Questa volta parliamo di cinque film in sala. Con Ammazzare stanca.
Autobiografia di un assassino, riemerge la vera storia di Antonio Zagari, il
primo pentito ‘ndranghetista. Daniele Vicari mette in scena un crime aspro sul
varesotto decadente degli anni Settanta, con ferite dilaganti tra rapine in
gioielleria e spaccio d’eroina. È questa la prima spaccatura famigliare degli
Zagari. Il padre, interpretato in calabro da un Vinicio Marchioni oscuro e
intransigente con la filosofia di pizzo, rapina e omicidio da un lato;
dall’altro il figlio più indipendente Antonio, con il grugno disincantato di
Gabriel Montesi, la repulsione segreta per il sangue versato e le ambizioni
diverse che lo porteranno a cambiare, e non sempre al suo fianco il fratello
minore, più fragile e sottomesso, con il volto emaciato di Andrea Fuorto,
attratto dal nuovo e milionario business della roba. L’epopea tragica di una
famiglia che ha stravolto il concetto di emigrazione dal Mezzogiorno si completa
con Selene Caramazza, qui compagna positiva ma donna ferita, Rocco Papaleo,
vecchio padrino locale più o meno onnipotente, e un cast roccioso in ogni suo
carattere. Discreto nipotino di Romanzo Criminale, chissà se lo ritroveremo in
lizza per più d’un David.
È in sala dal 4 anche Regretting you – Tutto quello che non ti ho detto, family
drama corale che gioca a sei personaggi. La zia e il padre di una spensierata
sedicenne, Clara, muoiono in un incidente d’auto. Da qui la scoperta sulla
relazione fedifraga dei due. La madre e lo zio vedovi, artefici della dolorosa
ricostruzione, completano il quadro insieme al giovane compagno di scuola di
Clara. I ragazzi sono interpretati da due astri nascenti di Hollywood. 37 anni
in due. McKenna Grace, splendida attrice di Gifted, I Racconti dell’Ancella, i
nuovi Ghostbusters e l’attuale Five Nights at Freddy’s 2, e all’attivo una
cinquantina tra film e serie interpretate. Al suo fianco Mason Thames, già eroe
di Dragon Trainer e Black Phone. Sembra un piccolo Patrick Swayze. Nel mondo il
loro film ha incassato 90 milioni di dollari, da noi appena 300mila euro. Ma
questi due ragazzi saranno da tenere d’occhio per le loro potenzialità
artistiche.
01 Distribution propone dal 9 all’11 dicembre questo evento speciale, il film su
Brunello Cucinelli, industriale umbro partito dal nulla che ha conquistato il
mondo e la moda con i suoi capi in cashmere, ma anche filantropo, capitalista
umanista attentissimo ai diritti dei lavoratori e a un rispetto sacro della
terra e delle risorse imparato fin da piccino nella vita in campagna. Partito
come un documentario commissionato a Giuseppe Tornatore per un’evidente
agiografia, nelle mani del premio Oscar diventa un biopic di maestosa bellezza
con incursioni documentaristiche da super-voce narrante di Brunello e di molti
dei suoi amici/clienti, come Oprah Winfrey. Una storia di eccellenza che
certamente tralascia lati più grigi, casomai ce ne fossero, di quest’uomo che a
produzione ferma, durante il Covid pagò comunque due anni di stipendi pieni ai
suoi numerosi dipendenti.
Il piccolo Brunello e il suo mondo intorno ci ricordano un po’ il Totò di Nuovo
Cinema Paradiso, ma in Umbria le sue sembianze recitative spettano allo
smaliziato Saul Nanni, mentre le musiche, anch’esse maestose e rassicuranti, al
maestro Nicola Piovani. Da vedere per fare il pieno di bellezza e ottimismo. Ma
anche per la sua coriacea e poetica ironia tesa al successo, con
l’inconfondibile tocco di Tornatore.
