Sarà l’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon il presidente del comitato unico
della maggioranza per il Sì al referendum sulla riforma Nordio. Dopo ampio
dibattito tra i partiti, la scelta è ricaduta sull’ex vicepresidente della
Consulta, giurista da sempre vicino al centrodestra: 64 anni, ordinario di
Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano, è stato membro del
Consiglio superiore della magistratura in quota PdL e consulente privato di
Silvio Berlusconi (retribuito con 25mila euro) per sostenere
l’incostituzionalità della legge Severino. Fu anche uno dei pochi
costituzionalisti a schierarsi in favore del lodo Alfano, lo scudo berlusconiano
contro i processi alle quattro più alte cariche dello Stato, poi dichiarato
incostituzionale. Mercoledì scorso Zanon è stato ospite ad Atreju, la festa di
Fratelli d’Italia, denunciando che durante la sua esperienza al Csm le correnti
della magistratura erano talmente potenti da aver lottizzato persino gli autisti
e gli addetti alle pulizie. A dicembre 2023, subito dopo la fine del suo
mandato, criticò la sentenza della Corte costituzionale – firmata anche da lui –
che aveva “salvato” l’uso delle intercettazioni dell’ex deputato renziano Cosimo
Ferri nell’ambito del processo disciplinare al Csm sul caso Palamara. Nel farlo
rivelò le discussioni interne alla camera di consiglio, venendo ripreso
pubblicamente per questo dalla stessa Consulta.
Il comitato del centrodestra nascerà ufficialmente giovedì, quando i promotori,
guidati dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, si
vedranno di fronte al notaio per costituirlo. Dei soci fondatori dovrebbero far
parte anche due consigliere del Csm: Isabella Bertolini, in quota Fratelli
d’Italia, e Claudia Eccher, scelta dalla Lega. Il loro ruolo istituzionale,
però, solleva dubbi di opportunità anche all’interno della maggioranza (la
partecipazione di Bertolini a una riunione nella sede di FdI, rivelata dal
Fatto, ha già sollevato parecchie polemiche). Tra i frontman ci saranno anche
l’ex direttore del Giornale Alessandro Sallusti e un giudice della Corte di
Cassazione, Giacomo Rocchi, il cui nome finora era rimasto top secret.
Presidente della Prima sezione penale della Suprema Corte, Rocchi è membro della
fondazione Rosario Livatino, il think tank di giuristi cattolici fondato da
Mantovano: negli anni si è schierato contro vari disegni di legge per
l’ampliamento dei diritti civili, a partire dal quello sul fine vita che, ha
detto, “introdurrebbe il diritto alla morte”. Sul sito della fondazione Livatino
è ancora presente un suo articolo del 2016 intitolato “Lobby gay alla conquista
delle Procure”, che criticava un presunto orientamento dei magistrati favorevole
alla cosiddetta “teoria gender”.
L'articolo Referendum, l’ex giudice costituzionale Zanon guiderà il comitato
della destra. C’è anche la toga ultracattolica Rocchi proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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Un altro sondaggio incoraggia il fronte dei contrari alla riforma Nordio. Una
rilevazione di YouTrend per SkyTg24, pubblicata martedì 10 dicembre, conferma
che in vista del referendum di primavera la distanza tra il Sì e il No si è
ridotta a circa sei punti: attualmente il 53% di chi ha già deciso il proprio
orientamento voterebbe per confermare la modifica costituzionale voluta dal
ministro della Giustizia, il 47% per bocciarla. Il sondaggio non fornisce il
dato degli indecisi, ma stima un’affluenza alle urne pari al 56% (i referendum
costituzionali, ricordiamo, non prevedono il quorum del 50% +1).
Il commento sottolinea che il vantaggio del Sì è in calo rispetto al 56% contro
44% stimato a inizio novembre, ma “i dati restano ancora molto fluidi“. Gli
elettori di centrodestra sono compatti per il Sì, che registra il 96% delle
intenzioni di voto, mentre nel centrosinistra la prevalenza del No è di 87%
contro un 13% di Sì: particolarmente spaccato l’elettorato centrista, al 43% per
il Sì e al 57% per il No, con un 41% ancora indeciso sull’andare a votare o
meno. In Parlamento Azione di Carlo Calenda ha votato favorevolmente alla
riforma, mentre Italia viva di Matteo Renzi si è schierata contro.
