“Non è una riforma della giustizia ma è una riforma contro i magistrati”. Da
Napoli il sostituto Procuratore nazionale Antimafia Antonino Di Matteo commenta
il referendum in tema di Giustizia, sul quale gli italiani saranno chiamati a
votare nei prossimi mesi.
“Ascolto in questi giorni quelli che sono gli autori di questa riforma dire
pubblicamente che se i cittadini non sono soddisfatti dell’andamento della
Giustizia allora dovranno votare ‘Sì’ al referendum. Ma andateli a vedere questi
articoli della riforma – spiega Di Matteo – non ce n’è uno che sposti di un
centimetro almeno uno dei problemi principali, cioè quello della lentezza dei
processi. Non c’è un solo articolo che sposti di un centimetro il tema delle
garanzie per indagati e imputati o la condizione carceraria dei detenuti. Questa
– prosegue Di Matteo – è una riforma della magistratura, sulla magistratura e
contro la magistratura e contro l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Nei paesi ad esempio dove vige la separazione delle carriere, che oggi si vuole
introdurre in questa riforma, gli uffici del Pubblico Ministero sono sottoposti
al controllo dell’esecutivo e al controllo del Ministro della Giustizia, cioè
alle direttive della politica e questa riforma, che in maniera ingannevole per i
cittadini viene chiamata riforma della Giustizia è fatta proprio con uno spirito
di rivalsa nei confronti di quella parte della magistratura che nei decenni
scorsi ha avuto il coraggio e la forza, avendo autonomia e indipendenza dagli
altri poteri, di fare – conclude Di Matteo – indagini e processi che hanno
riguardato i potenti, che hanno riguardato il potere in Italia, che hanno
riguardato le collusioni del potere con la criminalità organizzata e i sistemi
corruttivi”.
A Scampia, ospite di un evento sul tema della giustizia che si è svolto nel
Centro ‘Officina delle Culture – Gelsomina Verde’, una ex base di spaccio oggi
sede di decine di associazioni, il Di Matteo parla di un potere che negli anni
si è creato una sorta di immunità generando una Giustizia a due facce. “Quella
che abbiamo oggi è una Giustizia efficace, rigorosa, certe volte anche spietata
nei confronti delle manifestazioni criminali perpetrate dagli ‘ultimi’ della
Società, e un’altra Giustizia – prosegue Di Matteo – con le armi spuntate nei
confronti dei potenti. Oggi il sistema carcerario italiano conta circa 60 mila
detenuti, se andiamo vedere le statistiche, quelli che stanno scontando una pena
per corruzione o reati simili alla corruzione sono giusto una decina. Ne
consegue – spiega Di Matteo – che in Italia il fenomeno della corruzione non
esiste, che siamo un Paese virtuoso, o che nei confronti dei ‘potenti’ si è
creato una sorta di scudo di protezione e di impunità”.
“E tutte queste riforme che si sono succedute negli anni – conclude il sostituto
Procuratore nazionale Antimafia – vanno in questa direzione: l’abrogazione
dell’abuso d’ufficio, le intercettazioni che possono durare solo 45 giorni,
l’interrogatorio preventivo quando c’è una richiesta di custodia cautelare che
riguarda soprattutto i reati tipici dei colletti bianchi, tutto va in questa
direzione e il referendum che si propone – ribadisce Di Matteo – non risolve
nessuno dei veri problemi della Giustizia ma indica una generale tendenza,
nazionale e internazionale, ad accentrare sempre più il potere in capo ai
governi di turno in danno del potere legislativo e giudiziario”.
L'articolo Di Matteo smonta la riforma della giustizia: “È contro i magistrati e
l’autonomia. Nessun articolo sulla lentezza dei processi o per i detenuti”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Riforma della Giustizia
Chi ha conosciuto da vicino Enzo Tortora sa bene quanto avrebbe potuto irritarlo
l’ingresso forzato nel provvisorio nuovo pantheon della destra al potere, con
tanto di una sala intitolata accanto a quella del Beato Rosario Angelo Livatino
(difficile immaginare figure tanto distanti!), e peggio ancora la trasformazione
posticcia in icona da sventolare contro i magistrati nella battaglia
referendaria che si è aperta. Anche l’imminente fiction su Tortora di Netflix,
nonostante la consueta inappuntabile interpretazione di Fabrizio Gifuni, pare
che non centri precisamente la questione della vicenda giudiziaria del
presentatore di Portobello, oltre ad essere viziata dal pregiudizio snob nei
confronti della tv popolare che i registi italiani di cinema, come Marco
Bellocchio, non hanno mai smesso di esercitare.