Da un veterano come Tornatore a un’esordiente al lungometraggio, troviamo
dall’11 dicembre in sala la palestinese-britannica Farah Nabulsi con il suo The
Teacher. Con Imogen Poots e Saleh Bakri – visto recentemente in Tutto quello che
resta di te – l’autrice ci fa percorrere le vie perverse delle (in)giustizie
israeliane attraverso il dolore, la rabbia sopita e l’insidiosa elaborazione
emotiva del protagonista palestinese. Un professore prende sotto la propria ala
un suo studente che ha visto uccidere impunemente il proprio fratello da un
colono suprematista. Episodio che fa pensare al fenomeno dei “giovani delle
colline”. Opera coraggiosa e amara tanto quanto la cooperatrice internazionale
di Poots rappresenta l’innocenza incosciente ma volenterosa di un Occidente
attivista, e il personaggio di Bakri incarna la tragedia di un popolo e le
oppressioni quotidiane invisibili al mondo. Labirintiche e dolenti le sfumature
e le conseguenze della vendetta che ne vengono a galla, porta il pubblico
innanzi alle leve dell’odio e alle tremende ma inevitabili difficoltà per
qualsiasi pensiero o gesto di pace.
Infine passiamo all’Asia con Un inverno in Corea. L’opera prima di Koya Kamura
profuma di casa, di posto sicuro, anche se parla di un disegnatore francese in
viaggio a Sokcho per trovare solitudine e ispirazione, Roschdy Zem. Lo accoglie
nella pensioncina dove lavora una giovane che parla francese per via di un padre
mai conosciuto, Bella Kim. Partirà da qui un incontro di anime calme in una
città diversa da ogni nostro immaginario. Con stile compassato il film si nutre
quei piccoli dettagli e illusioni che rendono indimenticabili certi incontri.
#PEACE
L'articolo ‘Ammazzare stanca’, il cinema sotto Natale no: da Tornatore a Gabriel
Montesi, ecco cinque film in sala proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Film in uscita al cinema
L’acquisizione di Warner Bros da parte di Netflix ha innescato un vero terremoto
nel mondo del cinema e dell’audiovisivo globale. La notizia, destinata a
ridisegnare gli equilibri dell’industria, sta suscitando reazioni anche
preoccupate da parte di associazioni, istituzioni e osservatori, preoccupati per
il destino delle sale cinematografiche e per le conseguenze sulla concorrenza.
La piattaforma dello streaming che “divora” di fatto un colosso storico della
cinematografica con un catalogo che va Kubrick a Tom&Jerry agita gli addetti ai
lavori ma anche gli appassionati del cinema in sala come gli abbonati per il
timore che i prezzi salgano e l’operazione possa portare a una desertificazione
delle sale, visto lo scarso interesse di Netflix per la sale.
Negli Stati Uniti l’acquisizione ha aperto un fronte politico e regolatorio.
Secondo quanto riferito alla CNBC, l’amministrazione Trump avrebbe espresso
“forte scetticismo” sull’operazione, una posizione condivisa anche da esponenti
democratici come la senatrice Elizabeth Warren, convinta che l’accordo
porterebbe a “prezzi di abbonamento più alti e meno scelta”, mettendo “a rischio
i lavoratori americani”. Intanto Paramount Skydance starebbe valutando la
possibilità di rivolgersi direttamente agli azionisti di Warner Bros. Discovery
per contestare l’operazione, sostenendo che l’acquisizione da parte di Netflix
verrebbe comunque bloccata dalle autorità. Sul fronte antitrust, le probabilità
non sono facilmente prevedibili: Netflix è leader dello streaming, ma detiene
solo il 25% del mercato globale delle piattaforme e meno del 10% se l’ambito
viene ampliato alla televisione nel suo complesso.
Il Washington Post rileva che, salvo prove concrete di un danno ai consumatori,
difficilmente il governo potrebbe impedire un accordo approvato da entrambe le
assemblee degli azionisti. E ricorda anche gli ottimi rapporti tra la famiglia
Ellison – coinvolta nell’operazione – e il presidente Donald Trump,
sottolineando che “il favoritismo politico e il timore delle grandi dimensioni
non sono motivi sufficienti” per un blocco. La partita è dunque ancora tutta
aperta, ma il settore del cinema segue con preoccupazione uno scenario che
potrebbe segnare una delle più profonde trasformazioni dell’industria
dell’intrattenimento degli ultimi decenni.
In Italia, l’Associazione nazionale esercenti cinema (Anec) chiede che
“eventuali operazioni di concentrazione nel mercato globale dell’audiovisivo
vengano valutate con la massima attenzione”. Il presidente Mario Lorini
ribadisce l’impegno nel “difendere la centralità della sala” e invita il governo
ad aprire un confronto istituzionale a livello europeo. Per l’Anec, il rischio è
che un colosso come Netflix – tradizionalmente orientato allo sfruttamento
streaming – possa ridurre drasticamente il numero di film destinati alla
distribuzione cinematografica, compromettendo la diversità dei contenuti e la
sopravvivenza di molte sale.
