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C’è alternativa alla lana animale. Ecco i filati vegetali che sostituiscono la maglia
di Sascha Camilli* Ora più che mai, la Terra ha bisogno che facciamo scelte migliori. Che si tratti di capi per stare al caldo nelle fredde giornate invernali, di abiti sofisticati per attrarre l’attenzione o di attrezzature tecniche per allenarsi, è tempo di rivedere la questione della lana animale. Numerose indagini sotto copertura hanno rivelato che gli abusi sulle pecore nell’industria della lana sono una pratica abituale e diffusa nel settore. Ma l’abuso degli animali non è l’unico problema legato alla lana di pecora. Nonostante gli sforzi pubblicitari dell’industria per promuovere la sua sostenibilità, le prove dimostrano che, come per tutti i prodotti di origine animale, essa ha un impatto ambientale allarmante. Per esempio, le pecore emettono grandi quantità di metano (un potente gas serra che riscalda l’atmosfera). Comunque, ci sono anche buone notizie. Oggi non è più necessario scegliere tra fibre animali e sintetiche derivate dal petrolio. Le lane ricavate dalle piante, e non dagli animali o dalla plastica, stanno guadagnando terreno nel mondo della moda. Ecco alcune delle migliori scelte per stare al caldo e fare acquisti ecologici e cruelty-free. Cotone biologico Il cotone biologico è spesso coltivato con acqua piovana, quindi non richiede un uso intensivo di acqua. Inoltre, viene coltivato senza pesticidi o fertilizzanti chimici. Una ricerca del Center for Biological Diversity e Collective Fashion Justice ha dimostrato che per coltivare il cotone è necessaria una superficie 367 volte inferiore rispetto a quella necessaria per la produzione di lana di pecora. Il cotone spesso e confortevole può essere perfetto per riscaldarsi in inverno, utilizzato in maglioni, berretti, guanti e cappotti. Canapa La canapa cresce senza bisogno di fertilizzanti chimici o pesticidi e ha un consumo di acqua significativamente inferiori rispetto alla lana. Inoltre, immagazzina più CO2 di quanta ne emetta. La Commissione Europea indica che un ettaro di canapa può assorbire fino a 15 tonnellate di CO2, paragonabile a quella immagazzinata da una foresta giovane. Nota per la sua versatilità, la canapa può essere utilizzata in una vasta gamma di prodotti, dagli abiti alla maglieria [in foto]. Tencel Lyocell Questo materiale deriva dalla cellulosa della polpa di eucalipto. Viene prodotto con un processo a ciclo chiuso, il che significa che l’acqua e le sostanze chimiche utilizzate nel processo vengono riutilizzate per ridurre al minimo gli sprechi. Marchi di tutto il mondo scelgono il Tencel Lyocell per una vasta gamma di prodotti. Fibra di banana L’azienda innovativa Bananatex ha vinto un premio PETA Fashion Award per il suo lavoro con le piante di banana Abacá, che non richiedono acqua o sostanze chimiche aggiuntive e contribuiscono ai progetti di riforestazione nelle Filippine. Il resistente tessuto di Bananatex è stato utilizzato per borse e scarpe, ma anche giacche e altri capi di abbigliamento vegano. Birra Tandem Repeat, azienda vincitore di un premio PETA Fashion Award quest’anno, ha creato un morbido filato ricavato dagli scarti dei birrifici. Questo materiale è biodegradabile, non lascia tracce nell’ambiente e utilizza molta meno energia e acqua rispetto alla lana e ai sintetici, senza alcuna forma di crudeltà verso gli animali. Cashmere di soia Il cashmere ricavato dalle capre è uno dei tessuti più dannosi per l’ambiente: le capre al pascolo mangiano l’intera pianta con la radice, lasciando aree prive di vegetazione in parti del mondo già in gran parte desertificate, come la Mongolia. Un’alternativa è il cashmere ricavato dalla soia, un tessuto morbido e biodegradabile, oltre ad essere ipoallergenico e traspirante. Ortica Risorsa vegetale di uso comune fino al secondo dopoguerra, quando è stata soppiantata dal cotone, il tessuto di ortica unisce la sensazione lussuosa della seta alla morbidezza del cashmere. È anche biodegradabile, offrendo un vantaggio ambientale rispetto sia alla lana che ai sintetici. Alghe marine Per creare la fibra, le alghe marine vengono raccolte delicatamente ogni quattro anni, lasciando intatta la parte inferiore della pianta per consentirne la rigenerazione. Le alghe marine