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Australia, fatta la legge trovato l’inganno: il divieto di uso dei social è stato aggirato dai minori in meno di 5 minuti
Il 10 dicembre 2025 ha segnato un momento storico per l’Australia: è entrata in vigore la legge che vieta ai minori di 16 anni l’accesso ai principali social media, TikTok, Instagram, YouTube, Snapchat, Facebook e X. La misura, approvata dal Parlamento australiano nel novembre 2024 dopo un braccio di ferro con Big Tech, impone alle piattaforme di verificare l’età degli utenti e bloccare gli account dei minori, con multe fino a 50 milioni di dollari australiani (circa 32 milioni di dollari USA) in caso di violazioni. Il governo australiano, guidato dal primo ministro Anthony Albanese, ha motivato la decisione con la necessità di proteggere i giovani da contenuti dannosi, algoritmi adattivi e impatti negativi sulla salute mentale, come la perdita di sonno e l’aumento di ansia e depressione. Albanese ha dichiarato che “i social media stanno causando danni ai nostri bambini” e che la legge mira a restituire ai giovani “tempo prezioso per la loro infanzia”. Maggiore flessibilità solo per YouTube, con un’esenzione parziale per i suoi contenuti educativi o l’uso supervisionato, di cui la norma riconosce il valore didattico. La scorsa settimana è scattato il periodo di transizione di 12 mesi concesso ai social media per conformarsi, ma l’impatto immediato in Australia in questi primi giorni di applicazione è misto. Molti adolescenti hanno aggirato il divieto rapidamente, utilizzando VPN, cioè sistemi che aggirano la localizzazione dell’utente, o account falsi. Una 13enne ha eluso i blocchi in meno di cinque minuti: è una caso aneddotico, che però mette in evidenza le difficoltà tecniche di implementazione del bando. I social sono stati inondati di post da utenti under-16 che vantavano di essere ancora online: un trend che mette in discussione l’efficacia della misura e, questo il rischio, può spingere i ragazzi a ribellarvisi in massa. Nelle ultime ore due adolescenti australiani hanno avviato una causa contro il governo Albanese. Sostengono l’incostituzionalità di un provvedimento che limiterebbe i loro diritti politici, impedendo il loro attivismo. Altri giovanissimi hanno recepito la legge come una misura paternalistica che interviene direttamente su socializzazione e libertà creativa. Ma diversi genitori hanno descritto effetti positivi: un sondaggio del Guardian ha rivelato che la legge ha già avuto un “profondo effetto” su alcune famiglie, con bambini che dormono meglio e interagiscono di più offline. Allo stesso tempo, come sottolineato dai critici della misura, il divieto potrebbe isolare ulteriormente bambini vulnerabili, come quelli vittime di violenza domestica, neurodivergenti o con disabilità, che usano i social come unica rete di supporto. In Australia un tema è anche l’isolamento fisico in comunità remote, con un forte impatto sulla socializzazione. L’approccio innovativo, molto avversato dalle piattaforme, è che la legge non punisce i minori o i loro genitori, ma solo le società di tech. Secondo la rivista di divulgazione scientifica Nature è anche un “esperimento naturale” per studiare gli effetti dell’esposizione ai social media sulla salute mentale dei giovanissimi. Il bando australiano ha ravvivato il dibattito globale su questo tema. Nel Regno Unito è stato recepito con enorme interesse, anche grazie all’attivismo organizzato di un movimento di genitori riuniti nella campagna per una Smartphone Free Childhood, che esercitano pressione sul governo per adottare misure simili, raccolgono migliaia di firme, argomentando che le piattaforme causano danni irreparabili ai giovani e intanto lavorano localmente per bandire i telefoni dalle scuole. Molti genitori britannici vedono l’Australia come un modello per contrastare l’epidemia di problemi mentali tra gli adolescenti, che riconducono ai contenuti tossici e alla dipendenza da scrolling