Una preoccupazione condivisa dall’Unione Internazionale dei Cinema (Unic), che
rappresenta 39 Paesi. Il presidente Phil Clapp e la CEO Laura Houlgatte
avvertono che “la sparizione di una Major all’interno di un gruppo guidato da un
operatore che in passato ha mostrato scarso interesse verso lo sfruttamento in
sala potrebbe ridurre in modo significativo il numero di film disponibili e
indebolire l’esclusività delle uscite cinematografiche“. Per l’Unic, questo
potrebbe compromettere un pilastro essenziale per “sostenibilità, varietà e
valore culturale” dell’esperienza al cinema, con ricadute occupazionali e di
vivibilità dei territori.
Preoccupazioni che l’Anec definisce “pienamente condivise”, ricordando come
Netflix finora abbia portato in sala i propri titoli solo per brevi periodi e
quasi esclusivamente in funzione dei premi dell’industria. Un modello che,
secondo l’associazione, se esteso anche alla produzione Warner, “non potrà che
portare danni irreversibili” al settore. La vicenda arriva inoltre in un momento
delicato per le sale italiane, che attendono certezze su fondi, incentivi e
recupero dei tagli previsti dalla manovra.
L'articolo “Prezzi degli abbonamenti più alti e meno scelta”, l’acquisizione di
Warner Bros da parte di Netflix scuote il cinema e la politica proviene da Il
Fatto Quotidiano.
“Trovo orribile che l’Intelligenza Artificiale possa creare un attore”. James
Cameron oramai è diventato un fustigatore della contemporaneità di Hollywood.
Dopo aver sparato a zero su Netflix e la sua politica di cancellazione graduale
dell’esperienza della sala cinematografica, il regista di Avatar ha voluto
smorzare ogni entusiasmo per l’Intelligenza Artificiale che crea dal nulla
attori e attrici.
In una intervista rilasciata alla CBS, Cameron ha spiegato che anche prima
dell’invenzione dell’AI generativa alcuni addetti ai lavori a Hollywood
pensavano che lui, durante la lavorazione di Avatar (2005), attraverso la
computer grafica, stesse per sostituire gli attori. Per anni c’era questa
sensazione e si diceva ‘Oh stanno facendo qualcosa di strano con i computer e
sostituiscono gli attori, quando in realtà, una volta che si va più a fondo si
vede cosa abbiamo e stiamo facendo con Avatar: la celebrazione del momento
attore-regista”.
Cameron ha spiegato che invece l’AI generativa sta “invadendo” il settore cinema
e che per lui l’idea che la tecnologia possa sostituire un artista è “orribile”.
“All’altro estremo dello spettro rispetto al nostro lavoro c’è l’AI generativa
che può inventare un personaggio o un attore da zero con un semplice prompt. Per
me questa roba è orribile, ma soprattutto è l’opposto di quello che abbiamo
fatto (con Avatar ndr).
Come scrive Jams Dunn, in apertura del pezzo pubblicato su Variety,
“difficilmente Cameron chiamerà a recitare Tilly Noorwod”, l’attrice generata
totalmente in AI dalla produttrice Eline Van der Velden e che avrebbe
addirittura già “ricevuto l’interesse di diverse agenzie di talent”. In linea
generale, infine, sembra quasi una situazione storica in cui un re del settore
(Cameron) che ha regnato per decenni lavorando sull’evoluzione tecnologica e
diventandone l’assoluto interprete mondiale, sia come in procinto di abdicare di
fronte a questo pullulare di disordinati ma agguerriti barbari invasori (aziende
che lavorano con AI generativa) del suo stesso regno. Il terzo capitolo di
Avatar – Fire and ash – uscirà nelle sale il 17 dicembre prossimo.
L'articolo “Trovo orribile che l’Intelligenza Artificiale possa creare un
attore”, il fustigatore James Cameron contro l’invasione proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Le opere prime, piccoli salti nel buio che fanno sentire sempre un po’ pioniere
qualsiasi spettatore, a volte portano una luce tremendamente realistica nel
raccontare frammenti del mondo che viviamo. Immaginate Reality di Garrone, ma
tutto al femminile, e pure adolescenziale. Bene, ora trasportatelo al di là
delle nostre Alpi: nella cittadina di Frejus, Francia.