Già a fine novembre un sondaggio di Ixé aveva restituito una forbice simile tra
il Sì e il No, con i favorevoli alla riforma stimati al 53,2% e i contrari al
46,8% (con un 41% di indecisi). Martedì 9 dicembre sul tema è stata pubblicata
un’altra rilevazione dell’istituto Emg, che dà il Sì al 47,3% e il No al 29, con
un 23,7% di indecisi e l’affluenza stimata al 47%. Del 4 dicembre invece il
sondaggio di Eumetra per Piazzapulita su La7, che stima il 27,4% di Sì, il 21,8%
di No e il 10% di astenuti, col 40,2% degli elettori ancora indecisi. In ogni
caso, la distanza si è ridotta rispetto alle rilevazioni pubblicate nei giorni
precedenti da altri istituti: per Swg, ad esempio, i favorevoli alla riforma
sono il 46%, i contrari il 28 e gli indecisi il 26, per Ipsos rispettivamente il
31, il 24 e il 45.
L'articolo Referendum, i sondaggi confermano: il vantaggio del Sì ridotto a
circa sei punti. E gli indecisi sono ancora il 40% proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Alfredo Morvillo a Palermo, Alessandra Galli a Genova, Giuseppe Santalucia a
Roma. Il Comitato per il No fondato dall’Associazione nazionale magistrati
sceglie i suoi frontman in tutta Italia in vista della campagna per il
referendum sulla riforma Nordio, che separa le carriere di giudici e pm e
introduce il sorteggio per la selezione dei membri del Consiglio superiore della
magistratura. In Sicilia l’assemblea territoriale del comitato ha scelto come
presidente Alfredo Morvillo, magistrato in pensione – ha chiuso la carriera da
procuratore capo a Trapani – e fratello di Francesca, giudice e moglie di
Giovanni Falcone, morta insieme a lui nella strage di Capaci del 23 luglio 1992.
Anche in Liguria a guidare il Comitato sarà una toga in pensione e parente di un
magistrato ucciso: Alessandra Galli, figlia di Guido, vittima nel 1980 di un
agguato dei terroristi rossi di Prima linea a Milano. Alessandra Galli è stata,
tra l’altro, presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano che
confermò i quattro anni inflitti a Silvio Berlusconi nel processo sulla
compravendita dei diritti tv Mediaset, unica condanna a carico dell’ex premier
diventata definitiva.
Nella Capitale, invece, il numero uno sarà Giuseppe Santalucia, presidente della
Prima sezione penale della Cassazione e per quattro anni (dal 2021 allo scorso
febbraio) alla guida dell’Anm, prima di essere sostituito da Cesare Parodi. Alle
sezioni territoriali hanno aderito anche molti accademici, a partire dal
presidente nazionale, il costituzionalista dell’Università di Torino Enrico
Grosso: a Firenze ci sono Giuseppe Campanelli, ordinario di Diritto
costituzionale all’Università di Pisa, e Chiara Favilli, ordinaria di Diritto
dell’Unione europea a Firenze; a Roma altri due costituzionalisti, Giovanna De
Minico della Federico II di Napoli e Massimo Siclari di Roma Tre. Diversi anche
gli avvocati che hanno scelto di aderire: da Anna Falcone, che nel 2016 fu una
dei maggiori testimonial del No al referendum sulla riforma Renzi, a Mitja
Gialuz, avvocato e professore ordinario di Procedura penale a Genova.