riconducibile all’algoritmo. Malgrado pressioni crescenti la posizione del governo britannico, guidato da Keir Starmer, resta molto cauta. Non ci sono piani immediati per un bando totale sotto i 16 anni, come confermato da un portavoce di Downing Street. La ministra della Cultura Lisa Nandy ha espresso critiche al modello australiano, definendolo potenzialmente “non applicabile” nel Regno Unito. In un’intervista su Good Morning Britain il 10 dicembre 2025, Nandy ha dichiarato: “Non abbiamo piani per copiare il divieto australiano, ma terremo d’occhio il suo successo. Se funziona, lo considereremmo certamente”. Ha enfatizzato che il governo preferisce collaborare con le tech company per migliorare la sicurezza, piuttosto che imporre divieti che potrebbero essere elusi. Nandy ha aggiunto: “Vogliamo dare pace mentale ai genitori, ma attraverso misure proporzionate”. Il focus è sulla regolamentazione. L’Online Safety Act, entrato in vigore il 25 luglio 2025, obbliga le piattaforme a filtrare contenuti dannosi per i minori e a verificare l’età per materiale pornografico o violento. Ofcom, l’ente regolatore delle comunicazioni, ne supervisiona l’attuazione, ma diversi critici di questo approccio sottolineano la carenza di risorse per eventuali interventi sanzionatori. Questa cautela riflette anche la strategia del governo britannico di mantenere rapporti collaborativi con le grandi piattaforme tecnologiche statunitensi, privilegiando il dialogo e la cooperazione volontaria rispetto a misure punitive. Il Regno Unito si distingue in questo dall’approccio dell’Unione Europea, che ha adottato una linea più rigida attraverso regolamentazioni come il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), comminando multe miliardarie a giganti tech per violazioni della privacy, pratiche anticoncorrenziali e mancata conformità alle normative. In un quadro geopolitico di alleanza strettissima fra i Tech Bros e il governo Trump, l’Ue ha sanzionato ripetutamente aziende come Meta, Google e Apple, subendo ritorsioni commerciali, mentre Londra cerca di posizionarsi come un hub tech-friendly post-Brexit, bilanciando protezione e innovazione, e resta aperta agli investimenti delle società di Big Tech. L'articolo Australia, fatta la legge trovato l’inganno: il divieto di uso dei social è stato aggirato dai minori in meno di 5 minuti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Niente cinema e concerti, ma playlist e streaming: così i nuovi adolescenti vivono la cultura. Gli esperti: “Pesano i costi e la povertà educativa”
Vanno sempre meno ai concerti, solo il 33% mette piede nella platea di un teatro; qualcuno in più (40,3%) ha visitato un sito archeologico, mentre uno su due va ancora alle mostre. Vuote o quasi le sale dei cinema: nel 2024 li hanno frequentati solo il 21,2% dei ragazzi tra i 13 e 17 anni. Sono i dati sulla fruizione culturale degli adolescenti emersi dal 16esimo “Atlante dell’infanzia” pubblicato in questi giorni da Save The Children. Numeri che il Fatto ha letto con cura, con l’aiuto della sociologa Chiara Saraceno e Federico Taddia, conduttore di Non mi capisci su Radio 24, trasmissione dedicata alle nuove generazioni. Due le chiavi di lettura offerte dagli esperti: da una parte i costi della cultura, che escludono i giovani e soprattutto quelli che vivono in periferia; dall’altra una questione generazionale. Questa, infatti, è una generazione di adolescenti “fantasma”: ascoltano la musica, leggono i libri e sanno cosa succede nel mondo, ma non per forza si fanno vedere ai concerti, in biblioteca o davanti alla televisione. Lo spiega bene Taddia: “I nuovi dispositivi elettronici hanno cambiato – e stanno cambiando – il tipo di fruizione di un’esperienza artistica: è una fruizione più individuale, solitaria, staccata dal contesto e spesso dal momento. Live e non live sono sempre più confusi”; quella dei giovani “è una fruizione on demand non legata al “qui ed ora”. Anche il concetto di condivisione è totalmente