vengono poi combinate con cellule vegetali all’interno di un sistema organico a ciclo chiuso che impedisce il rilascio di solventi nell’ambiente. Bambù Questa fibra erbacea a crescita rapida è rigenerativa, rinnovabile e richiede un uso minimo di pesticidi e fertilizzanti. Le foreste di bambù gestite in modo sostenibile aiutano a filtrare l’anidride carbonica e a reimmettere ossigeno nell’atmosfera. Il bambù proveniente da foreste non soggette a deforestazione è prominente nell’abbigliamento sportivo e sta comparendo sempre più spesso nella maglieria etica. Kapok La lana di kapok proviene dall’albero di kapok o ceiba, il quale cresce nel sud-est asiatico. La fibra di kapok offre una sensazione morbida e setosa unita a una consistenza soffice. Un chilo di kapok genera 5,51 chilogrammi di CO2, rispetto agli 89,1 chilogrammi di CO2 equivalente per ogni chilogrammo di lana di pecora. Asclepiade L’asclepiade, o Calotropis, è originaria del Nord America e dell’India. Le sue fibre di semi piumate possono essere utilizzate per creare lana vegetale sostenibile. Mentre le pecore richiedono grandi quantità d’acqua, diverse specie di asclepiade prosperano nelle regioni aride e non richiedono irrigazione. Alcune lane vegetali sono antiche quanto il tempo, mentre altre rimangono un concetto nuovo nel settore della moda, ma con la crisi climatica che richiede un’azione urgente, è essenziale che tutti noi utilizziamo il nostro potere di consumatori per incoraggiare un numero maggiore di marchi a passare a queste fibre vegetali ecologiche e prodotte in modo consapevole. Dai maglioni di cotone ai vestiti in Tencel Lyocell fino agli abiti in canapa, le lane vegetali stanno guadagnando terreno e con ogni ragione, gettando le basi per un futuro della moda più gentile e più verde. *Sascha Camilli è responsabile dei progetti di pubbliche relazioni presso People for the Ethical Treatment of Animals (PETA). È anche autrice di Vegan Style: Your Plant-Based Guide to Fashion, Beauty, Home and Travel. L'articolo C’è alternativa alla lana animale. Ecco i filati vegetali che sostituiscono la maglia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Per l’Europa diritti umani e clima tornano negoziabili: un enorme dietrofront
di Giorgia Ceccarelli, Business and Human Rights Policy Advisor di Oxfam Italia Non sono passati nemmeno due anni da quando la direttiva europea sulla due diligence per la sostenibilità delle imprese (Corporate Sustainability Due Diligence Directive – CSDDD) veniva celebrata come una delle conquiste politiche più significative a livello comunitario della storia recente. Oggi però c’è ben poco da festeggiare, dato l’enorme passo indietro con il voto di giovedì del Parlamento europeo, che ha approvato una proposta di deregolamentazione – contenuta nel pacchetto di semplificazione legislativa sulla finanza sostenibile (il cosiddetto Omnibus I) – che modifica e indebolisce i principali pilastri dell’impianto normativo europeo sulla sostenibilità, inclusa appunto la CSDDD. Una scelta che segna un preoccupante cambio di rotta politico e culturale, visto che è stata di fatto smantellata l’unica norma capace, almeno sulla carta, di imporre finalmente alle grandi imprese il rispetto dei diritti umani e degli standard ambientali lungo l’intera filiera che porta i prodotti fino a noi. Una regolamentazione che rappresentava una conquista storica, frutto di anni di pressioni da parte della società civile e dei lavoratori, che avrebbe finalmente ridotto le zone grigie su cui prosperano sfruttamento, devastazione ambientale e impunità. L’alleanza senza precedenti tra estrema destra e Ppe Il voto del Parlamento è avvenuto in un clima avvelenato da mesi di pressioni, tattiche di ostruzionismo e narrazioni tossiche sulla “competitività” da tutelare a tutti i costi. Il risultato? Per la prima volta, la norma è passata grazie a un’inedita alleanza tra il Partito Popolare Europeo (Ppe) e i gruppi di estrema destra euroscettici. Un drammatico precedente per una forza politica che si definisce “pro-europea”, come il Ppe, che ora sceglie di mettere a rischio i capisaldi che hanno reso l’Ue più di un semplice mercato: la tutela delle persone, dei lavoratori, dell’ambiente. Il messaggio politico è chiaro: la difesa dei diritti umani è tornata ad essere negoziabile. Le