Prima che qualcuno possa pensare che sono sentenze sparate a casaccio, meglio
premettere che, al tempo – come noto e riportato in varie testimonianze, in
primis le lettere dal carcere che Tortora stesso pubblicò in volume – ero un
giovane cronista televisivo de Il Giorno e mi capitò di avvertire molte ore
prima il presentatore del possibile arresto nell’ambito di un’inchiesta
napoletana sulla camorra. Ero stato imboccato, molto vagamente, dal direttore
Guglielmo Zucconi (già parlamentare della Dc e direttore del settimanale di
partito), che aveva avuto la notizia – come ho poi ricostruito – dal ministro
dell’Interno di allora e subito dopo della Giustizia, Virginio Rognoni, ma ebbe
cura di nasconderlo subito dicendomi: “Ho saputo per certo che una clamorosa
indagine sulla camorra coinvolge un personaggio di primo piano del mondo dello
spettacolo. Non sono riuscito a farmi dire altro se non che si tratta
probabilmente di un famoso protagonista anche della tv e che si può cercare il
cognome tra le ultime lettere dell’alfabeto. Vedi tu se riesci a pescare al volo
l’interessato prima che finisca nella bufera…”
Zucconi senior, già autore di Scaramacai e tipo davvero molto spiritoso, si mise
subito a sdrammatizzare sorridendo e invitandomi a cercare nomi con lui: “Beh,
alla Z ci sarebbe giusto Mago Zurlì, ah ah; alla V Raimondo Vianello,
impensabile; alla U non saprei ma la T è piena, da Tognazzi, che farebbe davvero
ridere, a…”. E lasciò a me la chiusa: “D’accordo, provo a cercare subito
Tortora!”. E’ andata com’è andata, il presentatore era a Roma per riunioni di
lavoro e ha preso la mia telefonata del primo pomeriggio alla stregua di
un’assurdità: “Come se mi avessero detto che eri accusato di aver violentato la
Madonnina sul Duomo”, mi scrisse poi da Regina Coeli. Alla sera, nonostante gli
fosse arrivata una telefonata analoga dall’Ansa, Tortora se n’era andato a
dormire serenamente in albergo. Amen, il resto è noto.
Per mesi, poi, sono stato molto vicino al presentatore, alla sua meravigliosa
figlia primogenita Silvia e all’unica persona che sa tutto e non ha mai voluto
parlare, Gigliola Barbieri, assistente e prima collaboratrice di Tortora dai
tempi d’oro della grande Domenica Sportiva. Ora, posto che si debba affibbiare
anche a Tortora una qualche etichetta, era il classico vecchio signore
conservatore, laico e dichiaratamente liberale, nel senso proprio della
tradizione rappresentata dal piccolo partito post-risorgimentale che aveva
partecipato alla Resistenza ed era ai vertici del CLN (anche Marco Pannella
veniva dai liberali vicini a Mario Pannunzio). Ma, in tutto e per tutto, Tortora
era proprio un cane sciolto, abituato a guardare con una certa diffidenza, se
non proprio disprezzo, il mondo del potere, anche quello economico.
Con i democristiani si era scontrato in Rai molti anni prima, eppure aveva
appena rifiutato di lasciare la tv di Stato per accettare un’offerta ricchissima
di Silvio Berlusconi, confidando agli esterrefatti collaboratori più intimi, la
sorella Anna e il cognato Giampaolo, la sua perplessità: “Tra tv e pubblicità
guadagno già fin troppo bene e tutto quel denaro mi metterebbe a disagio… E
chissà, poi, se un giorno si scoprisse che viene da chissà dove…”. Onestamente
va ricordato che Berlusconi fu il primo a dire subito che Tortora era
assolutamente una persona specchiata e inattaccabile, come aveva avuto modo di
appurare durante la trattativa, altro che un trafficante di droga per la
camorra.
La vicenda giudiziaria e mediatica, per cui il ministro Rognoni si era esposto
in prima persona (“ci sono prove schiaccianti, mi confermano dalla Procura di
Napoli” ripeteva nei giorni seguenti al telefono con il direttore de Il Giorno),
nasce semplicemente da un vero e proprio input politico della Dc. Bisognava
cancellare con una grande inchiesta qualunque dubbio sull’ipotetica connivenza
con la camorra tra il partito di maggioranza relativa, dove allora gli esponenti
campani vantavano il segretario, Ciriaco De Mita, e anche il peso di un’area
della corrente più potente, i cosiddetti dorotei.