diverso: non è più un “stiamo vivendo lo stesso momento” ma “io ti faccio vedere il momento che ho vissuto””. I CONCERTI? “TROPPO COSTOSI” Ma analizziamo i numeri che ci offre l’Atlante dell’infanzia. Solo il 12% degli adolescenti va a un concerto di musica classica; il 29% ad altri concerti. Taddia sottolinea l’incidenza dei costi: i biglietti, afferma, sono”davvero troppo costosi per quanto riguarda la musica live e il cinema”. Poi c’è “la diminuzione dei piccoli club e dei piccoli cinema”, che toglie “luoghi in cui “allenarsi” a vivere in maniera diversa un evento. E poi il grande problema delle povertà educative: sacche di famiglie (e quindi di bambini) vivono sotto la soglia di povertà, in situazioni di degrado, dove le politiche culturali mancano completamente. Dove la dispersione non è solo scolastica, ma è anche umana. Dove la cultura è roba da ricchi, non motore di cambiamento e riscatto sociale”. Sulla stessa linea la sociologa Saraceno: “Andare a un concerto è costoso. Solo se provieni da una famiglia che ha la consuetudine a questo tipo di consumi sei incoraggiato a spendere i soldi in quel modo”. IL FENOMENO DELLE PLAYLIST I ragazzi: creano playlist dai titoli che iniziano con “Pov” – acronimo di point of view, punto di vista – che indica una tecnica, mutuata da altri social come TikTok, per far immergere l’ascoltatore in una determinata situazione psicologica. La generazione Z (che comprende i nati tra il 1997 e il 2012) ha creato il 72% delle playlist “Pov” esistenti. Ecco alcuni esempi: “Pov: sei innamorato di qualcuno che non potrai mai avere“, “Pov: stai iniziando una nuova vita, ti stai trasferendo in una nuova città e tutto sta cambiando”, e via dicendo. Nel 2024, inoltre, la musica più ascoltata dalla Gen Z (52,13%) era indicata con l’acronimo “iykyk“, if you know, you know, ovvero “se lo sai, lo sai”, utilizzato per indicare che una data canzone o genere musicale sono apprezzabili – o anche solo comprensibili – da un gruppo ristretto e selezionato di persone. Grave, invece, un altro aspetto evidenziato dalla ricerca: nel 2023, dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni, “soltanto l’8,4% frequentava corsi di musica in orario extrascolastico: percentuale che indica una carenza di opportunità per lo studio di uno strumento musicale o la partecipazione a un coro , che dovrebbero essere presenti in ogni scuola in orario pomeridiano”. SOLO UN TERZO DEGLI ADOLESCENTI A TEATRO La situazione non migliora con il teatro. Solo un adolescente su tre (il 33,3%) c’è stato almeno una volta nei 12 mesi precedenti all’intervista (il 37,6% delle ragazze a fronte del 29,3% dei ragazzi); tra chi ha genitori laureati, la percentuale sale al 44%, ma scende al 25% tra chi ha mamma e papà con un basso livello di istruzione. “Teatro e mostra accendono altre sentinelle: sono luoghi, sono esperienze, apparentemente lontane. Diverse. Appartenenti ad altri linguaggi”, spiega Taddia. “Da qui la necessità di elaborare proposte nuove, diverse, linguaggi altri; dall’altra parte – laddove famiglia e scuola non hanno gli strumenti per avvicinare ragazze e ragazzi a queste esperienze – attivare azioni sul territorio, la strada, il quartiere, le periferie, i luoghi atipici, in cui far “inciampare” i ragazzi e le ragazze nei musei e nel teatro. Avvicinarli non solo come spettatori ma anche come parte attiva; coinvolgerli nella progettazione, della gestione, della scelta, nella scrittura. Non far calare la “cultura” dall’alto, ma rendere la cultura come qualcosa di accessibile, di giocabile, di plasmabile”. UNO SU CINQUE MAI AL CINEMA NEL 2024 La pandemia di Covid, sembra, ha tolto ossigeno anche al cinema: la chiusura per mesi e mesi di tutte le sale durante l’emergenza ha allontanato molti adolescenti dall’esperienza di guardare un film con decine di persone invece che su una tv in streaming o, peggio ancora, sul cellulare. Gli adolescenti che non sono mai stati al cinema in tutto il 2024 sono il 21,2%: ben il 25% al