Un incendio ha devastato un edificio nel West Side di Manhattan, prima di essere
rapidamente domato dai vigili del fuoco. L’incendio è scoppiato nelle prime ore
del mattino di martedì 9 dicembre all’ultimo piano di un edificio di sei piani
nel quartiere dell’Upper West Side. Un gran numero di vigili del fuoco è
intervenuto sul posto e le strade della zona sono state chiuse al traffico.
Secondo fonti locali, ci sono due residenti feriti che si trovavano al terzo
piano, tutti gli altri sono stati evacuati dei soccorsi. La causa dell’incendio
è attualmente sconosciuta.
L'articolo Incendio devasta edificio di sei piani a New York: il video dall’alto
da Manhattan proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Dopo quasi tre anni di contenzioso, sembra calare definitivamente il sipario
sulla guerra legale tra due dei volti più noti sui social, in particolare nel
travel blogging. A finire davanti al giudice sono stati due influencer molto
seguiti da giovani e giovanissimi. Da un lato Piero Armenti, fondatore del
canale “Il mio viaggio a New York” che oggi conta oltre mezzo milione di
follower su Instagram, grazie al quale ha riscontrato un enorme successo di
pubblico.
Dall’altro c’è invece Giuseppe Russo, imprenditore, figura di spicco del settore
e protagonista de “Il mio viaggio a Napoli”, un format che, già dal nome, sembra
richiamare quello del collega salernitano, pur concentrandosi principalmente
sulla food experience del capoluogo campano. Ed è proprio sulla similarità dei
contenuti che si è innescata la disputa giudiziaria tra i due content creator.
La controversia, infatti, parte da Armenti: secondo l’influencer classe 1979,
tutti i marchi che gravitano intorno alla formula “Il mio viaggio a” andrebbero
considerati un suo marchio di fabbrica. Per questo, a suo avviso, andrebbero
annullati i marchi registrati da Russo con le denominazioni “Il mio viaggio a
Napoli” e “My trip to Naples”. Il giudice estensore, Leonardo Pica, del
Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia d’impresa – si è
pronunciato sulla questione, emanando una sentenza che traccia una linea di
demarcazione netta nel definire marchi registrati, creatività online e
imitazione dei format narrativi.
Quanto al primo punto, secondo l’autorità giudiziaria l’espressione “Il mio
viaggio a” avrebbe una natura descrittiva e per questo sarebbe priva della forza
distintiva necessaria a garantirne l’esclusiva. Armenti sostiene che nel 2020,
quando Russo registra il proprio marchio, lui fosse già titolare di domini web
collegati alla stessa formula, e ciò dimostrerebbe un comportamento in malafede
da parte dell’accusato. Ma anche in questo caso il tribunale nega l’esistenza di
un illecito, perché Armenti non aveva alcun progetto su Napoli e non usava il
dominio registrato in precedenza. Di conseguenza, i marchi registrati da Russo
restano validi.
Ben più netta è la posizione del giudice sul secondo e terzo punto: creatività
online e imitazione dei format narrativi. Il Tribunale, infatti, riconosce che
il progetto di Russo, pur autonomo nella formula, sarebbe stato costruito
attraverso modalità comunicative troppo simili a quelle di Armenti. A partire
dallo slogan “Amici del mio viaggio a Napoli”, che riprende direttamente
l’espressione resa celebre dal suo collega salernitano con “Amici del mio
viaggio a New York”. E non è solo una questione di linguaggio verbale. Il
giudice avrebbe elencato una serie di elementi che, a suo giudizio,
sembrerebbero richiamare in modo esplicito i lavori prodotti da Armenti:
l’immagine di copertina, la scelta delle location, la struttura dei video e
alcuni contenuti tematici. Un insieme di elementi che, riporta Fanpage, il
Tribunale avrebbe interpretato come un “intento sistematico di agganciamento
alla notorietà altrui”.