Una ragazza brillante segue la vicenda di Liane, diciannovenne fissata con i
ritocchi estetici e l’ambizione smodata a diventare star di un reality show che
la farebbe esplodere sui social, come nuovo personaggio pubblico. Altro che
posto fisso, diremmo in Italia. La regista Agathe Riedinger ha un tocco vitale e
sincero che c’immerge in una quotidianità di diatribe tra madre e figlia per la
sua nullafacenza social, il sogno della fama senza particolari talenti, la
disperata rincorsa all’immagine e la ferita di una vita di relazioni reali pian
piano sempre più intaccate da questa bramosia.
Convincente anche la prova della protagonista Malou Khebizi, il film sprigiona
tutta la potenza di opere sui giovani come quelle di Kechiche, o del recente
Bird della britannica Andrea Arnold, o di Un sogno chiamato Florida, del Premio
Oscar Sean Baker. In Concorso a Cannes e candidato a due Premi César, Wild
Diamond mette in luce una le fragilità adolescenziali impastandoci sapientemente
il sogno di emergere contro la rigida vorticosità impassibile del mondo adulto.
Parla di giovani, e anche ai giovani sarebbe il caso di aggiungere, quest’altra
opera prima: To a land unknown. Due cugini palestinesi poco più che ventenni,
fuggiti da un campo profughi in Libano, si ritrovano ad Atene senza documenti,
ma con tanti espedienti poco legali per sfangare ogni giornata e architettare
prima o poi il piano giusto per andare in Germania, per loro terra di speranza.
L’occasione arriverà mettendo insieme un piano di fuga intorno a un ragazzino
tredicenne nella loro stessa situazione e una donna greca senza arte né parte.
Qui non ci vengono mostrati israeliani e fucili spianati come in No Other Land,
o il genocidio in atto come La voce di Hind Rajab. Il regista Mahdi Fleifel,
mantenendo uno sguardo lucido e microsociologico sui suoi ragazzi di strada, ci
mostra invece le conseguenze catastrofiche di quel fenomeno della nuova diaspora
in corso. Piani sequenza attraverso gli anfratti di Atene, una camera che si
muove su una storia urbana disgraziata ma resa in modo schietto anche per la
scrittura in stile Dardenne – guardando più strettamente al recente Tori e
Lokita – il film è stato molto apprezzato anche da Ken Loach. Da non perdere per
capire le condizioni di chi fugge da lontano ritrovandosi nelle nostre città
senza niente, o quasi.
Passiamo alla panciuta America, che ci sforna il terzo capitolo Now you see me,
saga d’illusionismo action sempre capitanata da Jesse Eisenberg. I vecchi
protagonisti ci sono tutti, ma alla squadra che ben conosciamo si aggiunge un
pugno di giovani con le stesse qualità e ambizioni. L’obiettivo? Un diamantone
brandito da una raffinata e algida Rosamunde Pike in versione villain, con tanto
di scagnozzi incravattati al seguito. Tra le nuove leve di questi moderni Robin
Hood spicca Dominc Sessa, già protagonista solidissimo in The Holdhovers, che
due anni fa gli è valso un Critics Choise Award come attore protagonista.
Bell’impennata, per un esordio in carriera. Ci sarà da seguirlo con interesse.
E si fa seguire con partecipazione anche L’illusione perfetta, titolo italiano,
ma anche ambizione di ognuno dei protagonisti, vecchi e nuovi, che messi insieme
potrebbero combinarsi come Avengers del furto, o generare nuove saghe o spin-off
da future serie tv. Chissà. Almeno ci sbologneremmo un po’ di rimanipolazioni
filmiche dalle sale verso le più capienti piattaforme. Ma bando alle ciance, il
film, con i suoi quasi 77 milioni di dollari già incassati nel mondo, e senza
furti, in Italia è al primo posto con oltre 1,5 milioni di euro. Ottimo
intrattenimento senza pretese, ma di buona qualità cinematografica, inoltre
risultano apprezzabili l’appeal da spettacolare rompicapo e la scarsa dose di
violenza.
Sul discorso violenza dobbiamo ora armarci di scorza e pazienza per Shelby Oaks,
nuovo horror sulla sparizione di una talentuosa ragazza youtuber dedita a
ravanare nel torbido di storie di sangue. Va così, che dopo 12 anni, sua sorella
viene coinvolta da nuovi fattacci e spinta a indagare su qualcosa che forse non
dipende solo dalla ferocia di un semplice serial killer. Siamo curiosamente a
un’altra opera prima, Chris Stuckmann, già critico e youtuber di successo. Con
grande determinazione commerciale, l’horror prodotto dal regista Mike Flanagan,
big del new-horror a stelle e strisce, fa sue lezioni vecchie e nuove prendendo
da Blair Witch Project e Omen, e mescolandoli in un trampolino d’intrattenimento
macabro pronto per futuri sequel.