Per una specifica vicenda napoletana, il rapimento da parte delle Brigate Rosse
dell’assessore Dc Ciro Cirillo e la liberazione dopo il pagamento di un
riscatto, l’Unità sollevò pesanti illazioni circa il ruolo chiave dei boss della
malavita nella soluzione del caso. E così la cupola democristiana chiese e
ottenne un’operazione ‘maxi-blitz anticamorra’, che non guardasse platealmente
in faccia a nessuno, incastrando anche nomi pesanti. A qualche servitore tanto
zelante quanto maldestro, invece di puntare ai veri boss, non parve vero
d’imbattersi in un numero telefonico di un Enzo Tortora nell’agendina di un
camorrista e poi s’accomodò con qualche pentito a montare bene la panna, senza
fare nemmeno uno straccio di verifica effettiva.
Oltre alla rivelazione anticipata della notizia, volta a provocare l’eventuale
fuga che equivaleva a un’ammissione di colpa, ci fu un episodio significativo
che Tortora confidò poi a pochissime persone, a proposito di una visita ricevuta
nel carcere di Bergamo, quando ormai l’inchiesta sembrava mostrare troppe
lacune. Alla fine dell’ora d’aria, un giorno il presentatore rientrando in cella
trovò ad aspettarlo un personaggio che si presentò come alto ufficiale dei
Carabinieri di ruolo nei servizi segreti, latore di una proposta: “Le parlo a
nome di chi può immaginare, questa storia deve finire, sono tutti d’accordo.
Ammetta qualcosa, anche una piccolissima cosa, che so? dica che in effetti
quella volta ad Antenna 3 non ha ricevuto la droga da smerciare, come l’accusa
un pentito, ma soltanto un po’ di cocaina per uso personale… E tutto finirà in
un attimo”.
Ecco, è assurdo immaginare come voterebbe oggi Tortora sulla riforma Nordio, ma
che il sistema politico abbia tendenzialmente ancora più peso rispetto
all’indipendenza della magistratura non gli piacerebbe affatto.
L'articolo Da giovane cronista avvertii Tortora del suo arresto. Non so come
voterebbe al referendum, ma una cosa la so proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Paolo Ghion
Non ho idea di come il prossimo referendum sulla giustizia verrà affrontato e
con quale argomentazioni si cercherà di convincere le persone a votare in un
senso o nell’altro.
Per il Sì è facile immaginare la solita manfrina d’antica memoria, solo che un
tempo nei confronti dei magistrati, ci si infilava qualche parola di ordinaria
amministrazione, almeno per dare una parvenza di normalità che naturalmente mal
celavano l’orrore per la magistratura che si ostina a far rispettare la legge.
Insomma, il politico che argomenta premettendo il rispetto per la magistratura e
conclude con la riforma della giustizia, equivale al mio gatto che mi salta in
braccio con affetto e poi rovina il momento cominciando a leccarsi le parti
intime. Oggi non c’è meno infarinatura e se uno infila un rasoio elettrico in
una polpetta, non ci si sorprenda se l’Anm risponde al governo: “Come accettato,
ma sto a dieta”.
Ciò che mi terrorizza di questa riforma non è solo la separazione delle
carriere, ma quel che viene dopo. Chi ha visto La Città Proibita, sa che
l’imperatore uccide lentamente l’imperatrice con un veleno che chiama “rimedio”.
Se la giustizia è malata, è anche colpa della politica che l’avvelena con leggi
sbagliate e confuse, ma poi si lamenta se i magistrati debbono interpretare o
fare i compiti, il che non è sopperirne l’idiozia, ma “fare politica”. Quindi si
propone una riforma che è uno strano elisir: lascia progredire le vecchie
patologie della giustizia e la cura per una nuova malattia che gli verrà con la
medicina.
Chi sostiene il No, ha diversi problemi da fronteggiare: prima di tutto
l’argomento che non è d’immediata comprensione, perché soprattutto chi non ha
problemi con la legge, può non aver mai saputo di nessuna delle figure citate e
coinvolte, lo stesso concetto premette qualcosa che vada elaborato, e nelle
battaglie tra spiegazione e slogan, la prima ha armi troppo complesse,
senz’altro di qualità, ma s’inceppano con la polvere; la potenza mediatica del
fronte opposto che suppongo possa essere simile a quella del referendum
costituzionale del 2016; la mancanza di figure schiette che attraggano le
persone e operino una sorta di populismo al contrario, cioè che siano fintamente
populiste al fine di richiamare al senso civico; la debolezza dell’opposizione
che troppo spesso ha giocato di fair play e tra le cui file ci sono personaggi
zavorra; la credibilità della magistratura, minata in proprio, ma spesso anche
per episodi legati alla politica che se ne tiene fuori nel criticarla.
