l’universalità dei principi che tutelano la dignità umana, affinché la Dichiarazione del 1948 non resti solo un enunciato di alti ideali ma sia concreto codice di condotta cui tutti gli Stati scelgano di conformarsi”. Tutto questo perché “esiste un rapporto inscindibile tra diritti umani e pace, il rispetto dei primi è premessa essenziale della seconda, mentre l’assenza di pace smorza la speranza di proteggere diritti e libertà. L’evidenza di tale relazione aiuta a comprendere come la pace sia il risultato di un impegno quotidiano e di una responsabilità condivisa, che trova il suo fondamento nella tutela della dignità di ogni persona e nel rifiuto della logica della sopraffazione”. E aggiunge che “a tal riguardo, il diritto internazionale e le istituzioni multilaterali rivestono un ruolo decisivo, in quanto strumenti concreti di protezione per gli Stati come per ciascun singolo essere umano. Indebolirli significa esporre ogni individuo, in particolare i più vulnerabili, al rischio che l’esistenza finisca per essere regolata dalla prevaricazione e dall’abuso della forza”. Esattamente la direzione verso la quale, invece, il presidente americano Donald Trump sembra tendere se si prendono in considerazione le sue ultime dichiarazioni riguardo alla Nato. “Settantasei anni fa, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani pose al centro dell’ordinamento internazionale un principio semplice e rivoluzionario: ogni persona, in quanto tale, è titolare di diritti inviolabili. È questo il messaggio che la comunità internazionale volle affidare al futuro, traendo lezione dalle macerie morali e materiali dei conflitti mondiali. È un messaggio che continua a sollecitare la nostra coscienza collettiva. Ancora oggi, – ha poi concluso – i diritti umani subiscono molteplici attacchi. Le guerre – vecchie e nuove – tornano a proiettare la loro ombra sulle popolazioni civili, causando vittime inermi e portando ovunque sofferenza e distruzione, come la cronaca dei conflitti contemporanei dolorosamente conferma. Le violenze contro donne e minori, le discriminazioni, l’erosione delle libertà democratiche, assumono spesso la forma di un generale arretramento della civiltà giuridica rispetto a traguardi che credevamo acquisiti. Di nuovo, vediamo riaffiorare razzismo, aggressioni, disuguaglianze: fenomeni che la storia aveva già ammonito a non ripetere”. L'articolo Mattarella: “L’Italia ripudia la guerra. Legame inscindibile tra diritti umani e pace. La violenza non prevalga sulle regole” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Massacro dei container in Mozambico: TotalEnergies accusata di complicità davanti alla Procura antiterrorismo di Parigi
A più di un anno dalla pubblicazione dell’inchiesta di Politico sul massacro di Afungi, compiuto nel 2021 dai soldati dell’esercito del Mozambico nei confronti di civili della provincia di Cabo Delgado, Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) accusa ufficialmente la compagnia francese oil&gas TotalEnergies. La ong tedesca ha presentato una denuncia alla Procura nazionale antiterrorismo di Parigi per “complicità in crimini di guerra”, che sarebbero avvenuti all’interno dell’impianto del colosso, nel nord del Paese. Durante l’estate del 2021, infatti, almeno 160 dei civili che stavano fuggendo dalle violenze di un gruppo di militanti, affiliati allo Stato Islamico e guidati da Bonomade Machude Omar, avevano chiesto protezione all’esercito regolare. I soldati, però, li hanno accusati di essere ribelli. L’orrore è iniziato così. L’inchiesta di Politico racconta di come le donne siano state separate dagli uomini per poi essere stuprate e i prigionieri siano stati stipati per tre mesi in container all’ingresso dell’impianto di gas naturale Mozambique LNG, di cui TotalEnergies è primo azionista (26,5%), oltre che operatore. Questi civili sono stati torturati e, in gran parte, uccisi. Solo in ventisei sono sopravvissuti. Ci si aspetta che si faccia chiarezza su cosa sapesse delle violenze il colosso francese, che ha sempre negato di essere a conoscenza di questi episodi (e vuole rilanciare il sito dopo quattro anni di sospensione), mentre ReCommon ricorda il ruolo dell’Italia nel progetto che riguarda l’impianto. IL CONTESTO DEL MASSACRO E L’ACCUSA DI ECCHR A TOTALENERGIES La