Nord (erano il 19% nel 2019), il 16% al Centro (il 13% pre-Covid), il 22% al Mezzogiorno, dato stabile rispetto a prima della pandemia. Anche in questo caso non siamo di fronte a giovani disinteressati, ma che hanno cambiato modo di fruire del prodotto culturale. Per Chiara Saraceno, anche in questo caso, la colpa è dei biglietti troppo costosi, ma per Taddia c’è anche un elemento sociologico da analizzare: “Non si sente la necessità di vivere emozioni con chi ho a fianco. Non m’interessa, non lo so fare, non ne ho l’abitudine. È come se fosse una competenza analogica se non persa, sopita. O, quanto meno, dimenticata”. L'articolo Niente cinema e concerti, ma playlist e streaming: così i nuovi adolescenti vivono la cultura. Gli esperti: “Pesano i costi e la povertà educativa” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Deepfake porn e abusi, la radice è culturale: si parta dall’educazione. La violenza nelle relazioni? In età sempre più giovane”
Centinaia di volti di donne sovrapposti a corpi nudi generati dall’intelligenza artificiale. È solo l’ultimo caso di deepfake pornografici emerso in rete. Non è un episodio isolato: negli ultimi mesi si sono moltiplicati i canali e i siti che diffondono immagini intime senza consenso, dal portale Phica.net, oscurato dopo aver raccolto foto rubate di centinaia di ragazze italiane, fino al gruppo Telegram “Mia moglie”, dove venivano condivisi contenuti privati e denigratori. Un fenomeno in espansione, che coinvolge sempre più anche adolescenti e giovani, dove la facilità di iscriversi, creare o far circolare materiale falso o privato accresce il rischio di violenza, abusi, emarginazione e ricatti. Ma dietro la cronaca c’è un problema più profondo: quello educativo. Lo spiega a ilfattoquotidiano.it Gloriana Rangone, psicologa, psicoterapeuta e co-direttrice della scuola di psicoterapia IRIS di Milano, già coordinatrice del gruppo di lavoro per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per l’Ordine degli psicologi della Lombardia. La notizia di un forum di deepfake porn ha colpito molto l’opinione pubblica. Cosa ci dice la reazione collettiva a episodi del genere? La cosa che più mi ha colpito è la forza emotiva con cui questa notizia è stata accolta. Ho visto tristezza, rabbia, sconforto, ma anche disorientamento. Credo che in molti abbiano percepito che non si tratta di eventi isolati, ma di un fenomeno ampio, trasversale, che ci riguarda da vicino. È come se all’improvviso toccassimo con mano che valori che pensavamo consolidati – rispetto, uguaglianza, dignità – non lo sono affatto. Per questo penso che per affrontare davvero queste violazioni dobbiamo partire da lontano: da come stiamo crescendo bambini e adolescenti. È lì che si costruiscono le basi del rispetto dell’altro, dell’autonomia, della responsabilità. E invece oggi questi percorsi educativi sono sempre più fragili. Non basta indignarsi quando scoppia il caso: bisogna interrogarsi su cosa non stiamo facendo quotidianamente per sostenere una crescita sana. Molti osservatori dicono che non è solo una questione sessuale, ma anche di potere, di dimostrazione, di esibizione. Quanto pesa questa dinamica sugli adolescenti? L’adolescenza è una fase di transizione: i ragazzi e le ragazze cercano conferme, vogliono sentirsi grandi, esplorano. È fisiologico. Ma il punto è che oggi la ricerca di identità passa spesso da canali sbagliati. Il bisogno di apparire forti o “più avanti” degli altri si intreccia con un’insicurezza di fondo. Così la sfida o la violenza diventano mezzi per affermarsi. È un errore grave, ma comprensibile se guardiamo al contesto: l’adulto spesso non c’è, o non sa più orientare. Molti genitori, educatori, insegnanti minimizzano, liquidano certi comportamenti come “ragazzate”. Ma parliamo di atti che possono avere conseguenze devastanti, anche penali. E se gli adulti per primi non sono consapevoli della gravità, come possiamo aspettarci che lo siano i più giovani? Il caso dei deepfake