Il mio modesto consiglio è seguire la logica. Non si possono convincere le
persone con lunghi pipponi sulle carriere, sulla infrastruttura che verrà
appesantita inutilmente (o utilmente a seconda dei punti di vista), sulle figure
del giudice e del pubblico ministero che tocca spiegare cosa fanno prima di dire
perché sarebbe un problema separarne le carriere. Dire che certi passaggi
accadono poco e che quindi è ininfluente, è un’arma a doppio taglio, perché allo
stesso tempo si potrebbe rispondere che se non cambia nulla, perché se ne ha
paura?
Se ci si riferisce alla sola separazione delle carriere, e i magistrati puntano
il dito su una cosa che poi dicono sia marginale, di fatto si danno la zappa sui
piedi, aiutando l’altra parte a deviare l’attenzione da tutto il resto.
Non sto dicendo che non sia necessario entrare nel merito, ma di prestare
attenzione al come doverlo fare: con ironia, con esempi pratici, con metafore
che richiamino rapidamente i concetti e facendosi conoscere come persone. Perché
il governo si presume voglia minare l’autonomia della magistratura? Di cosa
dobbiamo avere paura? Voce chiara al microfono acceso davanti alla platea: “Si
tratta di incidere maggiormente sulla distinzione tra chi esercita funzione
giudicante e chi la funzione requirente e…”, il tizio in fondo alla sala
messaggia al telefono, un altro si mangia le pellicine, qualcuno strizza gli
occhi… Io direi: “Se un politico vi fotte l’auto, potrà farla franca.”
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L'articolo “Se un politico vi fotte l’auto, potrà farla franca”, così spiegherei
il No al referendum sulla giustizia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il Sì in vantaggio sul No di poco più di sei punti percentuali, con il 41% di
indecisi e il 23% dell’elettorato che addirittura non sa ancora del referendum.
Sono i risultati di un sondaggio sul voto sulla riforma costituzionale della
giustizia, effettuato nell’ambito dell'”Osservatorio politico nazionale”
realizzato ogni settimana dall’istituto Ixé. A quattro mesi circa dalla
consultazione – che si dovrebbe tenere entro fine marzo – solo il 39% degli
intervistati afferma di averne sentito parlare e di “sapere di cosa si tratta“.
Un altro 37,2% dice di sapere del referendum ma di “non conoscere bene i
contenuti“, mentre il 23% si dichiara totalmente all’oscuro. Tra chi è a
conoscenza dell’appuntamento, solo il 56,6% sa che si tratta di un referendum
confermativo, per cui non è previsto il quorum.
Per quanto riguarda la partecipazione al voto, il 41,1% dichiara che si recherà
quasi sicuramente alle urne (tra il 91 e il 100% di probabilità), mentre un
altro 18% circa afferma che lo farà molto probabilmente (tra il 71 e il 90%).
Gli indecisi sono al 41%, mentre tra chi sa già cosa votare il 46,8% si dichiara
orientato per il No, il 53,2% per il Sì. La distanza, insomma, si riduce
rispetto alle rilevazioni pubblicate nei giorni scorsi da altri istituti: per
Swg, ad esempio, i favorevoli alla riforma sono il 46%, i contrari il 28 e gli
indecisi il 26, per Ipsos rispettivamente il 31, il 24 e il 45. Ancora prima, un
sondaggio di OnlyNumbers dava il No in svantaggio di dieci punti (38,9 contro
28,9%) contro il 17,2% di indecisi.