ong accusa la multinazionale aver “finanziato direttamente e sostenuto materialmente la Joint task force, composta da soldati dell’esercito del Mozambico, mentre questa avrebbe detenuto, torturato e ucciso decine di civili” tra luglio e settembre 2021. Già nei mesi precedenti, gli abitanti dell’area avevano denunciato le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito. Denunce finite nei rapporti di Mozambique Lng, la filiale che il colosso francese ha sul posto, secondo la ricostruzione di Politico, basata anche su interviste a sopravvissuti e testimoni e su un’indagine condotta porta a porta nei villaggi delle vittime. La Joint Task Force era stata istituita con un memorandum del 2020 tra la filiale mozambicana di TotalEnergies e il governo mozambicano come unità di sicurezza dedicata alla protezione delle operazioni del progetto Mozambique LNG. Nel marzo del 2021, gli estremisti islamici avevano attaccato la città di Palma “che è servita come base operativa per molti operai edili di Total Energies”. I servizi di sicurezza mozambicani e quasi tutti i 60mila residenti della città erano fuggiti. All’impianto di gas, anche il personale della Total era stato evacuato e la compagnia doveva proteggere l’impianto. Con un costo stimato di 50 miliardi di dollari, il progetto di un giacimento di gas naturale in Mozambico – insieme a un secondo della Exxon Mobil – era annunciato come uno dei più grandi investimenti privati realizzati nel continente. “Per proteggere il territorio – aveva ricostruito Politico – è stata prevista una presenza a rotazione di circa 700 soldati, commando e polizia paramilitare mozambicana” che Total pagava, equipaggiava e ospitava. “TotalEnergies sapeva che le forze armateerano state accusate di sistematiche violazioni dei diritti umani, ma ha continuato a sostenerle con l’unico obiettivo di proteggere i propri impianti” ha dichiarato Clara Gonzales dell’Ecchr. LA POSIZIONE DI TOTAL E I DOCUMENTI TROVATI DURANTE L’INCHIESTA TotalEnergies ha sempre dichiarato avere informazioni rispetto alle violenze nell’area, ma le inchieste raccontano un’altra storia. Tra i testimoni ascoltati anche un soldato che ha parlato di “appaltatori bianchi che lavorano nel sito” e che “hanno visitato i container diverse volte, cercando di passare loro cibo e acqua dalla mensa, ma senza riuscirci”. E poi ci sono documenti interni di Total Energies. Come raccontato dal giornalista indipendente Alex Perry e, successivamente, da Le Monde e Source Material, proprio grazie a una richiesta di accesso agli atti inoltrata da ReCommon a Cassa depositi e prestiti, si è appreso che TotalEnergies avesse tutti gli elementi a disposizione per essere a conoscenza degli abusi commessi dai militari mozambicani già prima dell’estate del 2021. Un altro aspetto della vicenda riguarda l’accordo con la Joint Task Force, che prevedeva il pagamento di bonus per i soldati da parte dell’azienda, a patto che rispettassero i diritti umani. Come ricostruito da Le Monde, fu sospeso ad agosto e settembre 2021. Alla fine del 2022, però, era ancora in piedi. I vertici del colosso chiesero a due consulenti, uno dei quali è Jean-Christophe Rufin, ex vicepresidente di Medici Senza Frontiere, una relazione sul rispetto dei diritti umani nel progetto. Il documento arrivò a settembre 2023, suggerendo di “interrompere” il rapporto con la task force perché, in caso di violazioni di diritti umani, ci sarebbe stata una responsabilità diretta da parte del consorzio. A ottobre di quell’anno TotalEnergies ha sospeso i pagamenti che effettuava direttamente alla task Force. Da quel momento a pagare i soldati sarebbe stato il governo nazionale. IL SUPPORTO ITALIANO AL PROGETTO La denuncia arriva proprio mentre TotalEnergies ha appena annunciato la revoca della forza maggiore dichiarata nell’aprile 2021 per Mozambique LNG, nonostante il persistere del conflitto, l’intensificarsi degli attacchi e una grave crisi umanitaria. Il riavvio definitivo del progetto dipende tuttavia dall’accordo con il governo mozambicano sulla copertura dei costi aggiuntivi del progetto, pari a 4,5 miliardi di dollari. ReCommon ricorda che l’agenzia di credito all’esportazione Sace dovrebbe rilasciare una garanzia di 950 milioni di euro, con cui coprire i prestiti per le operazioni di