dimostra che basta un software per creare un’immagine falsa. Quanto questo aumenta la violenza online? È un fattore di rischio enorme, e va preso molto sul serio. Ma non dobbiamo cadere nella trappola del “è colpa dell’intelligenza artificiale”. La tecnologia amplifica ciò che già esiste. Se una cultura è violenta, sessista, intrisa di disuguaglianza, l’IA non fa che renderla più visibile e più potente. Non è un rapporto di causa-effetto. La responsabilità resta nostra: di come educhiamo, di quali modelli di relazione trasmettiamo, di come trattiamo il corpo e il consenso. L’intelligenza artificiale e i social non inventano la violenza, la rendono soltanto più accessibile. Lei ha lavorato molto sul fenomeno della teen dating violence. In che modo oggi si manifesta tra gli adolescenti? Purtroppo si manifesta sempre prima. Oggi parliamo di relazioni che iniziano già a 12 o 13 anni, in cui la violenza assume forme subdole: non solo fisiche, ma psicologiche, di controllo, di isolamento. Capita spesso che una ragazza racconti: “Il mio fidanzato vuole che gli scriva appena esco da scuola, che gli mandi una foto quando arrivo a casa”. Quando le chiedi perché, risponde: “Perché lui mi vuole bene”. È l’errore più comune: confondere il possesso con l’amore. Dietro c’è un malinteso affettivo che poi può sfociare in atti più gravi: la diffusione di immagini intime, la condivisione forzata di foto o video, la perdita totale di autonomia. Ho seguito casi in cui tutto questo ha portato a gravi conseguenze psicologiche, fino a comportamenti autolesivi o suicidari. In Italia non esiste ancora un’educazione affettiva strutturata nelle scuole. Quanto pesa questa mancanza? Pesa moltissimo. L’educazione all’affettività e al rispetto dovrebbe iniziare molto prima, già nell’infanzia. La radice del problema è culturale: fin da piccoli trasmettiamo messaggi diversi a maschi e femmine: alle bambine diciamo “come sei carina”, ai bambini “come sei forte”. È da lì che si forma l’idea che il valore di una ragazza dipenda dal suo aspetto, e che il valore di un ragazzo si misuri nella forza o nel controllo. L’assenza di percorsi strutturati lascia i ragazzi soli a decifrare emozioni, relazioni e limiti, spesso attraverso modelli distorti che arrivano dai social o dalla rete. Le scuole dovrebbero diventare spazi in cui si impara anche a riconoscere e gestire i sentimenti, non solo a studiare. Ma serve un lavoro collettivo: famiglia, media e società civile devono contribuire a costruire una cultura del rispetto reciproco. Non è solo una questione di programmi scolastici, ma di civiltà condivisa. In attesa che la scuola faccia di più, cosa possono fare le famiglie? Prima di tutto, parlarsi. Sembra banale, ma non lo è. I genitori dovrebbero confrontarsi tra loro, costruire reti, chiedere aiuto. Troppo spesso si tende a minimizzare o a nascondere i segnali di disagio. E poi è fondamentale mantenere il dialogo con i figli. L’idea di poterli controllare è illusoria: i ragazzi conoscono la tecnologia meglio di noi, trovano sempre una via per sfuggire. Ma se si sentono ascoltati, non giudicati, allora si aprono. La protezione resta importante, ma deve andare di pari passo con la fiducia. Un figlio non si educa con la sorveglianza, ma con la presenza. Insieme al lavoro prioritario per educare i maschi alla non violenza, è necessario lavorare anche sulla consapevolezza delle ragazze? È altrettanto fondamentale. Le ragazze devono comprendere il loro valore e i loro diritti. Devono sapere che se subiscono un abuso, c’è sempre un aggressore, ma anche un contesto che lo permette. E che chi assiste, chi “guarda e non fa nulla”, è parte del problema. Serve una cultura del limite, che oggi manca non solo tra i ragazzi ma anche tra gli adulti. Dobbiamo aiutare i giovani a capire che alcune azioni non sono “errori”, ma reati. Rubare un’immagine, diffonderla, umiliare: sono tutti atti che violano la libertà dell’altro. Per cambiare davvero, serve una sensibilità nuova, diffusa, che coinvolga genitori, insegnanti, istituzioni e pari. Perché spesso sono proprio i coetanei, più degli adulti, a vedere per primi che qualcosa non va. L'articolo “Deepfake porn e abusi, la radice è culturale: si parta dall’educazione. La violenza nelle relazioni? In età sempre più giovane” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“La prof ti cerca”: la fanno uscire dalla classe e poi la picchiano in palestra. Denunciate due 16enni a Messina