L'articolo Morvillo a Palermo, Galli a Genova, Santalucia a Roma: i volti
dell’Anm per il No al referendum sulla riforma Nordio proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Il caso Bertolini dimostra con chiarezza perché al referendum sulla legge
Nordio bisogna votare No“. Enrico Grosso, presidente onorario del Comitato per
il No alla separazione delle carriere fondato dall’Associazione nazionale
magistrati, commenta così la notizia del Fatto sulla partecipazione della
consigliera del Csm al vertice sulla campagna referendaria nella sede di
Fratelli d’Italia, insieme ad Arianna Meloni e ai responsabili giustizia dei
partiti di maggioranza. Per Grosso, professore di Diritto costituzionale
all’Università di Torino, “che una componente del Consiglio superiore della
magistratura partecipi a un incontro di un partito di maggioranza è un fatto
oggettivamente inopportuno. Ma oggi, grazie alla Costituzione, questo non altera
l’equilibrio tra i poteri dello Stato perché i membri togati del Csm sono eletti
dai magistrati e rappresentano un contrappeso autorevole e forte al potere
politico”, sottolinea. Con la riforma, invece, “succederebbe l’esatto
contrario”: “I laici scelti dalla maggioranza parlamentare diventerebbero ancora
più influenti, mentre i magistrati, scelti per sorteggio, sarebbero più deboli e
privi di una legittimazione interna. Il risultato sarebbe un Csm inevitabilmente
più esposto alla maggioranza di governo. Il caso Bertolini è un campanello
d’allarme: ciò che oggi è solo una sgrammaticatura istituzionale e una caduta di
stile diventerebbe la normalità. L’indipendenza della magistratura è un valore e
un presidio essenziale dello Stato costituzionale. Per questo è necessario
votare No”, conclude.
Sulla stessa linea il giudice della Corte d’Appello di Roma Giovanni Zaccaro,
segretario della corrente progressista di Area. “Ho letto stamane che una
componente del Csm, la laica Isabella Bertolini, ha participato ad una riunione
in una sede di partito. Forse pensa che la riforma Nordio sia già in vigore e
che la politica debba entrare direttamente nel Csm, mi pare un’altra buona
ragione per votare No al referendum”, ironizza. Mentre il Movimento 5 stelle si
esprime con una nota dei suoi eletti nelle Commissioni Giustizia di Camera e
Senato: “Questo episodio è l’antipasto di quello che attende l’Italia se passa
la riforma, è l’ennesima dimostrazione di quale sia l’intento del governo
Meloni: aumentare in modo esponenziale l’influenza ed il controllo della
politica sulla magistratura e in particolare all’interno dei suoi organi di
autogoverno. Se vincesse il Sì al referendum verrebbe costituzionalizzato il
controllo dei partiti politici sul potere giudiziario, carriere e provvedimenti
disciplinari dei magistrati verranno decisi nelle sedi dei partiti di
maggioranza. L’episodio denunciato oggi non ha bisogno di ulteriori commenti,
con il governo Meloni stanno crollando tutti i capisaldi della separazione dei
poteri, della correttezza istituzionale e anche del bon ton che si richiede a
chiunque ricopra cariche pubbliche”, accusano Stefania Ascari, Anna Bilotti,
Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e
Roberto Scarpinato.
Dal mondo della politica interviene il leader di Europa Verde Angelo Bonelli,
deputato di Alleanza Verdi e Sinistra: “Fratelli d’Italia utilizza gli organismi
indipendenti e di garanzia dello Stato per i suoi fini politici. Dopo l’Autorità
per la privacy oggi è il turno del Csm”, afferma in riferimento al caso di
Agostino Ghiglia, membro del Garante per la protezione dei dati personali in
quota FdI, presente in via della Scrofa subito prima di votare per la maxi-multa
a Report. “Se Csm e Autorità di garanzia mostrano prossimità politica con chi
governa, la loro funzione di equilibrio viene meno. La democrazia italiana si
fonda sull’autonomia dei poteri e sul rispetto rigoroso dei ruoli istituzionali.
Il vicepresidente del Csm dovrebbe richiamare la consigliera Bertolini e questa
vicenda ci fa capire come la riforma della separazione delle carriere sia uno
strumento per la destra per mettere sotto controllo politico la magistratura”.
Per Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, la presenza di Bertolini alla
riunione della sede di FdI “è uno scandalo“: “Il Csm è un delicatissimo organo
di autogoverno della magistratura, non una emanazione del partito pigliatutto
della destra”. Anche per il presidente del gruppo Misto del Senato, Peppe De
Cristofaro, la vicenda raccontata dal Fatto è “gravissima”: “Quella era una
riunione politica, non istituzionale o un convegno. Se sei componente
dell’organo che dovrebbe tutelare l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura non puoi partecipare a una riunione politica sulle strategie per il
prossimo referendum sulla giustizia. Ma per i rappresentanti della destra non è
così, loro svolgono un ruolo politico alla faccia dell’autonomia e
dell’indipendenza. Una sottomissione politica inaccettabile. Questa destra è
senza ritegno“.