Saipem, tra cui quello di Cassa Depositi e Prestiti del valore di 650 milioni di euro. Il supporto finanziario di Sace e Cassa depositi e prestiti era stato confermato dal governo Meloni nella risposta all’interpellanza urgente sulla questione presentata, il 24 gennaio scorso, dall’onorevole Angelo Bonelli. “I documenti che abbiamo ottenuto riguardanti questa vicenda ci portano a pensare che Sace e Cdp sapessero della criticità della situazione, ma hanno preferito rimanere tra gli sponsor finanziari del progetto” spiega Simone Ogno di ReCommon. E aggiunge: “Qualora TotalEnergies dovesse essere perseguita penalmente, riteniamo che anche le due istituzioni finanziarie pubbliche rischino concretamente un’incriminazione e chiediamo che le forze politiche si attivino per fare luce sulla vicenda e che il supporto finanziario venga sospeso”. Una vicenda che diventa ancora più centrale alla luce dell’entrata in vigore, nel 2027, della direttiva Corporate Sustainability Due Diligence, che impone alle aziende di monitorare gli impatti delle proprie produzioni su diritti umani e ambiente. L'articolo Massacro dei container in Mozambico: TotalEnergies accusata di complicità davanti alla Procura antiterrorismo di Parigi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Diversity Media Awards, ilfattoquotidiano.it in finale come “miglior articolo stampa web”
Tornano venerdì 28 novembre i Diversity Media Awards. L’iniziativa, arrivata alla decima edizione e promossa dalla Fondazione Diversity, premia i personaggi e i contenuti mediali che si sono distinti per una rappresentazione valorizzante ed inclusiva delle persone e dei temi per Genere, Età, Etnia, LGBT+, Disabilità, Aspetto fisico. Ilfattoquotidiano.it è entrato in shortlist nella categoria “miglior articolo stampa web”, grazie all’inchiesta di Eleonora Cirant dal titolo: “Marche, obiezione quasi al 100% e ostacoli all’aborto farmacologico: le storie delle donne costrette a spostarsi. E la Regione non si adegua alle linee ministeriali”. Nel 2025 i Diversity Media Awards compiono dieci anni, dieci anni in cui sono state premiate oltre 100 produzioni cinematografiche, televisive, radiofoniche, digitali, assegnati oltre 30 Premi stampa ed eletti in ogni edizione i Personaggi e i Creator dell’anno, per riconoscere e celebrare la miglior produzione culturale italiana, quella capace di rappresentare in modo corretto e inclusivo la diversità, restituendo un racconto della società più autentico. Nato come un evento fisico a Milano, trasmesso più volte anche in tv, prima su Real Time e successivamente su Rai1, l’evento chiuso in teatro si trasforma in una premiazione pop, diffusa, virale. Un evento digitale che porta i premi laddove l’inclusione ha trovato negli anni una “casa” naturale e una straordinaria cassa di risonanza per istanze spesso totalmente escluse dall’informazione tradizionale, i social. Un viaggio nella ricchezza della diversità, raccontato sui social da 13 video nei quali Aurora Ramazzotti, Guglielmo Scilla e Pierluca Mariti celebrano tutte le nominate e i nominati delle varie categorie e annunciano i vincitori e le vincitrici dei Diversity Media Awards 2025, pubblicati sulla pagina Instagram di Fondazione Diversity il 28 novembre a partire dalle ore 11:00 e per tutta la giornata. Durante gli episodi, verrà premiato il Personaggio dell’Anno – in lizza Francesca Albanese, Gino ed Elena Cecchettin, Geppi Cucciari, Rula Jebreal, Porpora Marcasciano e Jasmine Paolini – e tutti i vincitori delle categorie Miglior Film, Miglior Serie TV Italiana, Miglior Serie TV Straniera, Miglior Serie Young, Miglior Programma TV, Miglior Programma Radio, Miglior Podcast, Miglior prodotto digital, Creator dell’anno. Saranno inoltre assegnati anche i riconoscimenti all’informazione attribuiti dal Comitato Scientifico di Diversity: Miglior servizio TG, Miglior Articolo Stampa Quotidiani, Miglior Articolo Stampa Periodici, Miglior Articolo Stampa Web. I Diversity Media Awards sono un osservatorio costante dello stato dell’inclusività dei media d’informazione e d’intrattenimento. L'articolo Diversity Media Awards, ilfattoquotidiano.it in finale come “miglior articolo stampa web” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Due diligence per diritti umani e ambiente: il Ppe fa asse con le destre per ridurre gli obblighi