Una brutale aggressione cominciata con un inganno. Non parliamo di serie tv, boss, criminali o ladri. L’astuzia (negativa) è venuta in mente a due ragazze di 16 anni, responsabili del pestaggio ai danni di una 17enne, nella palestra del liceo artistico Basile di Messina mentre erano ancora in corso le lezioni. E nel frattempo che i ragazzi erano su Kant, Caravaggio o sulle funzioni goniometriche, nella classe della vittima qualcuno bussa alla porta. Una delle due ragazze, entrate dal cancello principale e poi dalle scale d’emergenza, l’aggredita non l’ha mai vista. La sconosciuta bussa, fa il nome della vittima, finge di essere stata mandata da un’altra insegnante che chiede di lei e convince la professoressa a far uscire la ragazza. Ad aspettare la vittima nella palestra del plesso però non c’è nessuna docente, ma una sua vecchia conoscenza. Prima amiche, ex compagne di classe, poi le prime tensioni, il trasferimento della ragazza in un altra scuola, gelosie man mano diventate sempre più forti. Sono partiti schiaffi, pugni, calci: in due contro uno. Al liceo Basile intanto è la sesta ora e alcuni ragazzi diretti in palestra notano l’aggressione e lanciano l’allarme. Sopraggiunge un collaboratore scolastico, che cade e si fa male. Intanto le responsabili sono scappate. I genitori della studentessa hanno presentato denuncia e fornito dettagli fondamentali al riconoscimento delle due responsabili. Per la giovane, profondamente scossa, il liceo tramite la sua dirigente Caterina Celesti ha attivato le misure di sostegno psicologico e ha annunciato iniziative legali. Strada che potrebbe essere percorsa anche dalle due professoresse inconsapevolmente coinvolte. “Durante le violenze una delle due ragazze ha registrato tutto con il cellulare, ora ci chiediamo che fine ha fatto questo video” dice la sorella della vittima. Nella speranza che il presunto filmato non stia già circolando, il liceo proprio questa mattina ha svolto un incontro sul cyberbullismo (già programmato) per sensibilizzare gli studenti. L’aggressione, condotta come un vero e proprio blitz, si inserisce in un quadro giovanile già preoccupante in cui la violenza assume delle forme sempre più assurde ma, paradossalmente, sempre più studiate e strategiche come in questo caso. L'articolo “La prof ti cerca”: la fanno uscire dalla classe e poi la picchiano in palestra. Denunciate due 16enni a Messina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cronaca Nera
Aggressione
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Bullismo
Messina
Altro che sdraiati, questa generazione (forse) ci stupirà
Stare bene. È questo il primo, in assoluto, tra i desideri dei giovani tra i 14 e i 17 anni intervistati dall’Istituto Demopolis nell’ambito dell’indagine “Vivere da adolescenti in Italia” promossa dalla Fondazione Con i bambini. E se l’ambizione non vi sembra adatta a far battere i cuori più impetuosi, attenzione: quella che si affaccia è una generazione pragmatica, attenta alla salute psicologica e relazionale, a tratti sorprendente. Per certi versi (molti) incompresa. I dati raccolti, infatti, da un lato raccontano una realtà divisa a metà, con differenze rilevanti nelle percezioni tra chi vive nei centri e chi ai margini, ma lasciano anche intravedere un futuro emergente un po’ inaspettato, lontano dalla narrazione stereotipata che da adulti tendiamo ad appioppare a chi arriva dopo di noi. Così, se i numeri parlano chiaro – i più giovani sognano di diventare youtuber e influencer, certo, ma più spesso