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Così l’Egitto controlla e reprime i gruppi della società civile
Anche dopo la chiusura del famoso “caso 173” contro le organizzazioni non governative locali – un’indagine durata 13 anni e archiviata un anno fa – le autorità egiziane continuano ad accanirsi contro i gruppi della società civile. Attraverso interviste con esponenti di 12 ong e l’analisi di documenti ufficiali, Amnesty International ha reso noti una serie di casi in cui, servendosi della legge 149 del 2019 sulle associazioni, il governo del Cairo continua a imporre un controllo pressoché totale sulle organizzazioni della società civile. L’Unità per le associazioni e il lavoro civile del ministero della Solidarietà sociale, responsabile della regolamentazione e del controllo delle organizzazioni non governative, impone un processo preventivo di registrazione completamente arbitrario: può ritardarla o rifiutarla se ritiene che i fini statutari violino le leggi (il che vuol dire tutto e nulla), fare ispezioni senza preavviso, bloccare i finanziamenti e interferire nella composizione degli organi direttivi al punto da obbligare alle dimissioni i loro componenti. Questo organismo può anche sciogliere le associazioni o confinarle nell’ambito del cosiddetto “sviluppo sociale”, impedendo loro di svolgere attività in favore dei diritti umani. Questo bavaglio è reso più stretto dall’azione dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (i famigerati servizi segreti interni), che minaccia le attiviste e gli attivisti delle associazioni attraverso telefonate, convocazioni illegali e pesanti interrogatori ma che spesso usa metodi più pesanti, come le sparizioni forzate e le torture. Un emendamento dell’anno scorso alla legge del 2019 consente di avviare procedimenti penali nei confronti di coloro che ricevono finanziamenti dall’estero per “atti ostili contro l’Egitto”: è prevista addirittura la pena di morte. L’effetto di tutto questo è raggelante: i centri congressi rifiutano di ospitare eventi senza l’autorizzazione delle autorità competenti e anche quando questi si svolgono sono pesantemente presidiati da agenti in borghese. Ogni contenuto audiovisivo che s’intende mostrare dev’essere prima visionato e approvato. Le banche rifiutano di lavorare sui conti correnti delle associazioni senza l’ok dalle autorità: ci sono stati casi in cui l’attesa è durata fino a 15 mesi, impedendo così alle associazioni di svolgere attività e pagare gli stipendi ai loro dipendenti. L'articolo Così l’Egitto controlla e reprime i gruppi della società civile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La procura di Torino aveva archiviato l’indagine sull’imam Shahin che Piantedosi vuole espellere
Una denuncia presto archiviata dai pm perché non c’era nessun reato. La Digos della Questura di Torino aveva trasmesso alla procura un’annotazione sulle frasi pronunciate durante una manifestazione pro-Palestina il 9 ottobre da Mohamed Shahin, imam della moschea di San Salvario che aveva affermato di non ritenere gli attacchi di Hamas una violenza. Nelle sue frasi, per le quali la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli ha di fatto chiesto e ottenuto dal ministro Matteo Piantedosi l’espulsione del religioso, la procura non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. Era quindi stato aperto un fascicolo “modello 45” per “fatti non costituenti notizie di reato”, poi archiviato. E così, quando il Viminale ha chiesto all’autorità giudiziaria se ci fossero ragioni contrarie all’espulsione, come l’esistenza di importanti procedimenti a suo carico, l’autorità giudiziaria torinese ha risposto con un nulla osta. Non un’autorizzazione – precisano dagli uffici –, ma la risposta a una precisa domanda del ministero. Shahin, egiziano di 46 anni, da