Per effetto della sentenza, il creator napoletano dovrà ora rimuovere o
modificare parte dei suoi contenuti presenti online. In particolare, l’ordinanza
impone la cancellazione di “tutti i post/video sulla pagina Facebook de Il mio
viaggio a Napoli (e in qualsivoglia altro social network riferibile alla sua
attività) in cui il Russo recita la frase ‘amici del mio viaggio a Napoli’”,
oltre ai contenuti girati a New York e quelli relativi alla promozione della
vendita di prodotti americani. È inoltre prevista una penale di 100 euro per
ogni giorno di ritardo nell’esecuzione delle disposizioni, e una seconda multa
di 500 euro per ogni eventuale violazione futura, trascorsi trenta giorni dalla
pubblicazione della sentenza.
L'articolo “Il mio viaggio a Napoli”, la sfida tra influencer in tribunale:
Piero Armenti vince la causa contro Giuseppe Russo per concorrenza sleale. Via
alla rimozione dei contenuti proviene da Il Fatto Quotidiano.
Dalla zona di Astoria, nel Queens, all’Upper East Side: il neo sindaco Mamdani
annuncia che si trasferirà con la moglie nella residenza ufficiale del sindaco
di New York, la Gracie Mansion, lungo l’East River. Uno dei cavalli di battaglia
di Zohran Mamdani durante la campagna elettorale che lo ha poi eletto primo
cittadino è stata la promessa di bloccare il caro affitti. Un tema delicato
nella Grande Mela, dove si può pagare 5/6.000 dollari per un monolocale a
Brooklyn.
Lui, Mamdani, mentre prometteva di mettere un freno alla speculazione, abitava
ad Astoria, nonostante il suo status economico soddisfacente, in una casa ad
affitto calmierato da 2.400 dollari al mese. Gli avversari lo avevano attaccato
su questo punto. Per loro, un rappresentante con uno stipendio soddisfacente
abitava nel Queens solo per questioni di immagine: quella di un politico che a
tutti i costi si vuol mostrare dalla parte del ceto medio-basso che vive lontano
da Manhattan.
L’ex governatore Andrew Cuomo, che si era candidato come indipendente, aveva
accusato Mamdani di aver abusato del sistema di regolamentazione degli affitti;
facendo parte di una famiglia benestante, e con uno stipendio da 142.000 dollari
in qualità di deputato dello Stato di New York in rappresentanza di Astoria,
Mamdani avrebbe dovuto lasciare quella casa ad una persona meno abbiente.
Ora, il primo sindaco musulmano nella storia di New York, dalle idee socialiste
che hanno fatto rizzare i capelli in testa al presidente Trump, ammette che dal
1° gennaio 2026 con la moglie Rama Duwaji si trasferirà nella Gracie Mansion. La
decisione è stata annunciata sui social: “La settimana scorsa siamo andati alla
mostra dei treni del Giardino Botanico di New York e abbiamo visto la nostra
nuova casa! Io e mia moglie Rama abbiamo deciso di trasferirci a Gracie Mansion
a gennaio”. Il cambio di residenza, ha sostenuto il sindaco neo eletto, è da
attribuire a questioni di sicurezza: “Questa decisione è stata presa per
tutelare la sicurezza della nostra famiglia e per l’importanza di dedicare tutta
la mia attenzione all’attuazione del programma di accessibilità economica per il
quale i newyorkesi hanno votato”.
Di certo per la famiglia Mamdani è un cambiamento non da poco: dal monolocale di
Astoria con una stanza da letto a Gracie Mansion, residenza in legno che vanta
226 anni e si estende su quasi 1.000 metri quadrati: ha cinque camere da letto,
una sala da ballo e una vista panoramica sull’East River. Il sindaco gioca la
carta del sentimentalismo: “Ci mancherà molto la nostra casa ad Astoria.
Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento
viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate
vibrare attraverso le pareti dell’appartamento. Ad Astoria: grazie per averci
mostrato il meglio di New York City”. I suoi sostenitori gli credono: i
detrattori invece ricordano maliziosamente che non è un obbligo per il neo
sindaco andare a vivere nella Gracie Mansion, anche se l’unico a rifiutarsi fu
il sindaco Michael Bloomberg, in carica dal 2002 al 2013.