medici e nell’11% dei casi educatori e imprenditori – un elemento salta all’occhio: il benessere psicologico e relazionale si consolida tra le priorità di ragazzi e ragazze che più di tutto chiedono nelle città spazi per incontrarsi e fare nuove amicizie. Così se le ultime generazioni hanno avuto il merito di fare irruzione nei posti di lavoro con la sicurezza psicologica, gli adolescenti non scendono più a patti: per loro è un assoluto, un mai più senza. Un po’ come i jeans nel guardaroba: nessuno può farne a meno. Da Xennials – a metà tra generazione X e Millennials – me lo chiedo. E se proprio questa fosse la generazione underdog? Quella che davamo per debole e sfavorita e che invece ci spiazza? Quella che non abbiamo visto arrivare? Abituati a immaginare i più giovani spalmati sul divano – chi tra noi genitori oltre 40 non ha letto Gli sdraiati di Michele Serra? -, apprensivi al punto di tracciare i loro spostamenti con gli amici con app dedicate e consapevoli di una sorveglianza scolastica senza precedenti grazie al registro elettronico perpetuamente disponibile, rischiamo di sottovalutare quel che per loro sembra contare davvero. Stare bene e cura delle relazioni sono i due pilastri di una vita che merita di essere vissuta con pienezza e gioia, anche (soprattutto) per loro. Noi che li davamo per persi, incontriamo una generazione ritrovata, che torna ai capisaldi, alla semplicità. Certo, scrivo da madre preoccupata come molte di non capirci nulla – troppe volte ho pensato che Paolo Crepet, con quel cipiglio, si rivolgesse proprio a me o al massimo al partner che mi sta accanto. Non solo, però. Al di là della dimensione individuale c’è un tema da considerare: se il benessere personale e relazionale è la priorità, quali sono le aspettative dei ragazzi e delle ragazze nei contesti collettivi – scuola e lavoro primi tra tutti? Abbiamo costruito un modello educativo che risponde efficacemente? I nostri ambienti di lavoro sono spazi psicologicamente sicuri dove nutrire davvero quello stare bene così agognato? Così, di pancia, risponderei un doppio no. Abbiamo favorito contesti di competizione polarizzanti e se siamo abituati noi con i capelli grigi non è detto che sia l’unico modo per organizzarci o che sia naturale e giusto – “Il mondo va così, bellezza!”, ma anche no. Ecco, le domande sono tante e non sono rinviabili. Pensavamo di avere di fronte la versione stanca e demotivata di Tony Effe, forse abbiamo davanti una schiera di persone concrete e attente. La musica phonk ci ha fuorviati – e se non sapete cosa è, suona l’allarme boomer. Questa generazione merita più fiducia e forse una manciata di stereotipi in meno. L'articolo Altro che sdraiati, questa generazione (forse) ci stupirà proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ragazzi senza ottimismo, solo un terzo vede un futuro positivo nel Paese: “Tra loro c’è molta sofferenza”
“È un’emergenza nazionale. Tra i nostri ragazzi c’è molta sofferenza. Nonostante desiderino una vita normale sono preoccupati, hanno paura a vivere in questo Paese anche per la mancata possibilità di sviluppo. Basti un dato: il 43 per cento, quando si trova fuori casa, teme di poter essere vittima di molestie, violenza o bullismo; un numero che sale al 59% nei quartieri difficili e al 63% fra le ragazze italiane nel complesso”. Marco Rossi Doria, il presidente di “Con i bambini”, l’ex sottosegretario all’Istruzione quando in viale Trastevere c’era Francesco Profumo, non è solito usare parole allarmistiche. Lui, che vive da sempre nei quartieri Spagnoli di Napoli dove ha creato l’associazione “I maestri di strada” con Cesare Moreno, ha da sempre un tono pacato ma stavolta non nasconde la preoccupazione. Di fronte all’indagine “Vivere da adolescenti in Italia” promossa da “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e condotta dall’Istituto Demopolis in occasione della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, c’è solo da fermarsi e – non solo leggere – ma