L'articolo Bertolini (Csm) al vertice FdI, condanna di toghe e opposizioni:
“Separazione dei poteri a rischio, ecco perché votare No” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Chi ha conosciuto da vicino Enzo Tortora sa bene quanto avrebbe potuto irritarlo
l’ingresso forzato nel provvisorio nuovo pantheon della destra al potere, con
tanto di una sala intitolata accanto a quella del Beato Rosario Angelo Livatino
(difficile immaginare figure tanto distanti!), e peggio ancora la trasformazione
posticcia in icona da sventolare contro i magistrati nella battaglia
referendaria che si è aperta. Anche l’imminente fiction su Tortora di Netflix,
nonostante la consueta inappuntabile interpretazione di Fabrizio Gifuni, pare
che non centri precisamente la questione della vicenda giudiziaria del
presentatore di Portobello, oltre ad essere viziata dal pregiudizio snob nei
confronti della tv popolare che i registi italiani di cinema, come Marco
Bellocchio, non hanno mai smesso di esercitare.
Prima che qualcuno possa pensare che sono sentenze sparate a casaccio, meglio
premettere che, al tempo – come noto e riportato in varie testimonianze, in
primis le lettere dal carcere che Tortora stesso pubblicò in volume – ero un
giovane cronista televisivo de Il Giorno e mi capitò di avvertire molte ore
prima il presentatore del possibile arresto nell’ambito di un’inchiesta
napoletana sulla camorra. Ero stato imboccato, molto vagamente, dal direttore
Guglielmo Zucconi (già parlamentare della Dc e direttore del settimanale di
partito), che aveva avuto la notizia – come ho poi ricostruito – dal ministro
dell’Interno di allora e subito dopo della Giustizia, Virginio Rognoni, ma ebbe
cura di nasconderlo subito dicendomi: “Ho saputo per certo che una clamorosa
indagine sulla camorra coinvolge un personaggio di primo piano del mondo dello
spettacolo. Non sono riuscito a farmi dire altro se non che si tratta
probabilmente di un famoso protagonista anche della tv e che si può cercare il
cognome tra le ultime lettere dell’alfabeto. Vedi tu se riesci a pescare al volo
l’interessato prima che finisca nella bufera…”
Zucconi senior, già autore di Scaramacai e tipo davvero molto spiritoso, si mise
subito a sdrammatizzare sorridendo e invitandomi a cercare nomi con lui: “Beh,
alla Z ci sarebbe giusto Mago Zurlì, ah ah; alla V Raimondo Vianello,
impensabile; alla U non saprei ma la T è piena, da Tognazzi, che farebbe davvero
ridere, a…”. E lasciò a me la chiusa: “D’accordo, provo a cercare subito
Tortora!”. E’ andata com’è andata, il presentatore era a Roma per riunioni di
lavoro e ha preso la mia telefonata del primo pomeriggio alla stregua di
un’assurdità: “Come se mi avessero detto che eri accusato di aver violentato la
Madonnina sul Duomo”, mi scrisse poi da Regina Coeli. Alla sera, nonostante gli
fosse arrivata una telefonata analoga dall’Ansa, Tortora se n’era andato a
dormire serenamente in albergo. Amen, il resto è noto.
Per mesi, poi, sono stato molto vicino al presentatore, alla sua meravigliosa
figlia primogenita Silvia e all’unica persona che sa tutto e non ha mai voluto
parlare, Gigliola Barbieri, assistente e prima collaboratrice di Tortora dai
tempi d’oro della grande Domenica Sportiva. Ora, posto che si debba affibbiare
anche a Tortora una qualche etichetta, era il classico vecchio signore
conservatore, laico e dichiaratamente liberale, nel senso proprio della
tradizione rappresentata dal piccolo partito post-risorgimentale che aveva
partecipato alla Resistenza ed era ai vertici del CLN (anche Marco Pannella
veniva dai liberali vicini a Mario Pannunzio). Ma, in tutto e per tutto, Tortora
era proprio un cane sciolto, abituato a guardare con una certa diffidenza, se
non proprio disprezzo, il mondo del potere, anche quello economico.