L'articolo New York, Mamdami lascerà il monolocale per la villa da mille metri
quadrati che è la residenza del sindaco proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un ponte tra l’Italia e l’America che si affaccia sul mondo: BravItalia ha
portato a New York musica e tradizione italiana. E la location era di quelle
eccellenti, la prestigiosa Carnegie Hall nella 7th Avenue. Un concerto
organizzato dal maestro Maurizio Mastrini – e sostenuto dal Ministero degli
Esteri – che ha coinvolto i presenti e (ri)aperto un canale che attraversa
l’Oceano e unisce generazioni.
Tempi scanditi al secondo, la Weill Recital Hall e suoni italici nell’aria: la
serata del 17 novembre è stata un tripudio di emozioni. A dare inizio e fine
alla serata è stato proprio Mastrini, che ha animato gli spettatori con la sua
eccentricità e le note dello Steinway & Sons. “Il concerto è un anello di
congiunzione artistico tra quella che è la nostra tradizione artistica italiana
e il mercato musicale americano”, ha raccontato Mastrini a IlFatto
Quotidiano.it.
CHITARRE, PIANOFORTE E VOCI: GLI ARTISTI SUL PALCO DELLA CARNEGIE HALL
Non solo Mastrini: diversi artisti si sono alternati sul palco della Weill
Recital Hall. Francesco Tizianel ha animato la scena con la sua chitarra.
Inediti e pezzi di storia della musica mondiale, in cui il fiorentino ha portato
i presenti a spasso anche per la Penny Lane di Liverpool. Poi è stato il turno
del duo Scibilia-Sarnelli, con il pianista Paolo Scibiliaal pianoforte e il
baritono Antonio Sarnelli alla voce. A catturare il pubblico è il repertorio
napoletano, con “I’ te vurria vasà” che ha strappato lacrime alle due anziane di
origine italiana in prima fila, tornate indietro nel tempo per una serata
magica.
Passione e amore, come in famiglia. E come se fosse nel soggiorno di una casa
italiana dopo il pranzo domenicale, il maestro Maurizio Di Fulvio e la figlia
Stefania hanno portato sul palco della Carnegie Hall grandi classici, tra cui
“Hallelujah” di Leonard Cohen. Prima l’Italia, poi l’Europa e infine l’America:
il Mefitis Quartet ha conquistato tutti. Merito delle voci del mezzo soprano
Tiziana Lobosco e del contralto Valeria Veltro che hanno acceso la sala con
grandi classici napoletani (come “Marechiare”) e internazionali. Le due cantanti
erano accompagnate dalle chitarre di Francesco Latorraca e Gaetano Agoglia, che
hanno deliziato i presenti con uno dei brani più conosciuti del panorama
chitarristico, “La danza de la vita breve” di Manuel de Falla. In chiusura occhi
lucidi e cuore leggero, con “O Sole Mio” che riecheggiando nella Carnegie Hall
ha unito, per una notte, Italia e l’America. Un connubio antico e sempre
moderno, destinato a durare nel tempo.
MASTRINI: “LA NOSTRA MISSIONE È PROMUOVERE TALENTI ITALIANI NEL MONDO”
“La missione di BravItalia è quella di far conoscere e promuovere talenti
artistici italiani nel mondo. La scelta della location di grande prestigio ne è
una testimonianza. Venire a New York e suonare in un qualsiasi teatro non
darebbe risalto alle grandi capacità artistiche dei nostri talenti selezionati.
Se lo stesso programma viene proposto a un teatro prestigioso come la Carnegie
Hall, la comunicazione si amplifica a dismisura e questo pone gli artisti su un
trampolino di lancio mediatico davvero importante”, ha raccontato Mastrini a
IlFattoQuotidiano.it. L’eccentrico pianista ha aperto e chiuso il concerto,
mettendo in scena i suoi grandi inediti.
Un’esibizione moderna e non convenzionale, che ha coinvolto tutti. Lui che si
era già esibito alla Carnegie Hall. “Ho fatto tesoro della mia esibizione di due
anni fa. Ricordo ancora che si trattava di un giovedì sera quando ricevetti il
messaggio dal direttore della New York Chamber Orchestra per far conoscere la
mia musica a New York. Due giorni dopo scoprì che il concerto si sarebbe tenuto
in questo prestigioso teatro – ha poi concluso – Una volta tornato in Italia,
scoprì l’effetto mediatico che l’esibizione aveva generato. Da lì l’idea di
poter offrire la stessa opportunità a illustri collegi e talenti italiani”. Un
anello di congiunzione destinato a durare nel tempo, quello tra Italia e
America. Sulle note della musica italica amata e apprezzata in tutto il mondo,
anche in teatri prestigiosi come la Carnegie Hall di New York.