oltre venti anni in Italia, si trova ancora rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio a Caltanissetta, lontano centinaia di chilometri dalla moglie, una mediatrice culturale, dai due figli e dai suoi avvocati, Fairus Ahmed Jamas e Gianluca Vitale. Venerdì la Corte d’appello di Torino ha convalidato il suo trattenimento nel Cpr siciliano. Il giorno prima, nel corso dell’udienza, collegato in videoconferenza con la giudice Maria Cristina Pagano, Shahin aveva affermato: “Non sono un sostenitore di Hamas e non sono una persona che incita alla violenza”, aggiungendo di ritenere che “anche il popolo palestinese dovrebbe avere una propria sovranità”. Alla giudice, l’imam ha affermato che un rimpatrio in Egitto metterebbe a rischio la sua incolumità per via delle sue posizioni contrarie al regime di Abdel Fattah Al-Sisi e che alcuni parenti sono stati arrestati per questo motivo. Sempre nel corso dell’udienza, sono emersi due elementi che hanno portato il ministero a ritenerlo pericoloso per lo Stato italiano. In sostanza, a Shahin vengono contestati due contatti. Il primo è quello con Gabriele Ibrahim Delnevo, un 23enne genovese morto da foreign fighter in Siria. I due erano stati fermati nel marzo 2012 per un controllo occasionale a Imperia. L’imam ha spiegato di non aver conosciuto bene Delnevo. Il secondo riguarda invece Elmadhi Halili, un giovane condannato per aver propagandato materiali dell’Isis in lingua italiana. Alla base, ci sarebbe un’intercettazione messa agli atti dell’ultima inchiesta su Halili, una conversazione nella quale diceva a un suo contatto di andare alla moschea di via Saluzzo. Alla giudice, Shahin ha spiegato di averlo visto in alcune occasioni frequentare il centro di preghiera, nulla di più. Nessun coinvolgimento maggiore nelle attività dei due, ma dei contatti sporadici sono bastati al ministero per decretarne l’espulsione. Venerdì, oltre al verdetto della Corte d’appello che conferma la permanenza nel Cpr, è arrivata anche quella della commissione territoriale della prefettura di Siracusa, che ha rigettato la domanda di protezione internazionale fatta lunedì, al momento del trattenimento di Shahin. Ora gli avvocati Vitale e Ahmed Jamas sono al lavoro per ricorrere contro tutte le decisioni prese finora dall’autorità contro Shahin: un ricorso in Cassazione contro il trattenimento, un ricorso al Tribunale civile di Siracusa contro il rigetto della domanda di protezione internazionale, uno al Tar del Piemonte contro l’annullamento del permesso di soggiorno e, infine, al Tar del Lazio contro il decreto firmato da Piantedosi in persona. L'articolo La procura di Torino aveva archiviato l’indagine sull’imam Shahin che Piantedosi vuole espellere proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Egittomania | Dal mega-museo inaugurato al Cairo al murale di Pietrasanta passando per i tesori dei faraoni alle Scuderie del Quirinale
Tutti pazzi per l’Egitto. La cosiddetta “Egittomania” parte da lontano, toccando periodi storici che hanno caratterizzato l’Europa, come il Rinascimento, quando l’opera Hieroglyphica fu scoperta a Firenze nel 1419 e attribuita ad Horapollon, filosofo greco del V secolo dopo Cristo, nato a Nilopoli in Egitto appunto. Oppure il furore egizio che accompagnò le conquiste napoleoniche. In pratica da allora un pizzico di follia per l’Egitto ci ha sempre accompagnati. Solo che oggi, diversamente da 200 anni fa, l’Antico Egitto e la civiltà che in esso si sviluppò sono al centro dell’interesse non più solo della comunità scientifica a vari livelli, ma anche del pubblico, proprio quello che due secoli fa non esisteva e che oggi invece richiede sempre più di emozionarsi di fronte a un reperto straordinario a una storia mai raccontata. Ed è per questo che al Cairo è stato inaugurato il Grand Egyptian Museum, il più grande museo egizio al mondo e uno dei più grandi musei archeologici esistenti dedicati ad un’unica civiltà. Ispiratore del nuovo grande museo è Zahi Hawass, l’archeologo ed egittologo egiziano di fama internazionale, già ministro del Turismo e delle Antichità d’Egitto. Ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato a Firenze, tra i protagonisti di “Stefano Ricci Explorer Symposium”, incontro esclusivo con i nomi più autorevoli dell’esplorazione mondiale, organizzato a Palazzo Vecchio. “Io sono colui che praticamente ha costruito quel museo – afferma Hawass – dopo che nel 2002 ricevetti l’incarico dall’allora ministro della Cultura. Utilizzando i proventi della mostra dedicata a Tutankhamon è stato finanziato il progetto della nuova costruzione”. L’ex ministro concede il merito al presidente Al Sisi che ha investito 2 miliardi di dollari e ha potuto rendere possibile il progetto, “scelto – sottolinea Hawass – tra gli altri 1600 che avevano risposto al bando lanciato nel 2002”. Il museo ha dimensioni colossali – circa 450mila metri quadrati che ospitano oltre 100mila reperti. Ma quali sono quelli da non perdere assolutamente? “Prima di tutto la statua di Ramsete II – aggiunge l’archeologo -, e quelle degli altri re e regine, poi le gallerie, i meravigliosi manufatti, ma più importanti di tutti i 5mila oggetti del tesoro di Tutankhamon“. Non tutto è in mostra. Quali altre sorprese può regalare l’Egitto? “Alcune le ho scoperte io. Per esempio la Città dorata, le aree archeologiche di scavo di Saqqara dove scoprimmo la tomba reale del figlio di un faraone. E comunque il 2026 sarà l’anno più importante dal punto di vista archeologico”. C’è poi il risvolto della medaglia, ovvero l’infinita dispersione dell’immenso patrimonio dell’Antico Egitto in giro per il mondo. Cosa ne pensa Zahi Hawass? Sostiene la tesi che gli oggetti provenienti dagli scavi siano diffusi sul pianeta o è bene concentrare i reperti nei luoghi di rinvenimento? “Dirò due cose: prima di tutto i musei devono smettere di acquistare reperti dell’Antico Egitto. La seconda: io vorrei riportare in Egitto tre oggetti molto importanti. La Stele di Rosetta in mostra al British Museum di Londra. Lo Zodiaco di Dendera che si trova al Louvre di Parigi e per il quale ho aperto una petizione in internet: appena sarà giunta a un milione di firme presenterò la formale richiesta di restituzione alla Francia. E infine un’altra petizione riguarda la Testa della regina Nefertiti che si trova al Neues Museum di Berlino“. E se qualcuno ha sì un debole per l’antico Egitto, ma si trova impossibilitato a recarsi al Cairo? Può intanto cercare soddisfazione nel visitare la grande mostra Tesori dei Faraoni, in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma fino al 3 maggio 2026. Curata da Tarek El Awady, che a suo tempo diresse proprio il Museo Egizio del Cairo, la mostra propone 130 preziosi reperti, 108 dei quali provengono dal suindicato Museo Egizio del Cairo, due manufatti giungono dal Museo di Luxor e 20 sono quelli riportati alla luce durante i recenti scavi condotti sulla riva occidentale di Luxor, nella cosiddetta “Città d’oro”, grazie a una missione archeologica egiziana diretta dal suddetto Zahi Hawass. E proprio quest’ultimo scrive nel bel catalogo che accompagna la mostra che “il più grande monumento mai costruito dall’Egitto non fu una piramide o un tempio, ma l’idea stessa di eternità”. E a quale elemento naturale possiamo affidare l’idea di eternità se non all’oro? Infatti il metallo più prezioso, simbolo del divino e dell’eternità, è il vero protagonista di questo itinerario nel mondo dell’antico Egitto. Basta pensare al sarcofago dorato della regina Ahhotep II, per esempio, alla Collana delle Mosche d’oro, che andava in premio a chi si era distinto in battaglia, oppure al collare di Psusennes I, tutti oggetti che dimostrano quanto l’ornamento potesse diventare linguaggio politico e riflesso di una teologia del potere. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Scuderie del Quirinale (@scuderiequirinale) Dalle mostre temporanee a quelle permanenti: infatti se da un lato gli amanti dell’arte egizia in ogni momento dell’anno possono visitare i due musei italiani dove più alta è la concentrazione di reperti appartenenti al polo delle Piramidi – il Museo egizio di Torino e il Museo Archeologico Nazionale di Firenze -, anche solo per curiosità vale la pena ricordare ciò che sta avvenendo su un muro dell’antico complesso monumentale di Sant’Agostino, a Pietrasanta, in Versilia. Qui un artista di origine siciliana – Tano Pisano – lo scorso luglio collocò un murale di sei metri per due di altezza dedicato alla guerra israelo palestinese. Erano settimane durissime e le notizie di continui eccidi e bombardamenti di innocenti si rincorrevano. L’artista concepì l’opera – dal titolo emblematico PACE – come un “puzzle” di 48 pannelli in plexiglas dipinti in maniera astratta o figurativa, che appena un mese dopo la sua presentazione al pubblico iniziò una lenta, inesorabile trasformazione: infatti un elemento per volta veniva sostituito con un ritratto e via via così fino a dopo Natale, quando l’opera non sarà più una costruzione poetica astratta, bensì un murale composto da quasi 50 volti dipinti dall’artista. In pratica ogni settimana circa, due coloratissimi pannelli dipinti lasceranno spazio a un numero sempre maggiore di immagini dei “ritratti del Fayyum”, ispirate cioè ai dipinti straordinariamente realistici che datano tra il I secolo avanti Cristo e il III dopo Cristo, e ritrovati nella famosa necropoli in Egitto. Realizzati quando il protagonista era ancora in vita, dopo la sua morte questi ritratti venivano attaccati ai sarcofagi del defunto e in pratica rappresentano la “invenzione” dell’immagine del defunto sulla tomba che ancora oggi viene collocata in alcuni cimiteri. Da segnalare che già nella “iniziale versione” del murale PACE vi era un ritratto del Fayyum che nella parte superiore reca le bandiere della Palestina e di Israele, vicine, affiancate così tanto da non sembrare simboli di popoli in lotta. Poi i ritratti degli antichi egizi defunti, sono aumentati a dismisura, chiarendo che tutto ciò è pensato in funzione di una “chiamata alla pace”, da contrapporre alle troppe “chiamate alle armi” che Tano Pisano – siciliano di nascita e versiliese d’adozione – percepisce, poiché anche l’artista, come tanti altri del resto, ammette di essere sopraffatto dalla realtà che rivela una pericolosa mancanza di spazi mentali di libertà. L'articolo Egittomania | Dal mega-museo inaugurato al Cairo al murale di Pietrasanta passando per i tesori dei faraoni alle Scuderie del Quirinale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La storia di Kareem, giovane egiziano che si è realizzato in Italia grazie a progetti di inclusione sociale
Diciassette anni, un’infanzia trascorsa in mezzo ai campi, in Egitto, nei pressi di Asyut insieme alla sua famiglia, coltivatori da sempre. Di qui l’amore per la terra e i suoi prodotti e il sogno di farne un’attività commerciale moderna. Decide di andare via per raggiungere il fratello già da un po’ in Europa. Il vero viaggio, come per tanti egiziani, comincia all’aeroporto di Istanbul, dove arriva in volo dopo un lungo giro. Poi il campo profughi, una prigione, l’Europa paga Erdogan perché se li tenga lui i migranti. Quattro mesi così, poi fugge con altri su una barca, stanno in mare 5 giorni dalle coste della Turchia alla Sicilia. Un mese in un centro d’accoglienza in attesa che gli facciano qualche documento per provare a costruire la sua speranza, si accorge che va tutto