L'articolo Referendum, il No guadagna terreno: è a sei punti dal Sì (col 41% di
indecisi). E un elettore su quattro non sa ancora del voto proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La separazione delle carriere “non è necessaria per attuare il giusto processo
contemplato dall’articolo 111 della Costituzione, né fornisce alcun contributo
alla risoluzione dei problemi che affliggono la giustizia penale italiana”, a
partire dalla “durata irragionevole” dei processi. Al contrario, la riforma
voluta dal governo “rischia di portare a un mutamento genetico del pubblico
ministero, destinato a configurarsi sempre più come organo schiacciato su mere
istanze di repressione, e a un suo conseguente pericoloso rafforzamento”: una
“involuzione” che porterà a “un progressivo indebolimento delle garanzie per
indagati e imputati, soprattutto non abbienti”. A scriverlo sono 41 professori
ordinari, emeriti e associati di Procedura penale in diverse università
d’Italia, in un documento critico (consultabile qui) sul disegno di legge
costituzionale che sarà oggetto di referendum in primavera. Una posizione in
dissenso rispetto a quella del direttivo della loro associazione professionale –
composto quasi esclusivamente da accademici/avvocati – che nei giorni scorsi,
senza consultare i soci, ha licenziato a maggioranza un endorsement alla
riforma.
Secondo il direttivo – e secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio –
separare i percorsi professionali di giudici e pm serve a garantire “una più
coerente e concreta attuazione” del principio del giusto processo. Una tesi che
i 41 studiosi firmatari del documento respingono: “La rigorosa separazione delle
funzioni di accusa, difesa e giudizio è un connotato irrinunciabile di qualunque
sistema processuale che voglia dirsi autenticamente accusatorio, ma un’attenta e
non semplicistica comparazione con ordinamenti europei ed extraeuropei e una
lettura non affrettata della giurisprudenza sovranazionale dimostrano che non vi
è una correlazione necessaria tra modello processuale e assetto delle carriere e
che, nei paesi a forte tradizione accusatoria, le radici professionali di
pubblico ministero, avvocato e giudice sono comuni“, si legge.
Gli accademici contestano anche gli altri due pilastri della riforma: “Lo
sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e l’introduzione del
sorteggio secco per la componente togata”, scrivono, rischiano di indebolire i
presidi di autonomia e indipendenza, tanto dei pubblici ministeri, quanto (e
forse soprattutto) dei giudici”; per quanto riguarda invece l’Alta Corte
disciplinare, il nuovo organo che dovrebbe giudicare le violazioni deontologiche
dei magistrati al posto del Csm, la disciplina proposta “presenta notevoli
criticità sul piano della composizione e sul versante del procedimento”. I 41
professori contestano infine il fatto che “la definizione di molte questioni
fondamentali”, come “la modalità di individuazione dei sorteggiabili e la
composizione dei collegi della Corte disciplinare, sia affidata alla legge
ordinaria”: così, avvertono, si rischiano scelte “condizionate dalla maggioranza
politica del momento e non sufficientemente meditate”.
L'articolo Separazione carriere, 41 professori di Procedura penale contro la
riforma: “Toglierà garanzie agli imputati deboli” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone fu ucciso nella strage di Capaci. Due
settimane prima, l’8 maggio, aveva partecipato all’Istituto Gonzaga di Palermo
al dibattito “Mafia e nuovo codice”, in qualità di direttore degli Affari Penali
del Ministero di Grazia e Giustizia. È l’ultimo intervento pubblico di cui resta
registrazione integrale.
Nel corso dell’incontro Falcone affronta il nodo dell’ordinamento del pubblico
ministero. Il passaggio decisivo è una frase che sintetizza con chiarezza la sua
posizione sulla distinzione dei ruoli e sul tema, oggi al centro del dibattito
politico, della separazione delle carriere: “Un punto mi sembra fondamentale: il
pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione ordinamentale che sia
differente rispetto a quella del giudice, non necessariamente separata, e questo
non per assoggettarlo all’esecutivo, come si afferma, ma al contrario per
esaltarne l’indipendenza e l’autonomia”.
È la frase che Nicola Porro, nella puntata di Quarta Repubblica del 17 novembre,
ha mandato in onda. Ma, come ha raccontato da Antonio Massari sul Fatto,
fermandosi solo alla prima metà, in modo da usarla per attaccare Nicola
Gratteri: “Il pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione
ordinamentale che sia differente rispetto a quella del giudice”. Ascoltata in
questo modo, la frase suggerisce che Falcone fosse assolutamente a favore della
riforma sulla separazione delle carriere.
Ma come si può ascoltare nell’audio estrapolato da Radio Radicale, la frase di
Falcone continua: “Il pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione
ordinamentale che sia differente rispetto a quella del giudice, non
necessariamente separata, e questo non per assoggettarlo all’esecutivo, come si
afferma, ma al contrario per esaltarne l’indipendenza e l’autonomia”. La parte
mancante , “non necessariamente separata”, è proprio quella che definisce la
posizione di Falcone sulla struttura dell’ordine giudiziario. Il testo completo
dell’intervento del magistrato (si può ascoltare sul sito di Radio Radicale) non
lascia margini interpretativi: Falcone distingue le funzioni ma non sostiene la
creazione di carriere separate, né un modello che possa collocare il pubblico
ministero in un sistema gerarchico esterno all’ordine giudiziario.