Curiosità sul cinema che viene dal basso: Shelby Oaks risulta come il film
horror con il più alto finanziamento mai realizzato su Kickstarter, la
piattaforma di crowdfunding online, con oltre 14.000 sostenitori e 1,4 milioni
di dollari raccolti, dimostrando tutta la forza reale di quasi 2 milioni
d’iscritti al canale YouTube del regista. Caso unico nella storia del cinema,
che farà letteratura in materia. Da noi è in sala dal 19 novembre, giorno in cui
ha totalizzato 5,5 milioni di dollari d’incasso nel mondo a partire dal 24
ottobre. #PEACE
L'articolo Film in sala: dalla diaspora palestinese di ‘To a land unknown’
all’horror ‘Shelby Oaks’ proviene da Il Fatto Quotidiano.
Anche un suicidio assistito può essere raccontato e mostrato con garbo e ironia.
È quello che fa l’attrice francese Enya Baroux, all’opera prima dietro la
macchina da presa con Buon viaggio Marie (On ira, in originale). Un on the road
apparentemente buffo, con tipizzazioni comiche tipicamente francesi (Paul Lottin
è uno sbruffoncello elegante e perfetta faccia da schiaffi), un Little miss
Sunshine che non si arena nel vuoto e noioso minimalismo hollywoodiano. L’80enne
Marie (Hélène Vincent, magnifica con o senza Ozon) è oramai giunta al capolinea.
Un cancro la sta divorando e ha già deciso di farla finita con il suicidio
assistito in Svizzera.
Serve solo la firma su un foglio di suo figlio Boris, una sorta di strampalato
nullafacente (David Ayala) vagolante tra progetti irrealizzabili (una app per i
divorzi che nessuno finanzia) e zeppo di scoperti bancari. E visto che Bruno è
disinteressato a mamma, ci pensa Marie a sfruttare l’infermiere a domicilio Rudy
(Lottin, appunto) chiamato per un’urgenza modello allarme Beghelli, altro
assurdo personaggio che vive con un topolino amico dentro ad una gabbietta
occupando abusivamente case dei clienti.
L’anziana prima lo fa firmare al posto del figlio, poi come ultimo desiderio,
sparando una balla pure lei, convince Boris e Anna, la giovanissima nipote un
po’ bizzarra, a partire sul vecchio camper di famiglia per la Svizzera dove il
nonno avrebbe lasciato non si sa bene quale scampolo di eredità. Un viaggio
lentissimo, pieno di pause volontarie e comiche, che attraversa la Francia delle
coste del nord ovest fino al confine Est, dove si scopre che Boris si è venduto
l’impossibile e che sgraffigna pure i soldi sul conto della figlia. Insomma, in
Buon viaggio Marie tutti e quattro i protagonisti sono degli imbroglioni. Chi
più, chi meno, non sanno far altro che mentire in modo scanzonato alle persone
care o vicine.
L’on the road è comunque estremamente spassoso, giocato su situazioni
paradossali, con un umorismo nel dipingere contesto, atmosfera e caratteri
sempre un centimetro sopra la righe, ma mai cadendo nell’idiozia demenziale.
Buon viaggio Marie è un piccolo miracolo nell’amalgama tra ingredienti che
colorano in superficie della commedia e il sottotesto del dramma. La pratica del
suicidio assistito del resto aleggia sfumata ineludibile con una energia visiva
e un’onestà morale che va ben oltre i formalismi più laccati e tediosi. Tra gli
attori spicca la faccetta istrionica della Vincent che si piega lentamente dal
riso al dolore in una performance di inaudita qualità. Per infierire, infine,
ancora nel confronto tra tono, costrutto e risultato tra le produzioni francesi
e quelle italiane (come abbiamo fatto per I colori del tempo).
Buon viaggio, Marie è letteralmente Il premio di Alessandro Gassman girato come
dio comanda, con naturale ispirazione poetica e totale controllo dei propri
mezzi espressivi. Distribuisce Movies Inspired.
L'articolo “Buon viaggio Marie” quando un suicidio assistito può essere
raccontato e mostrato con garbo e ironia proviene da Il Fatto Quotidiano.