L'articolo “È un anello di congiunzione tra tradizione italiana e mercato
musicale americano”: BravItalia conquista New York e gli USA proviene da Il
Fatto Quotidiano.
La sintesi non si addice a Woody Allen. Sarà per questo che al compimento dei
suoi “primi” 90 anni – il 30 novembre – lo si immagina dirottato verso il futuro
come uno Zelig in loop a pensare, scrivere, dirigere ininterrottamente chissà
quale geniale follia. Il sovrano delle comiche contraddizioni che non ha paura
di morire (“è soltanto che non vorrei esserci quando succederà”) ma che allo
stesso tempo considera l’immortalità “poco conveniente” (“riuscite a immaginare
a quanto ammonterebbe il costo del macellaio?”) è il protagonista assoluto di un
volume monumentale edito da Gremese che altrimenti non poteva titolarsi se non
“Tutto Woody Allen” per la cura sapiente e capillare di Enrico Giacovelli.
Che esagerazione, addirittura “tutto” Woody Allen! Si potrebbe argomentare.
Nessuna enfasi. Il librone da oltre 650 pagine, facente parte della collana
diretta dallo stesso Giacovelli “Le CinEnciclopedie” (esistono già Tutto
Fellini, Tutto Pasolini, Tutto Truffaut…), è realmente un compendio eccezionale
sul prolifico artista newyorkese, senza dubbio il più completo omaggio a lui mai
realizzato in Italia. Il sottotitolo sgombra dai dubbi: “I film, i libri, il
teatro, la televisione, le dichiarazioni, le battute. La vita (e tutto il
resto)”. Ed è tutto vero. Sfogliando il testo di Giacovelli non si può che
perdersi nei mille universi paralleli di Allen, rimanendone incantati, sospesi,
assolutamente imprigionati.
A vincere l’eventuale terrore da noia enciclopedica è la struttura e la forma
della scrittura: capitoli/paragrafi brevi e titolati con chiarezza all’interno
di macro-parti, proposti con uno stile leggero, a tratti lapidario financo
ironico (siamo dalle parti di Allen, del resto!), una forma capace insomma di
tenere incollati i lettori.
Il librone si apre con un capitolo ovviamente biografico (Vita breve di Allan
Stewart Königsberg detto Woody Allen), prosegue con la parte centrale costituita
da un corposo Dizionario woodyalleniano che, in rigoroso ordine alfabetico,
raccoglie tutto ciò che concerne “il nostro” suddiviso in categorie (film,
libri, musica, persone, teatro, stand-up comedy, tv, varie…), e si conclude con
una sezione genericamente indicata con Materiali, in cui si annovera una
quantità sterminata di dichiarazioni, aneddoti, frasi, e di iconiche battute e
irresistibili freddure di Allen a proposito del mondo, del cinema, del “proprio”
cinema, alla quale si aggiunge un interessante capitolo dedicato alla musica
(Musicografia).
Insomma, un vademecum completo, spassoso, interrelato nelle sue parti, per
scoprire e riscoprire il talento di uno degli artisti più straordinari del
nostro tempo. Colui che “in conclusione, vorrei potervi lasciare con un
messaggio positivo. Ma non ne ho. Vi vanno bene due messaggi negativi?”
L'articolo Tutto Woody Allen, eterno Zelig: 90 anni di geniale follia nel
“dizionario” sul mitico regista e attore newyorkese proviene da Il Fatto
Quotidiano.
È stato portato con urgenza in ospedale, l’uomo di Long Island, New York, che ha
riportato delle gravi lesioni sul posto di lavoro. Elmer Rios, 45 anni, stava
lavorando alla L&S Packing Company a East Farmingdale quando si è amputato tre
polpastrelli mentre utilizzava un’affettatrice.
Secondo un comunicato stampa del Dipartimento di Polizia della Contea di
Suffolk, l’episodio è avvenuto mercoledì 26 novembre.