Con i democristiani si era scontrato in Rai molti anni prima, eppure aveva
appena rifiutato di lasciare la tv di Stato per accettare un’offerta ricchissima
di Silvio Berlusconi, confidando agli esterrefatti collaboratori più intimi, la
sorella Anna e il cognato Giampaolo, la sua perplessità: “Tra tv e pubblicità
guadagno già fin troppo bene e tutto quel denaro mi metterebbe a disagio… E
chissà, poi, se un giorno si scoprisse che viene da chissà dove…”. Onestamente
va ricordato che Berlusconi fu il primo a dire subito che Tortora era
assolutamente una persona specchiata e inattaccabile, come aveva avuto modo di
appurare durante la trattativa, altro che un trafficante di droga per la
camorra.
La vicenda giudiziaria e mediatica, per cui il ministro Rognoni si era esposto
in prima persona (“ci sono prove schiaccianti, mi confermano dalla Procura di
Napoli” ripeteva nei giorni seguenti al telefono con il direttore de Il Giorno),
nasce semplicemente da un vero e proprio input politico della Dc. Bisognava
cancellare con una grande inchiesta qualunque dubbio sull’ipotetica connivenza
con la camorra tra il partito di maggioranza relativa, dove allora gli esponenti
campani vantavano il segretario, Ciriaco De Mita, e anche il peso di un’area
della corrente più potente, i cosiddetti dorotei.
Per una specifica vicenda napoletana, il rapimento da parte delle Brigate Rosse
dell’assessore Dc Ciro Cirillo e la liberazione dopo il pagamento di un
riscatto, l’Unità sollevò pesanti illazioni circa il ruolo chiave dei boss della
malavita nella soluzione del caso. E così la cupola democristiana chiese e
ottenne un’operazione ‘maxi-blitz anticamorra’, che non guardasse platealmente
in faccia a nessuno, incastrando anche nomi pesanti. A qualche servitore tanto
zelante quanto maldestro, invece di puntare ai veri boss, non parve vero
d’imbattersi in un numero telefonico di un Enzo Tortora nell’agendina di un
camorrista e poi s’accomodò con qualche pentito a montare bene la panna, senza
fare nemmeno uno straccio di verifica effettiva.
Oltre alla rivelazione anticipata della notizia, volta a provocare l’eventuale
fuga che equivaleva a un’ammissione di colpa, ci fu un episodio significativo
che Tortora confidò poi a pochissime persone, a proposito di una visita ricevuta
nel carcere di Bergamo, quando ormai l’inchiesta sembrava mostrare troppe
lacune. Alla fine dell’ora d’aria, un giorno il presentatore rientrando in cella
trovò ad aspettarlo un personaggio che si presentò come alto ufficiale dei
Carabinieri di ruolo nei servizi segreti, latore di una proposta: “Le parlo a
nome di chi può immaginare, questa storia deve finire, sono tutti d’accordo.
Ammetta qualcosa, anche una piccolissima cosa, che so? dica che in effetti
quella volta ad Antenna 3 non ha ricevuto la droga da smerciare, come l’accusa
un pentito, ma soltanto un po’ di cocaina per uso personale… E tutto finirà in
un attimo”.
Ecco, è assurdo immaginare come voterebbe oggi Tortora sulla riforma Nordio, ma
che il sistema politico abbia tendenzialmente ancora più peso rispetto
all’indipendenza della magistratura non gli piacerebbe affatto.
L'articolo Da giovane cronista avvertii Tortora del suo arresto. Non so come
voterebbe al referendum, ma una cosa la so proviene da Il Fatto Quotidiano.
Falliscono i referendum del 30 novembre in Svizzera per l’estensione del
servizio militare obbligatorio alle donne e l’introduzione di una tassa sulle
grandi eredità. Le consultazioni rientravano nel contesto del sistema di
democrazia diretta svizzera, che chiama diverse volte l’anno gli elettori a
esprimersi su vari temi politici e sociali. I referendum facoltativi in
Svizzera, dalla loro introduzione nel 1874, sono stati circa duecento: più del
40% delle votazioni è fallita.