studiare queste percentuali che celano i volti di 3.400 intervistati (dal 30 ottobre al 10 novembre 2025) tra i 14 e i 17 anni. Il direttore di Demopolis Pietro Vento – presente alla conferenza stampa nazionale online – mette in ordine i grafici: “Il futuro è la prima ragione di preoccupazione per il 55% degli adolescenti, ma al secondo posto citano oggi la salute fisica o mentale (37%), un tema che dall’emergenza Covid resta centrale. Le altre principali ragioni di preoccupazione dei ragazzi fanno parte più della sfera personale, fanno eccezione solo le guerre nel mondo, al sesto posto, con il 32% di citazioni. Solo il 35% dichiara di vedere, oggi in Italia, il proprio futuro con ottimismo. Ma il 33% si definisce pessimista, con un dato che sale di 10 punti fra i ragazzi delle periferie e dei quartieri “difficili”, e raggiunge il 73% fra i genitori italiani, che dimostrano di non saper offrire alle nuove generazioni puntelli ed esempi di fiducia cui ispirarsi”. Un Paese con sempre meno giovani e più anziani. Un’Italia dove non stanno bene quelli che vivono nei cosiddetti quartieri poveri ma dove ora hanno problemi anche i figli del dottore: “Secondo gli adolescenti intervistati- continua Vento – le città italiane non sono a misura di minori: meno della metà del campione analizzato ritiene che siano adeguati spazi verdi, scuole, strutture per lo sport, trasporti pubblici. Meno del 30% valuta sufficienti la sicurezza urbana, la qualità dell’aria, i servizi sociali. E, fra i ragazzi che dichiarano di vivere in periferie e quartieri difficili, le valutazioni scendono di oltre 10 punti per tutte le variabili analizzate: oltre i 2/3 ritengono inadeguati servizi sociali e sanitari, occasioni per il tempo libero, sicurezza urbana”. Cambiano, in parte, anche i sogni dei nostri ragazzi. La graduatoria delle “cose importanti della vita” stilata vede ai primi posti la famiglia (78%) e l’amicizia (72%), come dimensioni centrali dell’esistenza ma sul podio fanno salire anche il “benessere psicologico”, lo stare bene con se stessi, a pari merito con l’amore (62%). Mentre un quarto dei giovani intervistati dichiara di non essere “mai” stato – nell’ultimo anno – ottimista verso il futuro, né fiducioso verso gli altri, con un dato che cresce di dieci punti fra i residenti nei quartieri più difficili. E allora che fare? Cosa serve per migliorare la situazione? I giovani su questo hanno le idee chiare. Lo dice il report: luoghi per incontrarsi con gli amici o fare nuove amicizie (44%), ma anche maggiore pulizia (43%) e sicurezza nella propria zona (40%). Ma c’è di più. L’Istituto Demopolis ha focalizzato anche le percezioni dell’opinione pubblica, e dei genitori con figli minori in particolare, sulle opportunità di crescita dei più giovani. La principale preoccupazione individuata dagli intervistati, pensando ai bambini e agli adolescenti in Italia è, con l’86% di citazioni, la dipendenza da internet, smartphone e tablet; il 74%% segnala inoltre la diffusione della violenza giovanile e delle baby gang, ma spaventano anche gli episodi di bullismo o cyberbullismo (71%), l’impoverimento del linguaggio (66%) ed il consumo di alcol e droga (64%). “In generale – commenta Rossi Doria – è una generazione che chiede più spazio di socialità e di autodeterminazione e che nonostante le difficoltà che la scena che gli abbiamo lasciati gli prospetta, non rinuncia ai propri sogni. Ascoltiamoli di più! Sono ragazzi e ragazze del nostro Paese che pongono ai primi posti, tra le ‘cose importanti’ della vita, la famiglia e l’amicizia, ma anche lo star bene con sé stessi e che danno importanza all’amore in un tempo di conflitti e di odi. Non è davvero poca cosa. Stanno dicendo cose che servono anche ai loro genitori e nonni, a noi tutti”. L'articolo Ragazzi senza ottimismo, solo un terzo vede un futuro positivo nel Paese: “Tra loro c’è molta sofferenza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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