L’uomo, originario della vicina località di North Amityville, “ha infilato la
mano dentro la macchina per pulirla e tre dei suoi polpastrelli sono stati
tagliati via”, come ha riferito la polizia. Rios è stato portato al Good
Samaritan Hospital Medical Center con gravi ferite.
I detective della First Squad della Contea di Suffolk stanno indagando
sull’incidente. PEOPLE ha contattato il Dipartimento di Polizia della Contea di
Suffolk e la L&S Packing Company venerdì 28 novembre per ulteriori informazioni,
ma non ha ricevuto una risposta immediata.
Sul caso è stato informata dalla polizia la Osha, l’Occupational Safety and
Health Administration. Intanto, l’azienda non si è ancora espressa sull’accaduto
che sta facendo molto discutere sul tema della sicurezza sul posto di lavoro. La
L&S Packing Company è uno dei produttori leader nel settore degli alimenti ed è
noto anche per la sua attività di importazione.
L'articolo Pulisce l’affettatrice e si amputa tre polpastrelli: operaio di New
York portato d’urgenza in ospedale proviene da Il Fatto Quotidiano.
La storia di Etan Patz, il bambino di sei anni scomparso a New York il 25 maggio
1979, torna sotto i riflettori più di quarant’anni dopo. Pedro Hernandez, l’uomo
condannato per l’omicidio del piccolo, vedrà il suo caso tornare in tribunale
per la terza volta, dopo che una corte d’appello federale ha annullato la sua
condanna del 2017.
Quel giorno di maggio, Etan si avviò per la prima volta da solo verso la fermata
dello scuolabus. La distanza era breve, poco più di un isolato, eppure quella
passeggiata, un gesto di autonomia per un bambino così piccolo, si sarebbe
trasformata in una tragedia destinata a segnare profondamente la città e
l’intera nazione. Il corpo di Etan non è mai stato trovato, e il vuoto lasciato
dalla sua scomparsa è rimasto dolorosamente aperto.
La vicenda di Etan contribuì a sensibilizzare l’America sul tema delle
sparizioni infantili. Fu uno dei primi bambini a comparire sulle confezioni di
latte, e i suoi genitori furono tra i principali promotori di iniziative per
aiutare i bambini scomparsi, tra cui una hotline nazionale. Ogni anno,
l’anniversario della sua scomparsa è diventato il National Missing Children’s
Day, un momento di riflessione sulla sicurezza e la protezione dei minori. Il
caso di Etan cambiò il modo in cui genitori e polizia affrontavano la vigilanza
dei bambini, portando a una maggiore attenzione e a una cultura di protezione
più rigorosa.
Pedro Hernandez, oggi 64enne, lavorava in un piccolo negozio vicino a dove Etan
abitava. La polizia non lo considerò un sospettato fino a decenni dopo, quando
emersero racconti incoerenti che suggerivano la possibilità che avesse
confessato, in varie occasioni, di aver fatto del male a un bambino o a una
persona a New York. Nel 2012 Hernandez dichiarò di aver strangolato Etan dopo
averlo attirato nel seminterrato del negozio offrendogli una bibita: “Qualcosa
ha preso il sopravvento su di me,” disse alle autorità in un video confessione.
In assenza di prove fisiche, quella confessione divenne il fulcro dell’accusa,
ma il dibattito sulla sua attendibilità fu acceso. Hernandez soffre di disturbi
mentali, ha un QI molto basso ed era in cura con farmaci antipsicotici. La
polizia lo interrogò per circa sette ore senza leggere i suoi diritti o
registrare l’interrogatorio, procedure adottate solo dopo che Hernandez si
autoaccusò. I suoi legali sostengono che la confessione sia stata delirante,
falsa e ottenuta sotto pressione.
Il primo processo si concluse con una giuria impantanata, mentre un successivo
processo del 2017 portò alla condanna di Hernandez a 25 anni fino all’ergastolo.
Tuttavia, la corte d’appello federale ha recentemente stabilito che la condanna
era viziata da un errore giudiziario nella gestione delle istruzioni date alla
giuria sulle confessioni di Hernandez. In sostanza, i giudici hanno ritenuto che
ai membri della giuria non fosse stata data la possibilità di valutare
correttamente se le prime confessioni non registrate fossero state coercitive.