lobby delle grandi imprese possono festeggiare: hanno ottenuto l’impossibile. E lo hanno ottenuto proprio nel momento in cui l’Europa avrebbe dovuto fare l’esatto contrario. Che cosa contiene l’Omnibus I: i tre colpi al cuore della direttiva sulla sostenibilità d’impresa Le modifiche introdotte stravolgono l’impianto originario della direttiva. I punti più critici sono tre. 1. L’eliminazione dei piani di transizione climatica. L’Omnibus I cancella infatti ogni obbligo per le imprese di dotarsi di un piano di riduzione delle emissioni. Può sembrare un dettaglio tecnico; non lo è. È il segnale, pessimo e pericoloso, che l’Europa non intende più chiedere al proprio tessuto produttivo di contribuire realmente alla lotta climatica, proprio mentre il continente registra temperature che sfondano stabilmente il limite di +1,5°C, rispetto all’era pre-industriale. 2. L’abolizione della responsabilità civile armonizzata in Europa. Senza un regime comune di responsabilità civile per i danni causati dalle aziende, in molti Paesi europei, compreso il nostro, le migliaia di vittime di violazioni lungo le filiere — braccianti sfruttati, comunità inquinate, lavoratori invisibili — continueranno ad avere tutele a macchia di leopardo, spesso inesistenti. Un paradosso in un mercato unico che pretende uniformità per le merci, ma non per i diritti. 3. La riduzione dell’ambito di applicazione della CSDDD. Il campo di applicazione della direttiva, che già coinvolgeva appena lo 0,05% delle aziende europee, viene ristretto ulteriormente, esentando la stragrande maggioranza delle grandi imprese dagli obblighi di due diligence. Un regalo alle aziende che operano nei settori a maggior impatto sociale e ambientale. Un’Europa meno credibile Quello votato dal Parlamento europeo non è stato quindi un semplice ritocco tecnico a una direttiva scomoda. È stato un test di maturità politica e l’Unione Europea, ancora una volta, ha scelto di non crescere. L’attacco ai meccanismi di responsabilità delle imprese ha ignorato persino i ripetuti richiami provenienti da istituzioni autorevoli come la Banca Centrale Europea e da oltre 30 ex leader europei, che hanno messo in guardia contro una deregolamentazione pericolosa e miope, come quella prevista dall’Omnibus I. L’Europa, che ama definirsi leader globale nella lotta al cambiamento climatico e nella tutela dei diritti umani, ha messo così in vendita i suoi stessi principi. Nel momento in cui le evidenze scientifiche — come ricorda anche l’ultimo rapporto di Oxfam sulle emissioni dei super-ricchi — mostrano che la crisi climatica è trainata proprio dai finanziamenti alla industrie del carbone, petrolio e gas, l’Europa non può permettersi di arretrare. Bruxelles, che in questi giorni alla Cop30 in Brasile dovrebbe guidare la transizione climatica e sociale, rischia di perdere così ogni credibilità. La società civile come ultimo argine Se questa direttiva avrà un futuro, non lo avrà certo grazie alle istituzioni, ma nonostante le istituzioni. Oxfam insieme alle organizzazioni della Campagna Impresa 2030 continueranno a chiedere ciò che qualsiasi democrazia sana considererebbe il minimo sindacale: – regole comuni che garantiscano l’accesso alla giustizia; – piani climatici che non siano un atto volontaristico; – un campo di applicazione che non lasci zone franche per lo sfruttamento. In altre parole: dignità, giustizia e responsabilità. Parole semplici, che oggi in Europa sembrano diventate rivoluzionarie. Una direttiva da ricostruire prima che sia troppo tardi Ogni legislazione racconta un’epoca. La prima versione della direttiva sulla due diligence raccontava un’Europa che provava, con mille difetti, a restare all’altezza dei propri valori. Il voto di giovedì racconta invece un continente ripiegato, impaurito, disposto a sacrificare il futuro per compiacere il presente. Non è una pagina gloriosa. Ma è comunque una pagina che può ancora essere riscritta. A condizione che non smettiamo di ricordare all’Europa ciò che sembra aver dimenticato: i diritti umani non sono un ostacolo alla competitività, bensì ciò che dà senso alla nostra idea di democrazia. L'articolo Per l’Europa diritti umani e clima tornano negoziabili: un enorme dietrofront proviene da Il Fatto Quotidiano.
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