troppo a rilento. Il tempo passa e non va avanti, allora viene a Torino. Ci arriva il 24 aprile 2021. Viene preso in carico dall’Ufficio Minori e collocato in una comunità gestita dai Salesiani in borgo San Paolo, viene iscritto subito ai corsi di lingua e poi alla terza media nel vicino Cpia. Mentre mi racconta delle sue maestre (Valentina, Eloisa, Sara…), un luccicone sottolinea il ricordo intenso dell’esperienza. Intanto diventa maggiorenne, l’italiano lo parla abbastanza bene e può affrontare le tappe necessarie alla realizzazione del suo progetto, lo aiutano in tanti, ma più di tutti l’educatrice di A.M.M.I. che adesso è diventata (dice lui) una sua seconda mamma. È lei ad accoglierlo e a inserirlo nel progetto “Youth & Food – il cibo veicolo di inclusione” presentato da Slowfood, allora appena scelto da Con i Bambini, soggetto attuatore del “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile” – il risultato di un’intesa fra il governo, il Forum Nazionale del Terzo Settore e l’Acri (associazione delle fondazioni di origine bancaria) – per “sostenere interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori”. Kareem presenta la domanda e viene reclutato per una borsa lavoro di tre mesi abbinata a un corso di cucina implementato dal partner di progetto Coop. Meeting Service Catering. Lo stage si svolge presso Eataly di Torino nel reparto ortofrutta è gestito da OrtoBra (Gourmet). Si accorgono di lui e arriva la proposta: finito il corso di cucina, accettare la proposta di un contratto di apprendistato per fare ciò che desiderava da sempre, lavorare con i prodotti della terra. Il 2 ottobre 2022 prende servizio, prima a Torino per l’addestramento, poi nel negozio di Milano. Kareem ha trovato la sua strada e in poco tempo ha percorso tutte le tappe dell’inserimento sociale. Questo grazie alla sua perseveranza e a qualche incontro fortunato con persone che si sono occupate di lui e ne hanno visto le potenzialità. I protagonisti: di Slowfood non sto a scrivere, è una realtà così diffusa e importante che è diventato quasi impossibile spiegarla in poche parole. Lo stesso per quanto riguarda Eataly. Invece in pochi conoscono OrtoBra dei fratelli Fessia, che è il vero perno di questa storia: un grossista (grosso) di frutta e verdura che si pone per davvero il tema della funzione sociale dell’impresa e che lo declina con praticità e concretezza. Azienda di circa 200 dipendenti in prevalenza al femminile, anche nel management, è ben nota invece nel mondo della qualità per le sue proposte e della solidarietà perché i suoi prodotti, donati ogni settimana di ogni anno, da molto tempo arrivano sulle tavole delle persone per cui la frutta è diventate un lusso da rimandare a tempi migliori. Quanto a Kareem, in quasi due anni da OrtoBra ha imparato non solo il mestiere di verduriere/fruttaiolo, ma anche quello del piccolo imprenditore che deve valorizzare i prodotti e trovare per ciascuno la giusta collocazione. Il sogno egiziano terminava con l’apertura di un’attività tutta sua. Sembrava impossibile, invece l’ha aperta qualche settimana fa con l’aiuto, in primis della Fondazione Compagnia di San Paolo e dell’Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali (A.M.M.I.) che lo sta affiancando nell’avvio dell’impresa. Kareem non lavora più da loro, adesso si è messo in proprio, ma il signor Riccardo di OrtoBra ogni tanto passa a vedere se è tutto a posto e se ha bisogno di qualcosa. Tutto vero, il suo negozio si trova in corso San Maurizio 71 a Torino, si chiama Abo El Omda. C’è tanta roba buona, ben oltre la frutta e la verdura. L'articolo La storia di Kareem, giovane egiziano che si è realizzato in Italia grazie a progetti di inclusione sociale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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