Il Parlamento europeo vota la sua posizione negoziale su due dossier chiave per il Green Deal: la modifica alla Legge Clima per stabilire l’obiettivo di decarbonizzazione al 2040 e il pacchetto di semplificazione legislativa sulla finanza sostenibile (Omnibus I). E decide di indebolire molte delle misure che obbligano le aziende a rispondere delle violazioni dei diritti umani e ambientali nelle loro catene di approvvigionamento. Proprio in questi momenti, tra emendamenti votati a scrutinio segreto, espressioni di voto, astensioni e dichiarazioni a caldo si palesano i tentativi di ridurre l’ambizione delle politiche climatiche dell’Unione europea. In seduta plenaria, l’Eurocamera ha adottato con 379 voti favorevoli, 248 contrari e 10 astensioni la sua posizione sulla proposta della Commissione di modifica della legge europea sul clima: si segue la strada tracciata dal Consiglio europeo (Leggi l’approfondimento), che prevede un nuovo obiettivo intermedio e vincolante di riduzione netta delle emissioni di gas a effetto serra del 90% entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990 con più flessibilità, tra cui la possibilità di utilizzare crediti internazionali per coprire 5% dell’obiettivo. Nel corso del voto, però, sono stati respinti una serie di emendamenti che chiedevano di abbassare il target all’83% e un rinvio del sistema Ets 2 al 2030. Ma se in questo caso c’è stato uno sgambetto fallito a un testo già di compromesso, il vero risultato le destre l’hanno portato a casa sulla riduzione, nel pacchetto Omnibus I, degli obblighi di rendicontazione di sostenibilità e di dovere di diligenza per le imprese previsti dalle direttive su Corporate Sustainability Reporting e Corporate Sustainability Due Diligence. Il testo è stato approvato con una maggioranza composta dal Ppe insieme a Ecr e ai gruppi delle destre Patrioti per l’Europa e Europa delle Nazioni sovrane. Spaccata nuovamente, dunque, la cosiddetta maggioranza Ursula composta da Ppe, Socialisti, Liberali e Verdi. REPORTISTICA AMBIENTALE E DUE DILIGENCE: IL PPE FA ASSE CON LE DESTRE Con 382 voti favorevoli, 249 contrari e 13 astensioni, i deputati hanno adottato la loro posizione su una proposta legislativa che punta ad alleggerire gli oneri amministrativi per le aziende. I negoziati con i governi dell’Ue, che hanno già adottato la loro posizione, inizieranno il 18 novembre con l’obiettivo di trovare un accordo finale sulla legislazione entro il 2025. Per quanto riguarda la direttiva sulla rendicontazione ambientale, il mandato dell’Eurocamera alza la soglia del campo di applicazione, limitandola alle aziende con oltre 1.750 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 450 milioni di euro che dovranno redigere relazioni sociali e ambientali. Solo le imprese che rientrano in questo ambito saranno inoltre tenute a fornire relazioni sulla sostenibilità in linea con la tassonomia, ovvero la classificazione degli investimenti sostenibili dell’Ue. La proposta originaria di Bruxelles includeva aziende con mille dipendenti e un fatturato superiore a 50 milioni di euro o un totale di bilancio superiore a 25 milioni di euro. I deputati europei chiedono inoltre alla Commissione di creare un portale digitale per le imprese con accesso gratuito a modelli, linee guida e informazioni su tutti i requisiti di rendicontazione dell’Ue. Gli obblighi di due diligence, poi, dovrebbero applicarsi a grandi società con più di 5mila dipendenti e un fatturato annuo superiore a 1,5 miliardi di euro, riprendendo in larga parte le soglie della proposta della Commissione, ma eliminando l’obbligo del piano di transizione per rendere il modello di business in linea con gli obiettivi dell’accordo sul clima Parigi. Le aziende potranno essere soggette a sanzioni pecuniarie per il mancato rispetto dei requisiti di sostenibilità ambientale e sociale lungo la loro intera catena di approvvigionamento. LE REAZIONI DOPO IL VOTO CHE SVELANO FORTI TENSIONI “Dopo settimane di ostruzionismo e ricatti – commenta la co-presidente dei Verdi europei, Terry Reintke – il Ppe ha interrotto i negoziati con i tre gruppi centristi e ha deciso di rompere il cordone sanitario. Ha scelto di allearsi con Orbán e Le Pen per affossare le leggi in materia di ambiente e diritti