La proposta di legge riguardante una tassa sulle grandi eredità era stata
proposta dai Giovani Socialisti (Juso), accompagnata dallo slogan “Gli
ultra-ricchi ereditano miliardi, noi ereditiamo crisi”. L’idea è declinata in
una chiave soprattuto ecologica, in quanto i soldi ricavati dovrebbero essere
utilizzati per piani di investimento a protezione del clima. Per i promotori la
colpa di gran parte delle emissioni dannose ricadrebbe sui super-ricchi, e la
presidente di Juso Mirjam Hostetmann ha sintetizzato questo concetto dicendo con
lo slogan “chi inquina paga”. L’iniziativa era intitolata “Per una politica
climatica sociale – equamente finanziata attraverso la tassazione (Iniziativa
per il futuro)”. Nonostante interessasse solo i trasferimenti di ricchezza
superiori ai cinquanta milioni di franchi e avrebbe quindi coinvolto 2.500
persone su 9 milioni di svizzeri, la proposta era stata accompagnata da
prevedibili polemiche e accesi dibattiti: anche il governo federale ha invitato
alla “prudenza“, agitando come spauracchio una possibile minore attrattiva del
Paese per i grandi patrimoni internazionali. Dato che la Svizzera ha fatto del
regime fiscale favorevole la sua bandiera, era difficile pensare a un risultato
positivo: nel Paese oggi il rapporto tra tassazione ed eredità e di 1,6 franchi
versati ogni 100 ereditati, pochissimo se si pensa che i volumi di successioni
nel 2025 dovrebbero arrivare a 100 miliardi.
L’altra proposta referendaria, bocciata con meno del 20% dei consensi, toccava
l’organizzazione della leva militare. in Svizzera i giovani di sesso maschile
sono obbligati alla coscrizione o al programma di protezione civile: in caso di
rifiuto, è possibile svolgere un servizio civile alternativo pagando una tassa.
Escluse dall’obbligo però sono le donne, per cui il servizio militare e civile è
volontario: il referendum voleva estenderlo anche a loro. Secondo Noémie Roten,
personaggio pubblico che ha prestato il servizio militare e promotrice
dell’iniziativa, la proposta avrebbe prodotto un’ulteriore crescita
dell’uguaglianza di genere. L’idea però ha riscosso poco successo a livello
politico, venendo rifiutata da tutti i partiti. A livello popolare, invece,
l’opinione pubblica si è divisa.
L'articolo Svizzera, falliscono i due referendum che chiedevano una tassa sulle
grandi eredità e la leva obbligatoria per le donne proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Voters in Switzerland rejected by large majorities two initiatives in a
referendum on Sunday, one proposing to tax the super-rich on their inheritance
and another to extend mandatory civic or military service to women.
Some 84 percent of voters said no to the civic duty proposal, while around 79
percent voted against the inheritance tax initiative, according to initial
projections after polling closed at noon on Sunday.
The tax measure was a proposal to impose a 50 percent levy on inheritance above
a tax-free amount of 50 million Swiss francs (€53.6 million) and direct the
funds toward measures to mitigate climate change. It was put forward by the
youth wing of the leftist Social Democrats.
The “For a committed Switzerland” initiative wanted to see compulsory military
or civilian service for men extended to women and expanded to additional forms
of service to benefit society such as protecting the environment, assisting
vulnerable people and helping with disaster prevention.
The civic duty proposal was launched by Geneva-based association
servicecitoyen.ch, backed by a petition with 107,613 signatures and the support
of the Liberal Greens, the Evangelical Party, the Pirate Party, the youth wing
of the Centre Party and other associations.
Both initiatives failed to garner wider political support from the Swiss
government or other parties, and a poll 10 days before the vote predicted
ballot-box defeats for both.
In nome della “sensibilità istituzionale“, capita pure che gli avvocati chiedano
ai “nemici” magistrati di aiutarli nella campagna per il Sì al referendum sulla
separazione delle carriere. È successo nei giorni scorsi con una lettera inviata
da Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali – il
“sindacato” degli avvocati penalisti – ai presidenti dei Tribunali e ai
coordinatori degli uffici Gip di tutta Italia: “Mi pregio di sottoporre alla
Vostra cortese attenzione una questione di particolare rilievo per la
trasparenza e la comprensione del funzionamento del nostro sistema giudiziario”.
Un tono ossequioso per ottenere un dato importantissimo per la strategia
comunicativa del Sì: la percentuale con cui i giudici accolgono le richieste di
misure cautelari – arresti, interdittive, ma anche sequestri – avanzate dai
pubblici ministeri. Se questa percentuale fosse particolarmente alta, sopra l’80
o il 90%, i sostenitori della riforma potrebbero usarla come argomento principe
per avvalorare la tesi della presunta sudditanza dei giudici nei confronti dei
pm. A questo scopo il deputato di Forza Italia Enrico Costa aveva chiesto il
dato con un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Carlo
Nordio, che però non aveva saputo ricostruirlo: “Allo stato, per quanto concerne
le misure cautelari, e fino alla piena operatività del Datalake, non è possibile
ottenere evidenza delle percentuali di accoglimento e rigetto delle richieste
del pubblico ministero”, era stata la risposta.