L'articolo “La regolamentazione di pm e giudici non necessariamente separata”:
la frase integrale di Falcone che Porro ha tagliato in tv proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Leonardo Botta
Cos’hanno in comune Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Rosario
Livatino e Antonino Saetta? Com’è tristemente noto, furono magistrati
barbaramente trucidati da Cosa Nostra. Ma non è l’unica caratteristica che
accomuna questi eroi della lotta alla criminalità organizzata: tutti loro sono
stati, nella loro carriera professionale, sia giudici che pubblici ministeri,
sapendo ricercare giustizia e verità da qualunque posizione essi assumessero,
fosse essa inquirente o giudicante. Una condizione che, se passasse questa
riforma della magistratura voluta dal governo Meloni e dalla maggioranza
parlamentare (e avallata anche da qualche partito di opposizione), verrebbe
definitivamente superata (già al momento, nella gran parte dei casi, lo è già).
E sapete qual è, in Italia, la percentuale di condanne per reati dei “colletti
bianchi” (corruzione, frode, peculato, truffa, appropriazione indebita, traffico
d’influenze ecc.) rispetto al totale? Meno dell’1%, mentre la media in Europa
supera il 6% (in Germania siamo addirittura al 13). Eppure l’Italia è una
nazione in cui la corruzione permea fortemente la società (lo dimostrano indici
come il Golden-Picci, che misura il costo delle opere pubbliche rispetto ad
altri paesi).
Riporto queste due circostanze perché rifletto su alcune questioni in vista del
referendum a cui saremo chiamati a esprimerci in primavera su questa riforma. La
magistratura ha commesso molti errori, molti ne commette e continuerà a
commetterne (immaginare che tra novemila magistrati in servizio non esistano
persone che facciano male il proprio lavoro o, peggio ancora, corrotti e mele
marce, è pia illusione). Ma pensare che la soluzione del problema del
funzionamento della giustizia nel nostro paese sia questa riforma (che scomoda
addirittura la Costituzione), mentre si introducono reati come quello di rave
party abusivo o di manifestazione non autorizzata e nello stesso tempo si
depenalizza l’abuso d’ufficio e si limitano le intercettazioni telefoniche, a me
pare cervellotico.
La magistratura ha molte colpe, dicevo. Per esempio, un patologico uso delle
correnti che ha minato il funzionamento del Consiglio Superiore della
Magistratura, come hanno evidenziato casi quali la vicenda Palamara. Ma la
separazione delle carriere in Costituzione, c’è poco da fare, è l’anticamera
dell’assoggettamento delle procure al potere politico (e al diavolo l’art. 104),
come avviene in tutti gli Stati in cui vige quel sistema. E nel paese che ha
visto condannare esponenti di primissimo piano della politica nazionale
(Berlusconi, Previti, Cuffaro, Dell’Utri, D’Alì, Cosentino, Matacena, Formigoni,
Galan, Cota, Scopelliti, Del Turco; l’elenco è lungo) e grandi imprenditori e
finanzieri collusi con la stessa politica, su quali tipologie di reato credete
che il governo di turno sarebbe tentato di chiedere alla magistratura di
concentrarsi?
E non venite a dirmi che deve finire questa storia dei giudici che sono “tazza e
cucchiaio” con i pubblici ministeri: basta dare uno sguardo alle statistiche,
secondo le quali quasi la metà dei processi finisce in assoluzioni (addirittura
in qualche caso gli organi giudicanti condannano laddove i Pm avevano chiesto
l’assoluzione degli imputati), segno evidente che spesso e volentieri le tesi
delle procure vengono (meno male!) sconfessate dalle sentenze.
Un’ultima considerazione: io non so in quanti paesi civili e democratici una
riforma costituzionale in materia di giustizia sarebbe celebrata nel nome di
Silvio Berlusconi, un frodatore fiscale iscritto alla logga massonica P2 di
Licio Gelli (sono fatti, non mie opinioni). Temo solo in Italia quella che Elio
e le storie tese chiamavano, a ragion veduta, la “terra dei cachi”. La terra che
fu di giuristi padri costituenti come Dossetti, Saragat, Terracini, De Nicola,
Bosco Lucarelli, Conti, Tupini, Targetti, Pecorari, Grandi. Che ora temo si
stiano rivoltando nella tomba.