umani che rendono le grandi aziende responsabili del loro processo produttivo”. Attacca anche il gruppo The Left: “Il Partito popolare europeo trova nuovi amici nell’estrema destra. Si forma un’alleanza fascista-conservatrice per assolvere le aziende dalle violazioni dei diritti umani e dalla distruzione ambientale”. E d’altronde ciò che è accaduto lo raccontano i diretti interessati. “Il gruppo Patrioti per l’Europa ha ottenuto un successo significativo, ribaltando la vecchia maggioranza di coalizione e aprendo la strada alla sostituzione del Green Deal con un programma orientato alla competitività” afferma in una nota il gruppo dei Patrioti per l’Europa al Parlamento europeo. E ancora: “Per la prima volta, il cosiddetto cordone sanitario è stato rotto in una votazione legislativa. Una nuova maggioranza, che unisce Patrioti per l’Europa, Ecr (Conservatori e Riformisti), Esn (Europa delle nazioni sovrane) e Partito popolare europeo, ha prevalso a favore di un approccio più proporzionato e orientato alla crescita, che libera le aziende europee da vincoli costosi e inutili”. Tra gli europarlamentari italiani, Mario Furore (M5S), definisce “la deregolamentazione selvaggia” prevista dalle nuove norme sulla due diligence approvate dal Parlamento europeo” come un “regalo alle grandi compagnie che già oggi soffocano le piccole imprese e gli artigiani”. E aggiunge: “La destra ancora una volta tradisce le piccole e medie imprese favorendo quelle grandi che sono poi, guarda caso, quelle che eludono il fisco in Europa o sfruttano i lavoratori nei Paesi più poveri del mondo facendo un inaccettabile dumping alle imprese italiane ed europee”. VOTATO PURE L’ACCORDO SUL TAGLIO DELLE EMISSIONI. E POTEVA ANDARE ANCHE PEGGIO Il Parlamento europeo ha approvato anche la sua posizione sulla proposta della Commissione di modifica della legge europea sul clima per un target vincolante di riduzione netta delle emissioni del 90% entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990. Con alcune flessibilità, come il discusso ricorso fino al 5% di crediti internazionali di carbonio “di alta qualità” nel raggiungimento del target a partire dal 2036, con una fase pilota dal 2031 al 2035. La Commissione aveva proposto un massino di 3 punti percentuali ma, la settimana scorsa proprio il ministro dell’Ambiente italiano, Gilberto Pichetto Fratin aveva molto insistito su questo punto. Il testo – frutto di un compromesso tra i gruppi Ppe, Socialisti Ue, Renew e Verdi – sarà il mandato politico dell’Eurocamera per avviare il negoziato con i Paesi Ue. La posizione negoziale adottata in plenaria conferma il mandato adottato dalla Commissione Ambiente (Envi) a inizio settimana e riprende molti degli elementi inclusi nel mandato dei Paesi Ue, adottato a fatica la scorsa settimana. Tra le altre flessibilità, gli eurodeputati sostengono l’idea di una valutazione su base biennale da parte della Commissione europea sui progressi compiuti verso gli obiettivi intermedi che tenga “conto dei dati scientifici più recenti, degli sviluppi tecnologici e della competitività internazionale dell’Ue”, con la possibilità di presentare una proposta legislativa, se necessario, per rivedere l’intero target. Gli eurodeputati confermano, inoltre, un riferimento al ruolo dei biocarburanti nella decarbonizzazione dei trasporti, ottenuto dall’Italia nel mandato negoziale del Consiglio Ue. Nonché la possibilità di ricorrere a un “freno di emergenza” per rivedere il target qualora gli assorbimenti attraverso i pozzi naturali di carbonio, come le foreste, siano inferiori alle attese. Il compromesso sostiene, infine, il rinvio di un anno, dal 2027 al 2028, del nuovo mercato del carbonio (Ets2) per trasporti ed edifici. E poteva essere anche più pesante il pacchetto di flessibilità. Nel corso del voto sono stati respinti una serie di emendamenti presentati da alcuni eurodeputati del Ppe votati a scrutinio segreto – su richiesta del gruppo Ecr – che chiedevano di abbassare il target all’83% e un rinvio al 2030 del sistema Ets 2, molto osteggiato da diversi Paesi europei. L'articolo Due diligence per diritti umani e ambiente: il Ppe fa asse con le destre per ridurre gli obblighi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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