Ma sapere in quanti casi i gip dicano di sì ai pm, evidentemente, è un’autentica
ossessione per i penalisti. Così Petrelli non ha potuto fare altro che
rivolgersi direttamente ai magistrati, cioè alle controparti della campagna
referendaria: “Con la presente sono a richiederVi di voler cortesemente fornire
ovvero, qualora non ne aveste la diretta disponibilità, di voler indicare le
modalità per ottenerli – i dati statistici aggregati relativi agli anni 2022,
2023 e 2024, concernenti la percentuale di accoglimento” delle richieste di
misure cautelari “da parte dell’Ufficio gip da Voi coordinato. Certo di un
Vostro cortese riscontro e confidando nella Vostra sensibilità istituzionale,
porgo i miei più distinti saluti”, recita il testo, datato 24 novembre, inviato
ai 165 presidenti. Non è dato sapere quanti di loro abbiano risposto alla
richiesta – a quanto risulta al Fatto, alcuni non l’hanno ancora ricevuta – né
se siano astrattamente in grado di farlo. Di certo il fronte del Sì mostra di
essere alla spasmodica ricerca di numeri utili alla propria campagna: nei giorni
scorsi i sostenitori della riforma hanno citato più volte il dato – fornito in
risposta all’interrogazione di Costa – secondo cui i gip accolgono le richieste
di intercettazioni dei pm nel 94% dei casi e quelle di proroga degli ascolti
addirittura nel 99% dei casi. Ma molti magistrati hanno contestato la genuinità
di quelle percentuali, sostenendo che sia impossibile ricostruirle sulla base
delle statistiche trasmesse dagli uffici al ministero: sul tema i deputati
Debora Serracchiani (Pd) e Angelo Bonelli (Alleanza Verdi e Sinistra) hanno
depositato interrogazioni parlamentari.
L'articolo Referendum, gli avvocati ora chiedono ai giudici di “aiutarli” nella
campagna per il Sì: Nordio non ha saputo fornire i dati proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Paolo Ghion
Non ho idea di come il prossimo referendum sulla giustizia verrà affrontato e
con quale argomentazioni si cercherà di convincere le persone a votare in un
senso o nell’altro.
Per il Sì è facile immaginare la solita manfrina d’antica memoria, solo che un
tempo nei confronti dei magistrati, ci si infilava qualche parola di ordinaria
amministrazione, almeno per dare una parvenza di normalità che naturalmente mal
celavano l’orrore per la magistratura che si ostina a far rispettare la legge.
Insomma, il politico che argomenta premettendo il rispetto per la magistratura e
conclude con la riforma della giustizia, equivale al mio gatto che mi salta in
braccio con affetto e poi rovina il momento cominciando a leccarsi le parti
intime. Oggi non c’è meno infarinatura e se uno infila un rasoio elettrico in
una polpetta, non ci si sorprenda se l’Anm risponde al governo: “Come accettato,
ma sto a dieta”.
Ciò che mi terrorizza di questa riforma non è solo la separazione delle
carriere, ma quel che viene dopo. Chi ha visto La Città Proibita, sa che
l’imperatore uccide lentamente l’imperatrice con un veleno che chiama “rimedio”.
Se la giustizia è malata, è anche colpa della politica che l’avvelena con leggi
sbagliate e confuse, ma poi si lamenta se i magistrati debbono interpretare o
fare i compiti, il che non è sopperirne l’idiozia, ma “fare politica”. Quindi si
propone una riforma che è uno strano elisir: lascia progredire le vecchie
patologie della giustizia e la cura per una nuova malattia che gli verrà con la
medicina.