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L'articolo Pensare che questa riforma della giustizia sia la soluzione al
problema del suo funzionamento è cervellotico proviene da Il Fatto Quotidiano.
Credo che Giorgia Meloni, quando legge o ascolta le dichiarazioni del ministro
della giustizia Carlo Nordio, conti fino a dieci prima di parlare o urlare.
Premetto che non si può parlare di meraviglia rispetto a quello che dice Nordio,
perché chi lo ha conosciuto come pubblico ministero lo ricorda più per gli
editoriali, allineati e serventi, che scriveva per conto del giornale di
proprietà di Silvio Berlusconi che per le sue, deludenti, capacità investigative
e professionali.
Personaggio però ideale per scalare una carriera di vertice nel centro-destra:
magistrato senza infamia e senza lode, non intruppato nel sistema delle correnti
togate, in linea con il pensiero politico del quale è stato sempre portavoce
anche quando era magistrato. La negazione dell’imparzialità fatta toga, si
potrebbe dire. L’uomo per carità ha anche un garbo, per certi versi uno stile
non becero, poi bisogna sempre dosare l’orario in cui esterna.
Le ultime due dichiarazioni sono però significative perché possono profondamente
danneggiare il buon esito della campagna referendaria per i sostenitori del sì e
della maggioranza politica che governa. Qualche giorno fa il ministro Nordio ha
dichiarato che non comprende come mai i vertici del Partito democratico, il
principale gruppo di opposizione parlamentare, non comprendano la bontà della
riforma della separazione delle carriere dal momento che quando si troveranno
loro a governare potranno beneficiare della riforma e non avere quindi il fiato
sul collo dei pubblici ministeri.
Si tratta di una manifesta confessione di Nordio e degli intenti del governo e
della sua maggioranza di voler porre il pubblico ministero sotto il controllo
del potere esecutivo.
La seconda dichiarazione, sorprendente solo per chi non conosce Nordio, è di
qualche ora fa, quando ha detto che anche Licio Gelli diceva cose giuste e che
quindi sulla separazione delle carriere, tanto cara al maestro venerabile, va
seguito. Ricordiamo che Gelli è stato il capo della loggia occulta P2 il cui
programma, nel quale era prevista la separazione delle carriere tra pm e
giudici, è stato considerato dalla commissione parlamentare sulla P2 e dalla
magistratura un piano eversivo dell’ordine costituzionale.
Ricordiamo anche che nelle motivazioni della Corte di Cassazione sulla strage di
Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980, con 85 morti e oltre 200 feriti, la più
grave dal dopoguerra in Italia, si legge che la bomba fu messa dai neofascisti,
con un ruolo infedele di esponenti dei servizi segreti e il sostegno finanziario
di Licio Gelli.
Insomma, che il ministro della Giustizia di oggi dica che Gelli sosteneva cose
giuste riferendosi ad un piano eversivo della Costituzione e dello Stato
dovrebbe quanto meno dimettersi e forse farebbe un piacere anche a Meloni e ai
sostenitori del sì in buona fede, che con Nordio alla guida del dicastero della
Giustizia avrebbero buone possibilità in più per perdere il referendum.
Da ultimo, ma non per ultimo, un consiglio non richiesto per chi come me, sin
dall’università e poi da magistrato, ha avuto sempre Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino come fari e maestri. Sarebbe cosa buona e giusta smetterla di tirarli
per la giacchetta da morti, da una parte e dall’altra, sia da parte dei
sostenitori del sì alla riforma che da quelli del no, su come la pensavano
Falcone e Borsellino sulla separazione delle carriere e sul Csm.
Davvero sgradevole e non corretto prendere pezzi delle loro frasi e del loro
pensiero, magari anche ricostruiti in modo sbagliato, e decontestualizzarli. In
vita, ricordiamolo, sono stati avversati da tantissimi politici e magistrati, da
morti proviamo tutti a preservare fedelmente la loro integrità morale e
professionale.
L'articolo Perché le parole di Nordio sulla separazione delle carriere rischiano
di fargli perdere il referendum proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un grazie sincero al ministro Nordio che, mai come questa volta, ha parlato in
modo sobrio, puntuale, senza ambiguità alcuna. Cosa c’è di male – ci ha fatto
sapere – a riprendere e attuare le cose buone del progetto di Licio Gelli,
promotore di quella loggia che aveva tra i suoi iscritti anche Silvio
Berlusconi. Naturalmente poco importa che la medesima loggia sia stata definita
associazione eversiva dalla commissione presieduta da Tina Anselmi.