La corte ha stabilito che Hernandez dovrà essere processato nuovamente entro il
primo giugno, pena il suo rilascio.
Per i genitori di Etan, questa vicenda non è mai stata solo un processo
giudiziario: è la continua ricerca di giustizia per il figlio che non è più
tornato a casa. È la testimonianza di un dolore che non si spegne, di una
perdita che ha cambiato la vita di una famiglia e che ha segnato un’intera
generazione. La prossima udienza, fissata per giugno, rappresenta un momento
cruciale: la possibilità di affrontare ancora una volta la verità e, forse, di
trovare una forma di chiusura.
Il caso di Etan Patz resta uno dei simboli più dolorosi e famosi delle
sparizioni infantili negli Stati Uniti, un monito su quanto fragile possa essere
la sicurezza dei bambini e quanto profondamente il loro vuoto possa segnare chi
resta. E oggi, più di quarant’anni dopo quel 25 maggio 1979, la città di New
York e l’intero paese attendono un nuovo capitolo di una vicenda che ha cambiato
la storia della protezione dei minori.
L'articolo Scomparso a sei anni e mai più ritrovato, dopo 40 anni il “caso” di
Etan Patz torna alla ribalta. Il presunto omicida in tribunale per la terza
volta proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cosa fanno insieme un designer hollywoodiano, un contadino tedesco e Grindr? No,
non è l’inizio di una barzelletta politicamente scorretta. Arriva dal New York
Times, per mano di Vanessa Friedman, la notizia di moda più bizzarra di questa
fine dell’anno: a New York ha sfilato la prima collezione creata interamente con
lana di pecore gay. La linea, ribattezzata “I Wool Survive” (un gioco di parole
su I Will Survive), è realizzata con lana ricavata dagli arieti omosessuali che,
non accoppiandosi con le femmine, vengono solitamente scartati e inviati al
macello. 37 look di pura lana, interamente lavorati a mano, presentati in quella
che Schmidt definisce “non una sfilata, ma un progetto di diritti umani e
animali”, per dimostrare, con la forza della natura, che l’omosessualità “non è
una scelta”.
Tutto parte da Michael Stücke, un allevatore cresciuto in una famiglia
conservatrice della Germania occidentale. Dichiararsi gay, per lui, significò
lasciare la fattoria dei genitori e costruirsi un futuro altrove. Oggi vive con
500 pecore, tra cui 35 montoni “non procreatori” salvati dal macello. Con
l’amica Nadia Leytes si è posto una domanda semplice: cosa accade agli animali
gay negli allevamenti? La risposta è il macello, appunto. Così nasce Rainbow
Wool, il progetto che recupera questi animali e utilizza la loro lana — più
abbondante rispetto alle femmine, che smettono di produrla durante la gravidanza
— per finanziare attività agricole e cause LGBTQ+.
La svolta arriva quando Leytes scrive a Grindr. Tristan Pineiro, responsabile
marketing del social, si innamora della storia: “I montoni gay sono un metafora
perfetta: scartati, dimenticati, considerati inutili“, ha spiegatoal NYT. Grindr
coinvolge Michael Schmidt, più noto per cristalli, metallo e 3D-printing che per
i ferri da maglia. Ma quando arriva in Germania, incontra una storia che gli
“spacca il cuore”, come ha ammesso. La soluzione? Fare ciò che sa fare meglio:
spettacolo — e provocazione. Schmidt riceve 30 scatole di filati Rainbow Wool e
sceglie di “spingere al massimo l’immaginario gay”. Da qui nasce una passerella
fatta di motociclisti in maglia, pool boys in tutina lavorata ai ferri, rocker
in cable knit, e persino gladiatori con spade… crochettate. “La gente nota ciò
che è sexy“, ha sottolineato Schmidt. “Il sexy attira lo sguardo. E lo sguardo
porta alla storia“.
I modelli — robusti, muscolari, volutamente “macho-man” — sfilano avvolti in
salopette, braghe, short e robe da spogliatoio… tutte realizzate a maglia. Pezzi
che sembrano usciti da una nonna molto camp e molto queer. Il risultato è buffo,
teatrale, dichiaratamente tongue-in-cheek. Ma se si toglie il contorno
narrativo, restano capi veri: maglie preppy, polo, shorts e cardigan di ottima
lana, con una texture che Schmidt definisce “lussuosa e piacevole sulla pelle”.