Chi sostiene il No, ha diversi problemi da fronteggiare: prima di tutto
l’argomento che non è d’immediata comprensione, perché soprattutto chi non ha
problemi con la legge, può non aver mai saputo di nessuna delle figure citate e
coinvolte, lo stesso concetto premette qualcosa che vada elaborato, e nelle
battaglie tra spiegazione e slogan, la prima ha armi troppo complesse,
senz’altro di qualità, ma s’inceppano con la polvere; la potenza mediatica del
fronte opposto che suppongo possa essere simile a quella del referendum
costituzionale del 2016; la mancanza di figure schiette che attraggano le
persone e operino una sorta di populismo al contrario, cioè che siano fintamente
populiste al fine di richiamare al senso civico; la debolezza dell’opposizione
che troppo spesso ha giocato di fair play e tra le cui file ci sono personaggi
zavorra; la credibilità della magistratura, minata in proprio, ma spesso anche
per episodi legati alla politica che se ne tiene fuori nel criticarla.
Il mio modesto consiglio è seguire la logica. Non si possono convincere le
persone con lunghi pipponi sulle carriere, sulla infrastruttura che verrà
appesantita inutilmente (o utilmente a seconda dei punti di vista), sulle figure
del giudice e del pubblico ministero che tocca spiegare cosa fanno prima di dire
perché sarebbe un problema separarne le carriere. Dire che certi passaggi
accadono poco e che quindi è ininfluente, è un’arma a doppio taglio, perché allo
stesso tempo si potrebbe rispondere che se non cambia nulla, perché se ne ha
paura?
Se ci si riferisce alla sola separazione delle carriere, e i magistrati puntano
il dito su una cosa che poi dicono sia marginale, di fatto si danno la zappa sui
piedi, aiutando l’altra parte a deviare l’attenzione da tutto il resto.
Non sto dicendo che non sia necessario entrare nel merito, ma di prestare
attenzione al come doverlo fare: con ironia, con esempi pratici, con metafore
che richiamino rapidamente i concetti e facendosi conoscere come persone. Perché
il governo si presume voglia minare l’autonomia della magistratura? Di cosa
dobbiamo avere paura? Voce chiara al microfono acceso davanti alla platea: “Si
tratta di incidere maggiormente sulla distinzione tra chi esercita funzione
giudicante e chi la funzione requirente e…”, il tizio in fondo alla sala
messaggia al telefono, un altro si mangia le pellicine, qualcuno strizza gli
occhi… Io direi: “Se un politico vi fotte l’auto, potrà farla franca.”
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L'articolo “Se un politico vi fotte l’auto, potrà farla franca”, così spiegherei
il No al referendum sulla giustizia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il Sì in vantaggio sul No di poco più di sei punti percentuali, con il 41% di
indecisi e il 23% dell’elettorato che addirittura non sa ancora del referendum.
Sono i risultati di un sondaggio sul voto sulla riforma costituzionale della
giustizia, effettuato nell’ambito dell'”Osservatorio politico nazionale”
realizzato ogni settimana dall’istituto Ixé. A quattro mesi circa dalla
consultazione – che si dovrebbe tenere entro fine marzo – solo il 39% degli
intervistati afferma di averne sentito parlare e di “sapere di cosa si tratta“.
Un altro 37,2% dice di sapere del referendum ma di “non conoscere bene i
contenuti“, mentre il 23% si dichiara totalmente all’oscuro. Tra chi è a
conoscenza dell’appuntamento, solo il 56,6% sa che si tratta di un referendum
confermativo, per cui non è previsto il quorum.
Per quanto riguarda la partecipazione al voto, il 41,1% dichiara che si recherà
quasi sicuramente alle urne (tra il 91 e il 100% di probabilità), mentre un
altro 18% circa afferma che lo farà molto probabilmente (tra il 71 e il 90%).
Gli indecisi sono al 41%, mentre tra chi sa già cosa votare il 46,8% si dichiara
orientato per il No, il 53,2% per il Sì. La distanza, insomma, si riduce
rispetto alle rilevazioni pubblicate nei giorni scorsi da altri istituti: per
Swg, ad esempio, i favorevoli alla riforma sono il 46%, i contrari il 28 e gli
indecisi il 26, per Ipsos rispettivamente il 31, il 24 e il 45. Ancora prima, un
sondaggio di OnlyNumbers dava il No in svantaggio di dieci punti (38,9 contro
28,9%) contro il 17,2% di indecisi.
L'articolo Referendum, il No guadagna terreno: è a sei punti dal Sì (col 41% di
indecisi). E un elettore su quattro non sa ancora del voto proviene da Il Fatto
Quotidiano.