Della loggia troviamo tracce in numerosi processi per strage, depistaggio,
corruzione.
Il piano di rinascita nazionale non conteneva solo la controriforma della
giustizia, ma anche la separazione delle carriere, il controllo politico di
giudici e informazione, la divisione dei poteri, il controllo dei sindacati, il
diritto di sciopero, il riarmo, qualsiasi forma di pensiero critico,
l’annullamento del Parlamento e il presidenzialismo.
Le parole di Nordio fanno comprendere che il referendum sui giudici, l’assalto a
Mattarella, vedi Bignami, e l’assalto alla Costituzione saranno i prossimi
passi.
Altro che polemizzare con Nordio, bisogna ringraziarlo per non aver lasciato
margini al dubbio.
Il vero problema sono quanti, anche nel centro sinistra, fingono di non vedere,
vogliono smorzare i toni, tentano di interpretare le parole del ministro, non
sanno cosa voteranno al refererendum.
Se fossimo nei comitati per il No useremmo le sue parole a sostegno della
campagna referendaria. Più chiaro di così.
L'articolo Dunque anche Gelli ha fatto cose buone: grazie a Nordio per la
sincerità proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Da parte di Giorgia Meloni c’è un’allergia nei confronti dei poteri di
controllo solo quando le danno torto“. Sono le parole pronunciate a Otto e mezzo
(La7) dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che mette in fila gli
episodi che mostrano un filo rosso: l’irritazione del governo verso chi esercita
una funzione di vigilanza.
Travaglio osserva che la Corte dei Conti, un tempo invocata dal centrodestra
“addirittura con delle denunce” contro gli avversari politici, diventa
improvvisamente un nemico quando solleva rilievi su “contratti strani, affari
strani sul Ponte sullo Stretto o sprechi strani“.
Al centro dell’intervento c’è poi il caso Gratteri. Travaglio respinge l’idea
che gli attacchi del centrodestra al procuratore capo di Napoli nascano da una
citazione di Giovanni Falcone utilizzata in modo impreciso: “È una citazione che
avevamo sbagliato anche noi, fidandoci di alcune pubblicazioni che la davano per
vera. In ogni caso, quello che pensava Falcone della separazione delle carriere
e delle funzioni è stranoto, perché l’ha ripetuto 800 mila volte prima che
arrivasse Berlusconi e quindi prima che la separazione delle carriere venisse
associata alla sottoposizione del pm all’esecutivo”.
Il punto, afferma il direttore del Fatto, è un altro: “Quelli del centrodestra
sanno che quando Gratteri parla di giustizia e di mafia, la gente lo sta a
ascoltare perché è un magistrato autentico, non è un personaggio costruito, è
uno che si è fatto da solo è uno che non ha mai fatto parte di correnti. Ha
visitato la sede dell’Anm l’altro giorno, giusto per fare la battaglia insieme
sul referendum ma non ne ha condiviso tante posizioni corporative”.
E ribadisce: “Il centrodestra sa che di Gratteri la gente si fida, mentre il
centrodestra fatica a trovare una figura altrettanto popolare e credibile
davanti all’opinione pubblica per sostenere una tesi che i due terzi del
centrodestra hanno sempre combattuto”.
Poi rifila una frecciata a Italo Bocchino, ospite in studio: “Bocchino ne è
testimone perché viene dalla storia del Msi, di Alleanza Nazionale e di Fratelli
d’Italia che hanno sempre contrastato già in Bicamerale con D’Alema la
separazione delle carriere: furono Gianfranco Fini e Oscar Luigi Scalfaro a
bloccarla. Dobbiamo a loro il fatto che la Bicamerale non produsse la
separazione delle carriere. Quindi, non solo hanno la coda di paglia, tranne i
forzisti che hanno sempre chiesto la separazione delle carriere, ma in più
faticano a trovare qualcuno che abbia la stessa credibilità e lo stesso standing
che ha Gratteri. E quindi gli stanno dando addosso“.
Travaglio conclude: “Io non credo che questa strategia del centrodestra
funzionerà perché Gratteri ha dalla sua una carriera talmente specchiata che di
questi attacchi se ne fa un baffo. Insomma, continuerà a parlare, lo conosciamo:
è un caterpillar e non si fermerà”.
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Gratteri perché la gente si fida di lui e teme la sua forza” proviene da Il
Fatto Quotidiano.