Grindr porterà i pezzi in tour nel 2026, mentre Schmidt valuta la vendita di
alcune creazioni tramite Maxfield a Los Angeles e sul suo sito, destinando parte
dei ricavi all’azienda di Stücke. “È un triplo vantaggio: per la comunità, per
gli animali e per il progetto agricolo“, spiega Leytes. L’ambizione è chiara:
spingere altri allevatori nel mondo a salvare i propri montoni “non
procreatori”, invece di mandarli al macello.
Per Schmidt, la moda qui è solo un mezzo: “Questa non è una collezione di moda.
È un’idea. È la prova che l’omosessualità non è una scelta umana ma un fatto
naturale. Innegabile, persino tra gli animali”. E Pineiro lo riassume con un
colpo di genio: “Non puoi dire che le pecore sono state corrotte dalla cultura
woke“. Da qui il gioco di parole perfetto che dà il titolo allo show: “I Wool
Survive”. E sì, dopo aver visto biker in tutine lavorate ai ferri, è difficile
sostenere il contrario.
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L'articolo A New York sfila in passerella la prima collezione fatta solo con
lana di pecore gay: “Anche i montoni sono omosessuali e vengono uccisi per
questo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando la denuncia che fai ti si rivolta contro. Il caso di Olivia Henderson è
tanto controverso quanto inusuale. La giovane rider statunitense è stata
arrestata con l’accusa di violazione della privacy dopo aver condiviso un video
su TikTok denunciando l’atteggiamento del suo cliente, che l’aveva accolta nudo
in casa sua durante la consegna a domicilio. Il fatto, avvenuto il 12 ottobre
scorso in un abitazione di Oswego nello stato di New York, ha portato
inaspettatamente all’arresto della ragazza dopo che il video pubblicato era
diventato virale.
Nel video, Henderson ha raccontato la sua esperienza, affermando: “Il cliente ha
chiesto che l’ordine venisse lasciato davanti alla sua porta, ma quando sono
arrivata a casa sua, la porta era spalancata e lui era in bella vista, sdraiato
sul divano, indecentemente esposto ai miei occhi.” La giovane ha descritto
questo comportamento come una forma di aggressione sessuale e subito dopo ha
deciso di sporgere denuncia alla polizia.
Tuttavia, le indagini della polizia hanno portato a un esito inaspettato. Bryan
Thompson, capitano della polizia di Oswego City, ha messo la luce su un altra
prospettiva e ha stabilito che “l’uomo era privo di sensi sul suo divano a causa
del consumo di alcol, e non si è verificata alcuna aggressione sessuale”.
Appurato ciò, Thompson ha appurato che il video era stato registrato
dall’interno dell’abitazione il che ha portato all’incriminazione di Henderson
per “sorveglianza illegale” e “diffusione di un’immagine di sorveglianza
illegale”.
Il capitano ha dichiarato: “Lo ha registrato senza autorizzazione e
successivamente ha divulgato tali filmati“, evidenziando la necessità di
considerare attentamente le conseguenze prima di condividere contenuti sui
social media. L’arresto di Henderson solleva importanti questioni riguardanti il
comportamento appropriato in circostanze sensibili e il diritto alla
riservatezza. In seguito all’arresto, Henderson è comparsa davanti al tribunale
ed è stata rilasciata con obbligo di presentarsi alla sentenza fissata per il 4
dicembre.
La ragazza ha perso il lavoro e l’azienda si è espressa con una nota: “la
pubblicazione di un video di un cliente nella propria abitazione e la
divulgazione dei suoi dati personali costituisce una evidente violazione delle
nostre normative”. Se giudicata colpevole, potrebbe affrontare una pena
detentiva fino a otto anni.
L'articolo “Il cliente era nudo sul divano, la porta era aperta, è stata una
forma di molestia sessuale”: la rider filma tutto e denuncia ma è lei ad essere
arrestata. Il motivo? “L’uomo era privo di sensi” proviene da Il Fatto
Quotidiano.